Le
problematiche agroambientali del sistema di produzione
del
Grana Padano DOP
Pubblicato in :
Alimenta COMMENTARIO TECNICO-GIURIDICO DELLA PRODUZIONE
AGRO-ALIMENTARE N. 11/12 Anno XVI Novembre-Dicembre
2008, pp. 223-232
Parte
I
1.
I termini generali del problema - 2. Uno scenario senza
insilati - 3. Il controllo chimico delle piante infestanti
del mais e il suo impatto ambientale
Premessa
Nella
prima parte di questo contributo ci occuperemo della
definizione del problema nei suoi termini generali cercando
di comprendere il nesso tra gli impatti ambientali delle
attività agro-zootecniche nel bacino del Po e gli aspetti
specifici che caratterizzano il sistema di produzione
del Grana Padano (d'ora in poi GP). Cercheremo anche
di delineare lo scenario che verrebbe a definirsi sulla
base dell'esclusione dell'utilizzo degli insilati nell'alimentazione
delle vacche da latte (causa della presenza di spore
di Clostridi nel latte e motivo dell'utilizzo dell'additivo
conservante Lisozima). Verrà ipotizzata in particolare
la riduzione dell'uso di fitofarmaci (diserbanti) conseguente
a questo ipotetico scenario.
Nelle
parti successive ci occuperemo del problemi legati ad
altri aspetti del controllo delle avversità biotiche
della maiscoltura (concia del seme, infezioni
fungine, entomoparassiti), all'uso della risorsa idrica,
ai problemi della lisciviazione dei nitrati (e, più
in generale, dell'uso dei fertilizzanti), alla fertilità
di lungo periodo del terreno.
I
termini generali del problema
La
produzione del GP interessa, almeno sulla carta, 5 regioni
e 32 province, dal Piemonte (dove assume un certo rilievo
la sola provincia di Cuneo) al Veneto e comprendendo
anche la Provincia di Trento e alcune aree dell'Emilia
Romagna (in prevalenza nel piacentino).
In
realtà il prodotto viene realizzato in netta prevalenza
in tre province della pianura lombarda orientale irrigua:
Mantova (30 caseifici, 28% dell'intera produzione nazionale),
Brescia (31 caseifici, 22%) e Cremona (11caseifici,
17%).
Da
tempo in questa area omogenea si è consolidato un sistema
agrozootecnico basato su aziende di grandi dimensioni
ad indirizzo specializzato zootecnico-foraggero, dove
la principale coltura è rappresentata dal mais ceroso
(silomais), base indiscussa della razione alimentare
delle lattifere. Il silomais consente di ricavare per
unità di superficie una quantità di Unità foraggere
più che doppia rispetto alle più produttive trale coltivazioni
foraggere tradizionali e di operare in un breve periodo
la raccolta e lo stoccaggio di una scorta foraggera
in grado (sia pure integrata con l'uso di altri foraggi
quali fieno di prato stabile, fieno di medica, fienosilo
di loiessa) di soddisfare le esigenze dell'allevamento
per 365 giorni dell'anno.
I
vantaggi dell'insilato di mais (beninteso se adeguatamente
conservato) consistono anche nella sua buona appetibilità
e nel grado delle operazioni di preparazione degli alimenti
(sugli svantaggi torneremo a breve). Lo squilibrio tra
produzione di liquami e superfici idonee al loro spandimento
(o si dovrebbe dir smaltimento?).
A tanti e
sostanziali
vantaggi corrispondono altrettanti numerosi e gravi
inconvenienti. Fino ad oggi la bilancia ha continuato
a pendere sul lato dei vantaggi in forza di considerazioni
economiche (l'abbattimento del costo della razione alimentare).
Dal punto di vista ambientale, i vantaggi principali
sono legati alla possibilità – grazie all'elevata quantità
di Unità foraggere prodotte per Unità di superficie
- di mantenere un carico animale elevatissimo in rapporto
alle superfici disponibili per lo spandimento dei reflui
zootecnici.
