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[Strutture]

 

 

I fabbricati dell’alpeggio

Qualche premessa

 

Caratteri originari

Strutture “primitive” ma diligente sistema di utilizzo del pascolo

Ripari sotto roccia e baitelli (una civiltà della pietra giunta sino a noi)

Il bàrech struttura originaria

Ricami di pietre sui pascoli

Pietra su pietra

La malta non era sconosciuta

 

Le linee evolutive degli ultimi secoli

Un primo esempio di “moderno” fabbricato specializzato: la sòstra

All’aperto

L’ era degli “stalloni”

Altri ricoveri per gli animali

Corsi e ricorsi: si torna alle tettoie

 

Le differenze legate all’ambiente

Neve e acqua

I villaggi dei folletti

Una macchina del freddo della civiltà contadina: la nevèra

Acqua dal cielo

 

Il cuore dell’alpeggio: la caséra

Varietà di tipologie

La cucina

Modernità a doppio taglio

 

La casera dell'Alpe Culino (Valgerola, So)

La casera dell'Alpe Trona (Valgerola, So)

Qualche premessa

La dotazione e la tipologia dei fabbricati d’alpeggio varia molto in funzione dell’estensione dei pascoli e dei modelli organizzativi. Il clima, la disponibilità idrica, i materiali da costruzioni disponibili in loco rappresentano altrettanti elementi di diversificazione di tecniche di costruzione. I fattori che condizionano maggiormente la tipologia dei fabbricati d’alpeggio sono rappresentati dal tipo di gestione (“unitaria” o “dissociata”) e dalla suddivisione dell’alpeggio in “stazioni”. Nelle alpeggi-villaggio, dove numerose famiglie utilizzano ciascuna una propria baita al livello inferiore vi è una piccola stalletta mentre, a quello superiore, si trova un unico vano per la lavorazione del latte e le funzioni abitative.

Negli alpeggi gestititi quali vere e proprie aziende vi sono strutture “specializzate” per la produzione e la conservazione dei latticini e per il ricovero degli animali. Questi edifici, però, si trovano molto spesso solo presso la stazione principale. Dove vi sono diverse stazioni i fabbricati di cui sono dotate possono essere molto semplici.

 

Caratteri originari

 

Strutture “primitive” ma diligente sistema di utilizzo del pascolo

Negli alpeggi le stazioni variano da 2 a 6, ma possono essere più numerose. In questi ultimi troveremo fabbricati molto primitivi, realizzati con pietrame a secco e, a volte, senza copertura permanente. Il caso più emblematico è offerto dai calec’ delle valli del Bitto (un tempo diffusi anche in val Tartano e in alta val Brembana). Essi sono rappresentati da una semplice capanna (4 x 6 m in pianta) costituita da un muretto a secco alto 0,8-1,0 m. La copertura è costituita da un telone impermeabile sorretto da pertiche (in passato da tavole di legno). Il calec’ si usa solo per alcuni giorni durante i quali la mandria pascola nelle vicinanze. Nel calec’si lavora il latte e, a volte, funge ancor oggi da ricovero notturno dei pastori. Terminato l’utilizzo il telo di copertura e tutti gli arnesi di caseificio vengono trasferiti in un altro calec’.

Le cassine del passato non erano molto diverse dai calec’. In Val Grigna, nella media Valcamonica, si osservano malghe con ruderi in pietra a secco distribuiti su 7-8 stazioni (oggi se ne utilizzano solo 2 ricostruite con uso della malta). Queste cassine erano costituite da un semplice recinto di muro a secco alto circa 1 m. Per la copertura si usavano scandoloni di larice (tronchi tagliati a metà e rozzamente squadrati); rispetto ai calec’ questi fabbricati erano più grandi e suddivisi in due spazi di cui uno utilizzato per l’affioramento del latte.

L’uso di costruzioni in pietra a secco con copertura mobile di tavole di legno era più diffuso in passato. Gli antichi statuti dei comuni fanno riferimento alle cassine come a costruzioni soggette a frequente rifacimento. Lo statuto di Tirano (secoli XVI-XVIII) dedica un apposito capitolo a “Che si Facciano le Cassine nelle Alpi, è in che Modo si hanno da Fare”. Una delle prescrizioni stabiliva  “che si habbino da restare le predette Cassine per anni duoi senza essere rotte”. Ci si preoccupava molto del legname di copertura: “ogni volta che saranno mudate dette Cassine quelli che a quali il Decano haverà datto Carico di Tenere conto dell’Legname dell’Tetto delle dette Cassine sia tenuto consegnarlo per uso delle altre Cassine, che si muderanno”. Questo “mudar cassina” non va inteso come spostamento nel corso della stagione, ma da un anno all’altro. Le cassine “mobili” rappresentavano un sistema per utilizzare meglio il pascolo, evitando il degrado conseguente all’utilizzo del medesimo sito per molti anni di seguito.

