La
"calata" del Bitto a Milano, prevista per
la settimana dal 14 al 19 aprile, consente più di una
riflessione che va a legarsi con i temi dell Expo 2015
e, più in generale, con le discussioni più che mai attuali
su cibo e territorialità.
La
Valtellina nell'immaginario turistico milanese è fatta
si sci e pizzoccheri e, per i più sofisticati,
di Bitto, sciatt ecc. Prevale l'immagine un po' folkloristica
di un mondo di montagna "dietro casa" ma anche
molto lontano.
Con
l'autostrada (vista la penosa situazione della ss 38
che è ancora praticamente tale e quale quella realizzata
in due anni in epoca asburgica, altri tempi!) si
arriva prima a Courmayeur. E il turista "fast"
del consumo sciistico (ma, spesso, anche enogastronomico)
non sta a considerare legami culturali, storici ecc.
La
Valtellina è montagna, il Bitto, la Fontina, il Bettelmatt
(per chi lo conosce), ecc. ecc. sono formaggi di montagna
e basta (ed è già tanto trovare chi li conosce). Folklore
alpino di qui immaginario gastronomico di là. Del resto
se il viaggio tra i formaggi ,invece di compiersi
nei luoghi di produzione, lo si fa solo tra i banchi
delle rivendite specializzate le cose vanno anche peggio.
Di fronte a una offerta spesso conturbante di prodotti
di ogni angolo d'Italia (ma da tempo anche di Francia
e, da un po' di meno tempo, anche da altri paesi) la
relazione tra cibo e territorialità, si stempera.
Prevalgono altri aspetti: la curiosità, la moda. Oggi
arriva tutto da ogni dove.
Per
le generazioni che ci hanno preceduto era tutto diverso.
Ciò non vuol dire che il formaggio - ma vale anche per
altri prodotti - dovesse essere necessariamente a "km0".
Poteva venire anche da lontano ma secondo precisi itinerari
consolidati sulla base di elementi naturali e politici.
La "lontananza" è un fatto relativo; non solo
oggi con le autostrade, anche in passato quando esistevano
le "autostrade d'acqua".
I Navigli
facevano affluire a Milano "stracchini" (quadrati
e tondi, ovvero "ad uso di Gorgonzola")
provenienti dalle zone verso il Ticino e l'Adda
(ma anche del melegnanese e pavese) . Qui scendevano
a svernare (dal XV secolo in poi) gli allevatori-casari
transumanti della montagna: i "bergamini"
valsassinesi, brembani e seriani. Numerose ditte di
grossi stagionatori erano concentrate a Corsico (comune
confinante con Milano sul Naviglio Grande) e nello stesso
burgh di furmagiatt (attuale Corso S. Gottardo)
a Porta Ticinese dove convergono Naviglio Grande e Naviglio
Pavese. Ovviamente anche il Granone lodigiano, il pannerone,
il mascarpone erano di casa in quanto prodotti da un
contado dove, in larga misura, la proprietà fondiaria
era detenuta dall'aristocrazia milanese (e fino in tempi
non lontani parte del fitto era corrisposta in "regalie"
in natura). A parte le tavole patrizie numerose ditte
- oltre a quelle con sede in città e nelle immediate
vicinanze - si occupavano di raccogliere (e stagionare) i
latticini nell'area a Sud della città e di farveli affluire.
Fin qui il territorio contiguo alla metropoli (una contiguità
che arriva sino a Codogno nella bassa lodigiana, Melzo,
Rivolta d'Adda, Magenta, tutti centri legati al commercio
e alla stagionatura deli formaggi). Ma la geografia
casearia milanese comprendeva anche i formaggi
di capra della Valsassina quelli dell'Ossola (unita
a Milano sino alla metà del XVIII e anch'essa più vicina
di quello che la distanza potrebbe far ritenere grazie
alla via d'acqua del Verbano) e il Bitto, certamente.
Bisogna
pensare che il Bitto, da Morbegno, attraverso il
trasporto fluviale e lacustre arrivava facilmente a
Como dove veniva stagionato. Il trasporto con i carri
da Como a Milano rappresentava un viaggio relativamente
breve, il più era fatto con i "comballi".
Del resto il Bitto era un prodotto pregiato e adatto
al trasporto (una volta sufficientemente stagionato).
La Bassa Valtellina poi era in stretta relazione con
il cuore della Lombardia. Lo era molto di più secoli
fa che oggi e non solo per via della riduzione dell'importanza
del Lario quale "autostrada commerciale" ma
anche per motivi politici. In epoca rinascimentale Morbegno
non era certo un centro periferico; basti pensare che,
nel 1520 e seguenti, vi lavorò un artista come Gaudenzio
Ferrari (il celebre
pittore valsesiano che, oltre che a Varallo e Vercelli
,operò anche a Milano e in altri centri lombardi). A
lui sono
attribuite le policromie di quel capolavoro dell'arte
lombarda che è l'ancona lignea del santuario dell'Assunta.
Questo avveniva quando già da diversi anni la Valtellina
era sotto il controllo delle Leghe Grigie. La crisi
economica tra XVI e XVII secolo e il permanere del potere
grigione operarono una periferizzazione della Valtellina
e un allentamento del rapporto già stretto con il cuore
pulsante della Lombardia. Ma il Bitto - che per altra
via - raggiungeva anche Bergamo e la città dei dogi,
continuò ad arrivare a Milano e a mantenere un legame
tra la città e il suo retroterra alpino.
Si
tratta di aspetti che oggi tornano ad essere significativi.
La mappa del cibo, oggi sin troppo complicata, richiede
una decifrazione, dei riferimenti. La territorialità
non è solo un fatto di chilometri ma anche di profondità
temporale, di forza di legami e di "vie del cibo",
percorsi preferenziali da decifrare per comprendere
la "matrice casearia" e in generale alimentare
di una città.
Il
Bitto non ha aspettato che questi legami venissero "riscoperti".
Venendo a Milano per difendere la sua tipicità minacciata
dalla burocrazia ha di fatto imposto all'attenzione
la sua storia e riattivato una corrispondenza tra due
terminali: la metropoli "globale" e gli alpeggi
dove il Bitto viene prodotto in modo per certi versi
simile a quello dell'epoca in cui Gaudenzio Ferrari
dipingeva a Monbegno. Anticipando alcuni temi dell'Expo.
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