Lo
squilibrio tra le superfici foraggere aziendali e la
quantità di reflui zootecnici prodotti è aggravato dalla
forte specializzazione zootecnica dei comprensori in
discorso dove sono pochi i terreni, siti in un raggio
di pochi km dal centro aziendale, in grado di ricevere i reflui in esubero prodotti dalle unità zootecniche
di produzione intensiva.
Nei
comprensori irrigui della bassa padana, infatti, oltre
alla presenza di altre aziende zootecniche da latte
non coinvolte nella produzione del GP, vi sono quelle
che si dedicano alla produzione del vitellone precoce
(che utilizzando anch'esse silomais), e – soprattutto
– quelle che allevano suini da ingrasso (utilizzando
prevalentemente granella umida di mais). Queste ultime,
peraltro, sono maggiormente presenti nelle stesse tre
province della pianura lombarda orientale, dove si concentra
la produzione del GP. Tutti questi allevamenti intensivi
utilizzano mais come principale fonte energetica per
l'alimentazione animale e richiedono un forte input
di proteine dall'esterno. Nel caso del silomais il tenore
in proteina grezza sulla sostanza secca è del solo 8,5%,
mentre quello proteico medio delle razioni per vacche
da latte si colloca intorno
al
17%. Ovviamente utilizzando i foraggi convenzionali
tale gap è molto meno accentuato; un fieno di medica
contiene il 17% di proteina, quello di buon prato stabile
il 12%. Gli animali in accrescimento (suini, vitelloni)
presentano, in analogia con la vacca da latte, elevate
esigenze proteiche alimentari; tutto il sistema zootecnico
richiede fonti proteiche che possono essere reperite
solo altrove (nel caso della soia, in gran parte OGM,
da oltreoceano). Sono in gioco enormi quantità di proteine
(azoto) che entrano come input nel flusso del sistema
agroambientale in misura molto superiore a quella che
ne esce in forma di prodotti (l'azoto output contenuto
nel latte e nei tessuti animali) dal momento che 1)
la maggior parte dell'azoto per l'alimentazione animale
è un input esterno; 2) la maggior parte dell'azoto alimentare
si ritrova nelle escrezioni (urinarie e fecali).
La
situazione potrebbe essere bilanciata se, nei comprensori
agrari in questione, vi fossero colture in grado di
utilizzare questo surplus azotato. Se prendiamo in considerazione
la provincia di Cremona (l'unica esclusivamente di pianura
nell'ambito del "trio" del GP) la principale
coltura che potrebbe beneficiare del surplus di azoto
contenuto nei reflui zootecnici è il frumento che, però,
copre una superficie pari al solo 9%. Sono poi risibili
gli investimenti in altri cereali (tolto, ovviamente
il mais, ma questo è per lo più utilizzato come re-impiego
zootecnico ed è generosamente fertilizzato con i liquami).
Le possibilità di riequilibrio sono peraltro scarse
e quello che è un forte surplus azotato a livello aziendale
comporta anche un surplus a livello comprensoriale.
E' ovviamente quest'ultimo alla base dei gravi impatti
ambientali in termine di contaminazione delle acque
superficiali e profonde nonché di emissioni atmosferiche
(ammoniaca e biossido di azoto). La destinazione del
surplus, infatti, non prevede altre alternative rispetto
a 1) accumulo di azoto nel terreno, 2) immissione nell'ambiente
(aria e acqua).