La presenza degli animali (con le loro deiezioni) e degli scarti della lavorazione del latte determinano, nell’area prossima alle cascine, un eccesso di apporto di elementi nutritivi con conseguente instaurazione della “flora ammoniacale”. Essa, costituita da ortiche, romici, senecio alpino, aconiti ecc., sono piante prive di valore foraggero, alcune velenose.

In Valgerola ancora oggi ciascun calec’ viene utilizzato a rotazione ogni due o più anni in modo utilizzare e fertilizzare in modo uniforme tutti i settori di pascolo. Con l’avvento delle costruzioni con copertura fissa, e con una sia pur rozza pavimentazione, il comfort dei pastori è aumentato ma l’utilizzo del pascolo è peggiorato.

In passato l’erba era una risorsa preziosa. Il tempo e la fatica impiegati per procurarsela erano immensi. Il caricatore e il capo alpe, ma anche i pastori, specie se anch’essi proprietari di alcuni capi di bestiame, avevano un chiodo fisso: garantire l’erba alle bestie. Ancora oggi molti alpeggiatori si dimostrano indifferenti al comfort degli spazi abitativi, l’importante è che le bestie abbiano una buona “pastura”.

 

Ripari sotto roccia e baitelli (una civiltà della pietra giunta sino a noi)

I primi alpeggiatori hanno utilizzato come ricovero dei ripari sotto roccia. Per la custodia del bestiame realizzarono, nello spazio antistante questi ripari, un recinto circolare in pietra a secco. Questa primordiale struttura in Piemonte è denominata giaz. Anche sui nostri alpeggi non mancano i baitelli realizzati sotto roccia; spesso si tratta di piccoli ripari utilizzati dai custodi delle pecore o dagli addetti al controllo delle manze.

Si tratta di ricoveri così angusti che spesso si deve entrare a carponi. A volte, però, sotto grandi blocchi di roccia, sono stati ricavati spazi abbastanza confortevoli e persino stalle.  In val Masino, all’Alpe Qualido, sotto un grande blocco di roccia, è stata ricavata una stalla per 40 mucche. Gli spazi ricavati sotto roccia sono utilizzati anche per conservare al fresco il latte. In val Masino, dove sono numerosi i grandi massi granitici, la civiltà alpina della pietra si manifesta anche con altre costruzioni molto primitive: i càmer.

Un facoltoso agricoltore milanese della metà dell’ ‘800, mentre si sottoponeva alle cure termali ai Bagni, osservò con occhio stupito questa realtà e la descrisse in un contributo pubblicato sul Giornale agrario lombardo-veneto del 1853:

“Dalla mandria bovina composta di cinquanta capi in circa di taglia mezzana, e di discreta magrezza, che ritorna dal pascolo lontano per fermarsi su quello vicino al casotto di sassi a ruminare a cielo libero durante la notte si comincia a prendere il latte, che viene riposto al fresco sotto un macigno. Una seconda mandria di pecore e capre presso a poco del medesimo numero somministra altro latte. All'apparire del giorno si tornano a mungere ambedue gli armenti, ed il latte ricavato unito a quello della sera e mescolato insieme si getta verso le nove nella caldaja. Come è semplice il ripostiglio per conservare il latte fresco, così osservasi quello destinato per il luogo d’ ebollizione. Chi assuefatto nel milanese e lombardo a trovare vasti fabbricati forniti di tutti i congegni finamente travagliati e destinati a tale operazione, resta sorpreso, nell’osservare un piuolo di legno fermo in alto e girante all’imbasso entro un incavo del macigno il quale munito d’un braccio sostiene la caldaja che dopo d’avere ricevuto la necessaria temperatura deve essere ritirata dal fuoco. Quest’ apparecchio è difeso dalla pioggia e dal sole per sassi ammonticchiati gli uni sopra gli altri in modo da formare una specie di casotto, entro il quale trovasi sopra una banca [panca: lo spersolo nda]la forma fissata a ricevere la sostanza caseosa che ridotta a debita consistenza viene in seguito riposta nella casera”.