Il
recepimento della direttiva comunitaria 91/676/CEE (attraverso
il DM 7 aprile 2006) ha costretto ad una drammatica
presa di coscienza di un problema che, in precedenza,
era stato largamente sottovalutato sulla base di norme
basate su "tabelle tecniche" che sottovalutavano
in modo palese (basandosi su studi vecchi di decenni)
l'escrezione azotata di una vacca da latte al netto
delle volatilizzazioni atmosferiche durante lo stoccaggio
(50 kg di azoto annuo contro gli 83 attuali). Le correzioni
apportate con le nuove norme sono state eseguite basandosi
sull'escrezione media di una vacca da latte di una non
precisata razza ed allevata in una non precisata regione
e sistema di produzione e pertanto sottovalutano ancora
di molto la reale produzione di azoto nei reflui zootecnici
dell'allevamento da latte dei comprensori irrigui padani.
Alla sottovalutazione della produzione di azoto da parte
delle lattifere fa riscontro la sopravalutazione dei
fabbisogni delle colture. In ogni caso è largamente
noto che oltre la metà dell'azoto somministrato non
viene utilizzato dalle colture.
All'attualità,
nonostante questi "edulcoramenti", I problemi
delle aziende (e dei comprensori) che producono quantità
di azoto per ettaro in misura superiore
ai limiti della direttiva nitrati e ai fabbisogni delle
colture, sono di molto aumentati rispetto alla situazione
precedente. Tanto che, onde evitare la procedura di
infrazione contro l'Italia per la mancata applicazione
della direttiva nitrati (ritirata nel giugno 2008),
la Regione Lombardia, dopo forti resistenze, ha accettato
di estendere le aree classificate "vulnerabili"
ai nitrati presenti nelle acque di falda. In forza di
tale ampliamento delle aree dichiarate "vulnerabili"
il 56,5% della pianura lombarda è ora sottoposto al
vincolo del massimo di apporto azotato di 170 kg per
ha (contro i 340 kg/ha delle zone non vulnerabili).
Tra gli altri vincoli conseguenti al recepimento della
direttiva figura anche il divieto (senza più deroghe)
di spandimento invernale dei liquami con un "fermo"
di 90 giorni. Una cosa è certa: gli effetti degli impatti
ambientali che in passato rappresentavano solo "esternalità",
che sul bilancio aziendale non venivano ad incidere,
oggi si stanno traducendo in costi crescenti per le
aziende.
Gestire
il surplus di azoto legato al sistema mais-soia diventa
sempre più oneroso in ragione delle grandi capacità
di stoccaggio richieste e, soprattutto, in vista della
necessità di introdurre complessi e costosi impianti
per la separazione della frazione liquida da quella
palabile, per la digestione anaerobica e per l'abbattimento
dell'azoto. La Regione Lombardia contribuisce generosamente
coprendo il costo degli interessi e delle garanzie finanziarie,
ma l'investimento è pur sempre oneroso.
I
grandi vantaggi del sistema di foraggiamento delle vacche
da latte con mais ceroso sono quindi controbilanciati
da costi crescenti. E' lecito quindi porsi l'interrogativo
sui limiti di convenienza di questo sistema "spinto"
oltre che sui suoi impatti ambientali. Il ragionamento
deve partire dalla considerazione che la produzione
di latte riguarda aspetti ben diversi della produzione
del vitellone precoce! E infatti nessuno può negare
che l'alimentazione con insilato di mais può compromettere
in modo significativo la qualità del latte e del formaggio
(specie quello a lunga stagionatura). Rimandando ad
un successivo contributo gli altri aspettirelativi alla
composizione e al profilo organolettico dei prodotti
caseari ci limiteremo in questa sede all'inquadramento
generale delle diverse situazioni create dal problema
dei Clostridi nel latte.