Sui nostri alpeggi non sono rare costruzioni realizzate esclusivamente in pietra; tra queste vanno citati anche i baitelli annessi ai bàrech (i recinti in muro a secco per la custodia del bestiame). Spesso questi baitelli erano appoggiati ad un grande masso erratico. Nell’alto Lario occidentale troviamo dei piccoli barech a pianta ellittica che presentano sul perimetro una bassa capanna in pietra a secco (altezza 1,5 m). La capanna era coperta un tempo da una sola lastra di pietra. Anche in Valcamonica, sul perimetro di grandi barech circolari, non si fa fatica a rintracciare le tracce di primitive capanne con copertura costituita da lastre di pietra sovrapposte.

In passato i pastori hanno utilizzato probabilmente anche delle capanne con copertura in rami di abete (così come i carbonai). Nell’alto Lario occidentale il Pracchi (1942) segnalava una costruzione per il ricovero degli ovini (barchèt) priva di copertura stabile; al posto del tetto vi erano dei travetti per sostenere rami frondosi collocati all’inizio dell’estate.

 

Malga Foppe di Braone (Valcamonica, Bs), anfratto utilizzato un tempo per riporvi il latte

Alpe Trona (Valgerola, So) Calecc'

Barech annesso a un fabbricato in una Malga dell' Alta Val trompia

 

 

Il barech struttura originaria

Oggi si stenta a credere agli sforzi che sono stati dedicati per creare, mantenere e migliorare i pascoli. Togliere una pietra significava disporre di un ciuffo d’erba in più per gli animali. Con le pietre raccolte si sono edificate le baite, ma anche tante altre strutture che caratterizzano il paesaggio dell’alpeggio.

Una delle opere più importanti e caratteristiche degli alpeggi sono i già citati recinti (detti nell’italiano arcaico dei documenti baregi, barchi, barichi). Tali recinti sono alti tra 0,4 e 1,2 m (0,8 m in media) e sono larghi 0,4-0,5 m. Sono provvisti di una o più aperture chiuse da pertiche.  Facilitano la sorveglianza del bestiame ed evitano la sua dispersione in caso di temporali.

I barech di tipo più primitivo sono irregolarmente circolari; quelli più “moderni” sono a pianta geometrica regolare (spesso rettangolare). Anche la tecnica di costruzione si è evoluta; da una struttura muraria irregolare si è passati alla disposizione di lastre in posizione verticale. Spesso il muro è coperto da lastre piatte disposte orizzontalmente.  I piccoli barech dell’alto Lario erano dotati di un selciato e di aperture nel muro a valle per consentire lo sgrondo delle acque meteoriche (e quindi la “fertirrigazione” del pascolo). Osservando quelli più grandi ci si rende conto che un semplice recinto di muro a secco può nascondere una inaspettata ripartizione funzionale; tra i loro ruderi possiamo infatti intuire la presenza di pollai e stabièl (ricoveri per i suini).

 

Ricami di pietre sui pascoli

Nelle valli orobiche occidentali (soprattutto nelle valli del Bitto e in alta val Brembana), il sistema dei barech ha rappresentato anche un sistema di suddivisione in settori del pascolo (secoli prima dei “recinti elettrici”). I relatori dell’Indagine sui pascoli alpini della provincia di Sondrio (1904) si esprimevano in modo entusiastico su questo sistema:

“molti rinettamenti da pietre siano stati eseguiti, servendosi in modo assai lodevole delle pietre raccolte per compiere una suddivisione del pascolo in molti recinti”

Le osservazioni dell’ “Inchiesta” mettono in evidenza come il sistema dei barech rappresenti un metodo efficace di concimazione.

 “La concimazione è praticata in modo uniforme per tutte le alpi della zona, col sistema detto dello smandramento. Cioè su appezzamenti già pascolati, recinti dai barech, si fa pernottare il bestiame; a brevi periodi di pochi giorni si muta il recinto di pernottamento; e così si compie questa stabbiatura in tutte le zone nelle quali essa sia possibile, per le condizioni di pendenza.”

Ma le fatiche dei pastori non finivano qui. Gli animali hanno necessità di uno spazio pianeggiante per sdraiarsi e non è possibile mantenere le mandrie di notte su pendii ripidi. Per poterlo fare comunque e poter così concimare anche queste superfici (e ottenere così una discreta produzione di foraggio) si arrivata a creare delle piazzole per ciascuna mucca.