Insilato
= Clostridi = Lisozima
Alimentare
le vacche da latte con gli insilati (foraggi conservati
in assenza di aria) rappresenta la principale causa
della presenza di Clostridi nel latte; mentre con l'alimentazione
tradizionale (a base di erba o fieno) si trovano meno
di 200 spore di Clostridi per litro, con quella a base
di insilati se ne possono trovare più di 2.000. La presenza
dei Clostridi provoca il "gonfiore tardivo",
un difetto del formaggio che consiste nella presenza
di occhiature, fessurazioni, sfogliature, caverne e,
talora, nella consistenza spugnosa della pasta. In sovrappiù
possono riscontrarsi sapori ed odori sgradevoli. Questo
grave problema (contro il quale non vi sono rimedi)
si verifica dopo qualche settimana/ mese di stagionatura
e assilla vari tipi di formaggi a pasta dura o semi-dura,
in primis il GP. Situazione sempre più problematica,
come dimostrato dal fenomeno sempre più accentuato della
presenza di elevate cariche di Clostridi nel latte.
In
Lombardia dati recenti (2006) indicano un generalizzato
peggioramento della situazione. I Clostridi sono batteri
che si sviluppano in condizioni di anaerobiosi, protetti
da una capsula protettiva che ne consente la sopravvivenza
nel terreno per anni. Sono resistenti alle temperature
elevate (e quindi alla pastorizzazione) e ai comuni
disinfettanti. Situazione ben nota agli allevatori ma
alla quale non rimediano per ragioni economiche posto
che gli insilati abbattono i costi della "razione".
La colpa, però, non è solo dell'insilato. L'unifeed
è l'altro "imputato". La tecnica dell'unifeed
ovvero del "piatto unico", che permette la
somministrazione - in un'unica "passata" -
di tutti i componenti della dieta in miscela fra loro,
è stata adottata per accorciare i tempi della distribuzione.
Si
utilizzano enormi carri miscelatori superaccessoriati
(da 20 metri cubi di capacità!) che "estraggono"
l'insilato dai silos, "trinciano" i foraggi
"lunghi", li mescolano a mangimi ed altre
materie prime (anche liquide) o acqua. Il foraggio così
trattato è consumato senza lasciare avanzi. In più,
somministrando insieme mangimi e foraggi, si possono
far ingerire aumentati quantitativi di mangime di quanto
possibile con la somministrazione del solo mangime.
Una serie di vantaggi dal punto di vista economico,
ma non di quello dell'igiene e della sanità del latte.
Con questo sistema, infatti, la polvere e la terra che
contaminano i foraggi finiscono nella miscelata e la
presenza di acqua, amidi e zuccheri
costituiscono un pabulum ideale per lo sviluppo
dei Clostridi. Le vaccine lattifere ingeriscono così
le spore dei Clostridi e le "restituiscono"
nelle feci e da queste, con il liquame sparso copiosamente
sui terreni, le spore tornano al terreno dove i Clostridi
si riproducono riattivando così il ciclo.
Veniamo
al latte. La sua contaminazione avviene principalmente
attraverso le feci e l'imbrattamento delle mammelle.
I moderni sistemi di stabulazione "libera",
che non prevedono l'uso di paglia, sono spesso caratterizzati
da aree di "esercizio" molto sporche, dove
le mucche si imbrattano di deiezioni per di più ammassate,
in attesa di essere rimosse, nelle sale di mungitura.
Stalle e impianti sottodimensionati rispetto all'aumentato
numero di mucche presenti, la contrazione della manodopera
e l'inevitabile aumento dei problemi gestionali contribuiscono
a peggiorare la situazione in quanto non si puliscono
a sufficienza le aree di riposo, le attrezzature a contatto
con gli animali, le mangiatoie (non
di rado ricettacolo di residui di alimenti). La pulizia
di mammella e capezzoli non è sempre adeguata per mancanza
di tempo. Il largo uso di disinfettanti non risolve
il problema, semmai lo aggrava perché riduce la flora
microbica "buona", in grado di contrastare
I Clostridi che, invece, nelle condizioni descritte
trovano il loro habitat più favorevole. In caseificio
non è possibile rimediare e questo spiega il ricorso
all'uso del Lisozima (antibatterico naturale). Le altre
soluzioni, rappresentate da moderne tecnologie casearie,
sono estranee al contesto produttivo di un prodotto
"tipico".