“In alcune alpi si migliora il sistema, estendendo più che possibile la mandratura (Postareggio). E cioè riuscendo a far pernottare il bestiame anche in località piuttosto ripide, col costruire nell’interno dei barech piccoli spiazzi o ripiani, su ciascuno dei quali può riposare una bestia, e donde poi le deiezioni si spargono facilmente tutt’intorno”

I barech possono essere di dimensioni molto variabili: da poco più di un centinaio di m2 a migliaia di m2. In alta val Brembana si osservano in diversi alpeggi veri e propri “ricami di pietra” rappresentati da  sistemi di barech affiancati gli uni agli altri.

 

Pietra su pietra

Con le pietre raccolte sui pascoli si realizzavano anche lunghi muri di confine (pr evitare sconfinamenti e controversie). Si costruivano poi i muri a protezione (dal bestiame) dei prati da sfalcio e degli orti, quelli di protezione (del bestiame) dai salti di roccia e burroni, le opere “frangislavina” a protezione dei fabbricati.  Tutto questo immenso lavoro era soggetto a frequente ripristino e manutenzione. Nelle condizioni di affitto dell’Alpe Monte Alto contenute nello statuto (XIV secolo) di Costa Volpino (Bg), si precisava che l’alpe era concessa all’appaltatore “fazando perhò alli soy proprii spese le cassine, li beregi e grassi”.  Era un mondo dove vi era una grande abbondanza di pietre e di braccia.

Il legname, invece, era prezioso in quanto materiale da opera ma anche quale fonte energetica. Ciò era particolarmente vero nelle aree dei grandi laghi, dove la vicinanza con le città e la facilità di trasporto avevano determinato alla fine del ‘700 lo sfruttamento intensivo delle risorse boschive. Esso, unito alla “fame di pascolo” dell’ ‘800, avevano portato a denudare i monti. I capitolati d’affitto del 1861 dell’Alpe di Casasco e Cerano (Co) erano draconiane nell’imporre l’uso della pietra a secco (in luogo di palizzate) per realizzare la cinta dell’orto:

Art. 23. Resta assolutamente proibito di cingere il sudd.° fondo ad uso d’orto con siepe di qualsiasi sorta di legna viva o morta, quand’anche l’affittuario comprovasse alle Giunte M.li di aver usata propria o di altri regolarmente acquistata […] Contravvenendo a tali proibizioni, oltrechè la siepe verrà immediatamente fatta distruggere, e la legna che la costituisce rimarrà a favore delli due Comuni locatori, e l’importo per metà sarà devoluto alle Guardie Boschive che praticheranno l’invenzione.

Laddove non si vi era più nulla di utile che potesse essere realizzato con le pietre raccolte, i sassi venivano accumulati in murache a forma di parallelepipedi irregolari. 

 

Malga Poffe di Stabil Solato (Valtrompia, Bs), frangislavine e murache

Alpe Bomino (Valgerola, So): barech dalla pianta regolare vicino alle baite

Barech in serie all'Alpe Azzaredo (Alta Val Brembana, Bg)

 

 

La malta non era sconosciuta

La grande diffusione delle opere in muratura a secco non deve far credere che sugli alpeggi non fossero utilizzate tecniche di costruzione sofisticate. Nonostante l’elevato costo della calce a partire dall’inizio del ‘700 secolo opere in muratura in malta.. A Vedeseta (val Taleggio) il comune si preoccupava di mettere a disposizione dei  “bergamini” transumanti che affittavano gli alpeggi dei fabbricati con buone condizioni igieniche per la lavorazione del latte . Venivano così stabiliti dei precisi capitolati d’appalto per la manutenzione straordinaria delle casere dove sono specificate in dettaglio tecniche e materiali di costruzione con particolare attenzione alla malta.

Nel corso dell’ 800 l’uso delle murature in calce si diffonde. A metà del secolo un inventario degli alpeggi del comune di Breno nella media Valcamonica ci informa che casere in muratura in calce erano presenti sia negli alpeggi affittati ai transumanti che in quelli concessi in uso ai proprietari di bestiame del comune. Il sistema dell’affitto era molto diverso da quello della val Taleggio e ricalcava le antiche consuetudini; una casera era stata edificata di recente con pietra a secco a cura degli stessi affittuari.

 

Modelli originari e linee evolutive

 

Un primo esempio di “moderno” fabbricato specializzato: la sòstra

La struttura “a corte” tipica di alcuni alpeggi dell’area prealpina si è evoluta dal barech attraverso la progressiva aggiunta di edifici più complessi e specializzati.

In un atto del 1709 si definisce così l’Alpe comunale di San Fedele (Co): “Alpe, casera, barico, et casello”.  Qui intorno al “barico” vi sono solo “casera” e “casello”. Oltre un secolo dopo, nel 1835, in un documento del vicino comune di Casasco l’alpeggio tipo è descritto come costituito da “[…] una corte detta barco, di casine dette casere, ed anche di altri edifici come sostre, stalle, caselli, nevere […].” L’originale recinto di muro a secco è diventata una “corte” selciata dove si affacciano diversi edifici destinati al ricovero degli animali e alla lavorazione del latte.

Nel Lario Intelvese le “corti” chiuse da muri erano ancora presenti nei primi decenni del ‘900. Esempi di alpeggi con una corte chiusa s da fabbricati e da mura non mancano sia nella zona lariana (es. Alpe Nesdale in val Senagra) che in Valcamonica.

L’apparizione nel ‘700 della sòstra segna una tappa importante nell’evoluzione delle strutture dell’alpeggio. La sòstra rappresenta un tipo intermedio tra la stalla e la tettoia ed è tipica degli alpeggi di alcune valli comasche. Su un lato vi sono diverse arcate distanziate regolarmente per favorire l’ingresso e l’uscita degli animali. La copertura è a volta in muratura. La pavimentazione era in selciato (“rizzo”) e, nel muro opposto alle entrate, erano infissi anelli per legare gli animali. vari tipi di tettoie (sòste, tècie, penzàne, camàne, bàrch) sono diffuse anche in altre aree.

 

All’aperto

Fino a tempi abbastanza recenti nella maggior parte degli alpeggi il bestiame non disponeva di ricoveri  ma era rinchiuso nei barech o si riparava dalle avversità atmosferiche nelle fasce boscate ai margini dei pascoli o in grotte naturali.

In val Taleggio (ma anche altrove) le vacche, dopo la mungitura serale, venivano legate, ad una ad una, con una corda ad un picchetto infisso nel terreno. Alla mattina le mucche venivano munte ancora legate. L’area dove gli animali venivano tenuti al picchetto veniva spostata ogni 2-3 giorni.  Tale sistema richiedeva una continua sorveglianza notturna del bestiame. Vi sono degli anziani che ricordano il freddo pungente delle prime ore del mattino quando “per non congelare i piedi” si attendeva che una mucca orinasse per poterli scaldare con il caldo liquido organico.

 

L’era degli “stalloni”

La costruzione di “stalloni” (stalù, stalun, baitù, baitun) rappresenta un miglioramento recente, introdotto alla fine dell’800 secolo e poi generalizzatosi nel secolo scorso. Insieme alle sòstre gli “stalloni” rappresentano una tipologia di edilizia rurale specifica dell’alpeggio. L’impegno tecnico ed economico richiesto per l’edificazione di queste strutture mette in evidenza l’importanza dell’alpeggio. Sino agli anni ’60-’70 del secolo scorso i ricoveri per gli animali degli alpeggi erano molto più grandi e “moderni” di quelli dei villaggi.

La diffusione degli “stalloni” è da mettere in relazione a quanto avvenne all’inizio del ‘900. In questo dalla pianura giungevano in alpeggio anche le mandrie di parecchi agricoltori (molti ex-“bergamini” che si erano “fissati” in pianura). Questi agricoltori, influenzati dai tecnici, erano convinti che per la salute e la produttività delle bovine fosse necessario mantenerle al chiuso durante la notte. Una grande azienda del milanese giunse ad utilizzare in un alpeggio della Valsassina grandi tende di tipo militare per ricoverarvi le mucche durante la notte.

Dove vi erano diverse stazioni i “baitoni”, costruiti in posizione centrale,  servivano solo a ricoverare al coperto il bestiame in caso di nevicate e grandine.

Gli “stalloni” consistevano in lunghi edifici con due corsie, in grado di contenere fino 50-80 vacche. In taluni grandi alpeggi ne furono realizzati persino due, uno affiancato all’altro. La copertura era in lastre di pietra sostenuta da possenti capriate (dato il carico di neve). Le mangiatoie in legno erano addossate alle pareti e vi erano delle cunette per facilitare l’asportazione delle deiezioni.

Molto spesso in questi “stalloni” si conservava il fieno in soppalcature sottotetto che i pastori utilizzavano anche come dormitorio. Al fine di aumentare la superficie coperta alcuni “stalloni “presentano dei porticati laterali utili in caso di riparo da temporali improvvisi ma anche per mungere al riparo dalle intemperie.