Uno
scenario (teorico) senza insilato
Da
tutto quanto detto sinora emerge il nesso molto stretto
tra la produzione di GP e l'alimentazione maidicola
"spinta", un nesso che ha per mediatore risolutore
il Lisozima. Stabilito questo nesso occorre ora valutare
l'impatto ambientale del sistema partendo dai campi,
dove si semina, si spargono i liquami, si irrorano i
pesticidi e si raccoglie il mais.
Grana
Padano e coltivazione del mais
Per
stimare il peso della produzione di latte destinato
alla trasformazione in GP in termini di fabbisogni di
mais e di superfici investite va tenuto presente che,
alla produzione complessiva di 4.200.000 forme/anno,
ne vanno sottratte 100.000 di Trentin Grana, un prodotto
che pur restando nell'ambito del GP ha escluso dal proprio
disciplinare di produzione l'uso del mais ceroso per
l'alimentazione delle vacche da latte.
Per
la rimanente produzione si terrà comunque conto che,
anche fuori del Trentino, vi è una quota di aziende
che producono latte destinato alla trasformazione in
GP che non utilizzano mais ceroso. Si stimerà perciò
un quantitativo medio di utilizzo del mais ceroso sull'insieme
delle aziende zootecniche da latte coinvolte nella produzione
del GP più basso rispetto a quello che viene ordinariamente
utilizzato nelle aziende che lo impiegano nella razione
alimentare delle proprie vacche da latte. 4.200.000
forme al peso medio di 35 kg significano 147 mila t
di formaggio marchiato che, con la resa del 7%, implicano
l'utilizzo di 2,1 milioni di t di latte e, considerato
che una vacca produce mediamente 8,5 t di latte, è necessario
disporre di un "parco vacche GP" di quasi
250.000 lattifere. In realtà le vacche "coinvolte"
nella produzione di GP sono molte di più (stimate 350.000
da fonti "interne" al sistema delle DOP) in
quanto molti caseifici non si limitano alla produzione
del solo GP ma utilizzano il latte conferito per produzioni
diverse. Va comunque tenuto conto che il fabbisogno
di latte per la produzione di GP così calcolato (sulla
base del numero di forme marchiate e dichiarate) è in
realtà sottostimato in quanto risulta al netto di scarti
e "scartoni".
Consideriamo
ora il "fabbisogno" alimentare di tale "parco
vacche" così stimato. Una vacca in lattazione riceve
una quantità di insilato di mais tra i 20 e i 30 kg
(ma si può arrivare a 35 kg o utilizzarne anche solo
10). Laddove viene utilizzato l'insilato di mais una
quantità di 25-27 kg/giorno potrebbe essere ritenuta
una media indicativa; vi è però - come già ricordato
- una minoranza di aziende nelle quali l'insilato non
è utilizzato (si tratta di aziende di zone di montagna
come ad esempio nel piacentino o di aziende biologiche
o di alcune zone dove tutt'oggi vi è una forte presenza
di prati stabili come nel Mantovano e nel Cremasco).
Sulla
base di tali considerazioni è realistico stimare per
il "parco vacche" precedentemente calcolato
un consumo medio giornaliero di 20 kg/giorno/vacca in
lattazione. Le bovine ricevono inoltre altri kg di mais
sotto forma di pastoni, farina, mais schiacciato, mais
fioccato, mais germe,
mais glutine ecc, che entrano come materie prime o attraverso
mangimi finiti (potremo calcolarli complessivamente
in 5 kg di granella equivalente). Per ogni vacca in
lattazione va calcolata la "popolazione improduttiva",
cioè le vacche in asciutta e manze presenti in stalla.