 

Altri ricoveri per gli animali

In molti alpeggi le tettoie non sono mai state rimpiazzate dagli “stalloni”. In altri l’unico ricovero per gli animali è costituito da una piccola stalla per gli animali malati (sc-ctala, masùn, masün). Essa serviva anche per ricoverare i capi di proprietà del caricatore quando questi si tratteneva in alpeggio per alcuni giorni dopo lo “scarico” dell’alpe. Spesso sopra la stalletta vi era un fienile.

A volte vi erano anche piccole stalle per gli ovicaprini, con le poste disposte su un solo lato e, molto spesso, anche lo stabièl per i maiali, un piccolo fabbricato collocato vicino alla caséra (per poter trasportarvi agevolmente il siero di latte o altri scarti utilizzati per alimentare i suini. In diversi casi sia il ricovero per i suini era ricavato spesso in un angolo della stalla.

In passato erano frequenti recinti in legno per le capre e le pecore. In area Lariana per la mungitura delle capre si utilizzano ancora oggi recinti di lamiere.

Non molti anni fa erano ancora frequenti i recinti per vitelli/torelli; realizzati anch’essi in legno e, più di recentemente, con filo spinato.

 

Corsi e ricorsi: si torna alle tettoie

Negli ultimi decenni gli elevati costi di costruzione e l’esigenza di facilitare le operazioni di governo degli animali hanno indotto a non costruire più nuovi “stalloni” e si è tornati alle tettoie aperte. Utilizzate per la mungitura o per il riparo dalle intemperie, consentono di effettuare velocemente lo spostamento del bestiame e facilitano le operazioni di pulizia.  I vecchi “stalloni”, con le corsie troppo strette per le mucche attuali, hanno dovuto essere ristrutturati. Vi è una sola corsia con corridoio di alimentazione centrale. In alcuni casi sono stati adattati a sale di mungitura.

Vale la pena osservare che i fabbricati costruiti dopo gli anni ‘60, utilizzando tecniche e materiali moderni, dopo pochi decenni hanno manifestato gravi segni di deterioramento. Anche la funzionalità di questi fabbricati rispetto alle reali esigenze dell’alpeggio lascia molto a desiderare e mette in evidenza la carenza di competenze specifiche da parte dei progettisti, oltre che un insufficiente scambio di informazioni tra questi ultimi e gli utilizzatori.

 

Alpe Lenno(Tremezzina, Co): la stalla.

Alpe Gotta (Vale Intelvi, Co); sòstra con arcate

Malga Foppelle (Valcamonica, Bs) tettoia moderna

 

Le differenze legate all’ambiente

 

Neve e acqua

La diversa abbondanza di precipitazioni nevose, il diverso rischio di slavine, le caratteristiche della pietra locale, la diversa disponibilità di legname hanno contribuito alla realizzazione nel tempo di strutture edilizie molto differenziate.  La disponibilità idrica è un altro fattore che spiega le differenze tipologiche.  Dove le sorgenti sono numerose le casere sorgono in loro corrispondenza così da poter far circolare al loro interno l’acqua fredda utile per raffreddare il latte e facilitare l’affioramento della panna (vedi oltre). In alcuni casi l’acqua poteva essere addotta da vicine sorgenti mediante piccoli fossati scavati nel terreno o canalette ricavate da tronchi di larice.

Dove le sorgenti si trovavano ad una certa distanza dal sito idoneo per l’edificazione dei fabbricati si realizzavano delle piccole costruzioni isolate per mettere il latte al fresco (casello, cassinetto, casèl del lac, baitèl del lat, bàit, bàita, fregèe, casinèl casei del lac’). Il casèl può essere molto piccolo, tanto da dovervi entrare con la schiena piegata. E’ quasi sempre semi-interrato e presenta una copertura (ad una o due falde) di lastre di pietra (piöde, préde). Erano spesso ricoperti di terra e zolle erbose tanto da essere quasi mimetizzati nel paesaggio. All’interno del casello, in un’apposita canaletta, scorre l’acqua dove si immergono i recipienti del latte.

 

I villaggi dei folletti

 

I caselli venivano accuratamente costruiti e hanno conservato, anche quando non più utilizzati, l’originaria tipologia. Fanno tenerezza questi caselli, specie quando, come succedeva negli alpeggi-villaggio, sono raggruppati e collocati nei pressi dell’insediamento a costituire quello che potrebbe sembrare un “villaggio dei folletti”.  I caselli erano ricavati anche negli spazi tra i massi erratici o in anfratti con correnti d’aria fredda.