L'incidenza nelle stalle del "bestiame improduttivo"
è oggi molto elevata (un soggetto "asciutto"
per uno in lattazione); ciò a causa della breve carriera
produttiva delle vacche da latte "spinte"
(poco più di due lattazioni per capo) che implica una
notevole quota di rimonta (tutte le vitelle devono essere
allevate). Va poi comunque tenuto conto che per ogni
vacca in lattazione vi sono 0,16 vacche asciutte. Anche
i capi asciutti consumano una significativa quantità
di mais ceroso (variabile in funzione dell'età, stato
di gravidanza) valutabile, sempre tenendo conto che
in alcune aziende l'insilato non è utilizzato e che
in altre vi è comunque un largo ricorso a fieno e fieno-silo,
in 8 kg/capo. Anche nei capi asciutti vi è un consumo
di mais sotto altre forme (che stimeremo a 1 kg di granella
equivalente).
Nella
media delle aziende conferenti il latte ai caseifici
che producono GP la quota di silomais per "unità
di stalla" (vacca in lattazione + capi asciutti)
risulterebbe pertanto pari a 28 kg/giorno. La produzione
di silomais nelle condizioni della pianura padana è di
54 t/ha. Considerando le perdite in trincea orizzontale
(15%) ed ulteriori perdite per spreco di foraggio la
produzione deve risultare pari a 1,3 volte il fabbisogno
alimentare. 250.000
"unità stalla" (per 28 kg e 365 giorni) richiedono
pertanto 3,2 milioni di tonnellate di prodotto alla
raccolta. Tale produzione, considerando una produttività
media di 54 t/ha, è ottenibile investendo 59.100 ha.
Nella
pianura padano-veneta la superficie a mais ceroso (200.000
ha nel 2007, dati Istat). La produzione di GP è pertanto
da associare al 30% della superficie investita a mais
ceroso. Come "consumatori" di mais ceroso
seguono i vitelloni in allevamento intensivo (gli allevamenti
sono presenti soprattutto in Veneto) e le altre produzioni
lattiero-casearie (Provolone Valpadana, Gorgonzola,
Taleggio ecc.). Per valutare l'imputazione complessiva
delle superfici investite a coltura maidicola vanno
ora aggiunti 576.300 t di mais da granella che, con
una resa media di 9 t/ha (e una quota di perdite/spreco
molto limitata e pari al 5%) comporterebbero un investimento
di altri 64.000 ha. Tenendo conto che le importazioni
di mais coprono in Italia il 10% del fabbisogno (il
mais utilizzato nei mangimifici può essere anche di
origine francese) la superficie necessaria in questione
può essere ridotta a 60.900 ha. Il totale delle superfici
a mais "indotte" dal GP equivarrebbe ad un
totale di 120.000 ha.
Due
ipotesi
Nell'ipotesi
che il Grana Padano rinunciasse, alla pari del Parmigiano
Reggiano, all'uso degli insilati ci si potrebbe attendere
una sostanziale riduzione degli impatti ambientali nei
comprensori zootecnici da latte della pianura Padana
irrigua? Esaminiamo due ipotesi del tutto teoriche e
che esulano - sia ben chiaro - da considerazioni economiche.
Nella prima valuteremo le conseguenze della cessazione
dell'uso dell'insilato di mais mantenendo inalterato
il volume di produzione del GP (e quindi le unità foraggere
necessarie). Nella seconda ipotesi sconteremo una contrazione
della produzione mantenendo costante la superficie agricola
attualmente impegnata. In entrambi i casi terremo conto
che (come avviene peraltro anche nel regime di produzione
del Parmigiano Reggiano), il silomais può continuare
ad essere utilizzato per le manze sino al sesto mese
di gravidanza. Dal fabbisogno di 28 kg/giorno di insilato
di mais per l'unità di stalla (vacca in lattazione più
asciutte e rimonte) si scenderebbe così a 6,5 kg. La
superficie investita a mais ceroso crollerebbe da 59.100
a 13.700 ha e 45.400 ha, già investiti a mais ceroso,
dovrebbero essere convertiti in prati monofiti e polifiti
avvicendati e in prato stabile. Queste coltivazioni
foraggere non solo presentano minore produttività (1,1
t di sostanza secca/ha vs 1,9 t del mais ceroso) ma
minore valore energetico (0,68 Unità foraggere latte/kg
di s.s. vs. 0,86 del
mais ceroso). Dal momento che l'ingestione di sostanza
secca proveniente da foraggi non può essere aumentata
(non è pensabile aumentare la quantità complessiva di
foraggio dal momento che si considera di sostituire
il silomais - caratterizzato peraltro anche da una buona
appetibilità – in un contesto di ingestione già elevata)
si dovrà ammettere, per compensare la minore densità
energetica del fieno di medica o polifita, di ricorrere
ad un aumento della quantità di amido (da cereali) nella
razione (è quello che succede nel caso del Parmigiano-Regiano).