Dove le sorgenti scarseggiavano e/o la temperatura dell’aria era abbastanza fredda si realizzavano dei caselli (annessi o meno alle casere) con numerose feritoie (orizzontali o verticali) per favorire la circolazione dell’aria. Negli alpeggi alle quote più basse dell’area lariana o sebina la temperatura dell’aria era troppo elevata per applicare questo sistema e si ricorreva all’utilizzo di apposite nevère (giazére) dove accumulare la neve in primavera e riporvi al fresco il latte.

 

Una macchina del freddo della civiltà contadina: la nevèra

Le nevère sono costruzioni tipiche del Lario Intelvese. Per raffreddare il latte si appoggiavano le bacinelle (“conche”) direttamente sulla superficie della neve. Si tratta di costruzioni a pianta quadrata o circolare con la copertura (nel caso di quelle più antiche) a falsa volta. L’altezza fuori terra è spesso molto limitata mentre il pozzo è profondo sino a 8 m.  Il fondo della nevéra (selciato o costituito da scoglio di roccia madre) è raggiunto mediante una ripida scala realizzata con pietre locali. Nelle costruzioni più antiche la muratura è a secco, quelle più recenti presentano muri con malta e, a volte, intonaco. La falsa volta originale è stata spesso sostituita da una gettata di calcestruzzo, le piöde da lamiera ondulata . La copertura può essere a falda unica, o a due falde. Al fine di mantenere bassa la temperatura all’interno della nevèra  venivano piantumati intorno ad essa faggi, frassini o aceri che, nel tempo, hanno assunto un aspetto maestoso. Caratteristiche delle nevére sono le piccole aperture strombate che facilitano il ricambio d’aria limitando lo scambio termico. Le nevére possono essere isolate o addossate ad altre costruzioni.

La nevéra veniva caricata a primavera quando la neve si era compatta; la superficie della neve veniva coperta di fogliame (o dalla pula di riso). La nevéra serviva oltre al raffreddamento del latte anche alla conservazione del burro , della carne e di altri alimenti.

 

Acqua dal cielo

Negli alpeggi della fascia prealpina le acque meteoriche si infiltrano nella roccia carsica e la carenza di sorgenti e di corsi d’acqua superficiali impone di ricorrere a specifiche strutture per l’accumulo dell’acqua piovana: cisterne in muratura e laghetti artificiali per l’abbeverata del bestiame.

Le cisterne sono quasi sempre incorporate al corpo di fabbrica della cassina, realizzate in muri a calce intonacati diligentemente di cemento a tenuta d’acqua; assicurate dai geli da grossi muri a secco e coperte da volta pure in muratura a calce. Nelle cisterne veniva convogliata l’acqua dei tetti.

Le pozze di abbeverata  (bùle, pùze, lavàg’) sono bacini seminaturali di raccolta delle acque meteoriche che sfruttano gli avvallamenti del terreno. Alcune sono collocate presso il centro dell’alpeggio, altre sono sparse sui pascoli.  Il fondo era impermeabilizzato con foglie di faggio, cenere, sterco, argilla; gli animali entravano ‘alla guazza’, favorendo così, con il calpestamento, l’impermeabilizzazione. I canali di carico delle bolle (profondi 0,3-0,5 m) hanno la funzione di convogliare le acque meteroriche dei versanti soprastanti la bolla; oggi tali canali sono spesso rivestiti con elementi prefabbricati in calcestruzzo. Le bolle richiedevano una manutenzione assidua che gli alpeggiatori erano tenuti ad eseguire ogni anno con scrupolo.

Nelle condizioni degli alpeggi di bassa quota delle prealpi, dove le aree boscose erano quasi del tutto scomparse, erano importanti i meriggi. Erano realizzati piantando alcune piante in circolo (solitamente faggi) servivano per ombreggiare nelle ore più calde della giornata il bestiame al pascolo ma anche per ricoverare il bestiame in caso di intemperie.

 

Alpe Colonno (Tremezzina, Co), la "bolla" per l'abbeverata del bestiame

Alpe Lenno(Tremezzina, Co): la nevèra

Alpe Val Vedrano (Valgerola, So) Baitel abbandonati

 

Il cuore dell’alpeggio: la caséra

 

Varietà di tipologie

La casera rappresenta l’edificio principale dell’alpeggio; può essere collocata al piede dell’alpe o anche altrove dove vi sia una superficie di terreno adatta e una buona accessibilità. E’ denominata caséra, báita, cassìna, casina, malga, cà. Le tipologie di caséra sono influenzate anche dal particolare indirizzo della produzione casearia.

In genere è disposta su un solo livello. E costituita da 2-3 locali: oltre a quello per la lavorazione del latte e quello per la conservazione (e salatura) del formaggio (eventualmente un terzo per il raffreddamento del latte e l’affioramento della panna).

Il locale per la conservazione del formaggio (cantina, casèra, sìlter, cànua, caneva, casèl del formaj) deve essere in grado di mantenere un’ elevata umidità e una temperatura piuttosto bassa e relativamente costante; per questo motivo è molto spesso semi-interrato. Nella cantina si trovano le scalére, ripiani con assi di abete dove appoggiare le forme di formaggio e, se si usa salamoia per salare il formaggio, anche le vasche per immergervi le forme. Il locale per la conservazione del formaggio non esiste in tutti gli alpeggi. A volte più alpeggi utilizzavano un’unica casera.

Del tutto particolari le casére delle valli del Bitto. La caséra era utilizzata solo per salare e conservare il Bitto (livello inferiore) e per conservare la maschèrpa. Quest’ultima era conservata al livello superiore, (mascherpéra) dove si accedeva mediante una ripida scaletta in legno, ed era arieggiata su tre lati attraverso numerose strette feritoie.

Casere su due livelli si trovano anche altrove; al livello inferiore vi è il locale di maturazione del formaggio mentre al piano superiore si trova la “cucina” per la caseificazione e il locale per la sosta e l’affioramento del latte.

 

La “cucina”

La “cucina” è collocata nella parte più calda del fabbricato. In un angolo si trova il focolare (fugulàar, furnéla) costituito, nei casi più semplici, da pietre disposte a semicerchio. Qui si colloca la caldaia (caldéra, culdéra) per il riscaldamento del latte. Nelle baite il fumo usciva dalle fessure della copertura e della muratura a secco senza alcun camino. La caldaia viene allontanata e rimessa sul fuoco mediante un supporto girevole in legno o, più, recentemente, in ferro (turnér, cigagnöla, màsna, scegógna, cigagnòla, girèl, cigògna, puléna). Nei sistemi più moderni non si sposta più la caldaia ma si utilizzano dei carrelli che spostano il bruciatore (alimentato a gpl) o la legna ardente. La cucina era anche un locale di abitazione e il focolare serviva per la preparazione dei pasti. Per il riposo notturno, quando non si usavano le stalle, vi era, all’interno della “cucina” una “zona notte” separata da un semplice telo. In qualche caso vi era un soppalco sottotetto (in Valcamonica denominato bèna). In passato non esistevano letti ma pagliericci (lèc’) costituiti da cassoni riempiti di paglia.

 

Modernità a doppio taglio

Oggi le normative igienico-sanitarie impongono la separazione dei locali ad uso abitativo dai “laboratori” per la lavorazione del latte. Sono anche previsti locali per il ricevimento del latte e “spazi filtro” che separano tra loro i locali con le diverse funzioni. Sulla carta si tratta di accorgimenti più che razionali. Nella pratica la suddivisione di spazi non molto ampi in diversi locali ha creato dei problemi che si riflettono sulla temperatura e umidità dei locali. Separando la “cucina” dal locale dove si consumano i pasti quest’ultimo è spesso troppo freddo. La sostituzione delle vecchie coperture in lastre di pietra sovrapposte con lamiera ha comportato l’innalzamento della temperatura dei locali.

In definitiva un equilibrio frutto di esperienze secolari è stato rotto sulla base di prescrizioni che non sempre tengono conto della specifica realtà dell’alpeggio. La suddivisione degli spazi in camere e appartamentini (sul modello di ben altri modelli abitativi) ha comportato il ridimensionamento degli spazi comunitari che si prestavano alla socializzazione anche con i visitatori.

Gli adeguamenti delle strutture d’alpeggio eseguiti negli anni passati non hanno spesso tenuto in debito conto né i valori estetici e di testimonianza storico-culturale delle costruzioni tradizionali né le specificità funzionali legate alle tipiche produzioni casearie.

 

Malga Vaia di Fondo (Alta Val Caffaro, Bs), vecchia casera da tempo in disuso

Malga Foppelle (, Valcamonica, Bs): le tipiche feritoie per l'ala destinata alla sosta del latte

Alpe Pescegallo Lago (Valgerola, So) La maschérpera

 

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