Non solo risulterebbe quindi necessario investire 73.400
ha (45.400 ha già investiti a mais ceroso più altri
28.000 ha) in colture foraggere "tradizionali",
ma, per pareggiare il deficit energetico, si dovrebbero
investire ulteriori 12.900 ha a mais da granella (ove
si volesse reperire il 95% del fabbisogno all'interno
del comprensorio). Nel complesso il sistema GP richiederebbe
41.000 ha in più. L'aumento delle coltivazioni foraggere
tradizionali, però, non potrebbe che avvenire a spese
del mais.
Sempre
utilizzando il caso di Cremona si constata come il mais
(che da solo rappresenta il 55% per cento delle superfici),
sommato alle coltivazioni foraggere, rappresenti il
78% delle superfici agrarie utilizzate (se si sommano
i cereali "minori" si arriva al 90%). Dal
momento che il restante 10% è rappresentato da colture
specializzate sarebbe giocoforza convertire 28.000 ha
dai cereali (in prevalenza mais) a foraggere. La superficie
a mais da granella (o altri cereali) coinvolta dalla
produzione del GP risulterebbe perciò diminuita di soli
14.900 ha in relazione all'aumentato fabbisogno di granella
stessa (-28.000 ha, + 12.900 ha). Consideriamo ora un
altro scenario. Invece di supporre un
"parco vacche" e una produzione di latte e
di GP invariata, assumiamo che si accetti un forte ridimensionamento
delle vacche da latte allevate e quindi della produzione
di latte e di GP. Un simile scenario consentirebbe la
destinazione a foraggere della superficie già destinata
a mais ceroso. Rimarrebbero investiti a mais ceroso
7.400 ha da destinare alle manze, consentendo di disporre
comunque di 49.900 ha da convertire da mais a foraggere
tradizionali. Le vacche "addette" alla produzione
del GP subirebbero una drastica diminuzione: da 250.000
a 134.200 e, corrispondentemente, la produzione di GP
scenderebbe da 147.900 t a 79.400 t.
Stima
del quantum specifico di principi attivi erbicidi connessi
alla produzione del GP
Rimandando
a successivi contributi l'esame delle variazioni di
impatto ambientale conseguenti alla "rivoluzione"
dell'ipotetica rinunzia all'utilizzo del mais ceroso
cercheremo ora di calcolare di quanto diminuirebbe la
quantità di erbicidi irrorati sui campi della pianura
padano-veneta.
Nell'annata
2006-2007 (dato più recente disponibile) la quantità
di diserbanti applicati alla coltivazione del mais è
risultata, sulla base dei dati ufficiali Istat, pari
a 2,4 kg/ha; tenendo conto che nel 2001-2002 la corrispondente
quantità era pari a soli 1,1 kg/ha (e che quindi gli
effetti della monosuccessione si stanno aggravando),
considerando che l'area di produzione del GP corrisponde
ad un'area di maiscoltura intensiva, (dove la monosuccessione
è da tempo praticata), che alle quantità di erbicidi
utilizzati ed ufficialmente rilevati vanno purtroppo
aggiunte quelle utilizzate illegalmente in forza della
presenza di un mercato parallelo (testimoniata inequivocabilmente
dalla persistente presenza di atrazina nelle acque come
si vedrà in prosieguo), è più realistico supporre un
utilizzo di 2,75 kg/ha, che corrisponde al 10% in più
del dato ufficiale Istat più recente disponibile. Tale
quantità, moltiplicata per la superficie sopra ricavata,
comporta un quantitativo di 330 t di principi attivi
erbicidi "applicati" ai terreni. Nello scenario
di eliminazione dell'insilato di mais dalla razione
alimentare delle vacche coinvolte nella produzione del
GP avremmo nell'ipotesi 1) (produzione di GP invariata)
una riduzione delle superfici a mais ceroso di 45.400
ha e una di 14.900 ha di quelle di mais da granella
(ed altri cereali) cui corrisponderebbe un aumento di
73.400 ha di foraggere tradizionali. Il passaggio a
queste ultime comporterebbe un drastico calo delle quantità
utilizzate di erbicidi. L'opportunità del diserbo chimico
delle coltivazioni foraggere "tradizionali"
viene infatti valutata di volta in volta in base alla
presenza di erbe infestanti e può essere limitata ad
interventi riguardanti solo parte delle superfici. L'unico
tipo di prato da vicenda per cui i protocolli di lotta
integrata e di buone pratiche agronomiche ammettono
la possibilità del diserbo chimico è il medicaio. Ma
anche in questo caso il diserbo chimico è eseguito frequentemente
nel solo primo anno di impianto (al fine di assicurare
una buona "partenza").
Negli
anni successivi, la capacità di competizione dell'erba
medica stessa nei confronti delle infestanti e le buone
pratiche colturali (razionale calendario di sfalci,
adeguata concimazione, buona sistemazione per evitare
ristagni), sono generalmente sufficienti per mantenere
sotto controllo le malerbe. D'altra parte non è prevedibile
una larga sostituzione delle superfici già investite
a mais ceroso con il medicaio per la semplice ragione
che il forte accumulo di azoto nel terreno rende più
profittevoli, almeno in termini di unità foraggere,
colture foraggere monofite o polifite a prevalenza di
Poaceae con forti esigenze azotate. Stimiamo
quindi l'uso di principi attivi per le colture foraggere
che subentrerebbero
al mais ceroso nell'ordine di 0,2 kg/ha pari a 14,7
t complessive. In compenso la riduzione delle superfici
a mais ceroso equivarrebbe a 125,1 t, cui si devono
aggiungere una ulteriore diminuzione di 29,8 t in ragione
della riduzione delle altre superfici a cereali (in
questo caso si è considerato un dato di partenza meno
elevato e pari a 2,0 kg/ha considerando che una parte
di queste superfici avrebbe potuto essere investita,
oltre che a mais, anche a cereali con minor fabbisogno
di diserbo chimico). Nel complesso vi sarebbe un minor
impiego di 140 t di principi attivi erbicidi.
Un
valore non molto inferiore si ricava nella seconda ipotesi
(consistente nella conversione "secca" delle
superfici a silomais a foraggere tradizionali). In questo
caso si otterrebbe la diminuzione di 49.900 ha investiti
a mais ed un corrispondente aumento delle foraggere
tradizionali con una diminuzione dell'utilizzo di principi
attivi erbicidi di 127 t di principi attivi erbicidi.
Possiamo considerare i due dati ottenuti come una stima
teorica dell'impatto, in termini di utilizzo di erbicidi,
dell'impiego dell'insilato di mais nella produzione
del GP. Tale impatto equivarrebbe a più del 7% del totale
dei principi attivi erbicidi utilizzati per la coltivazione
del mais in Italia.
Il
controllo chimico delle piante infestanti del mais e
il suo impatto ambientale
Tutte
le considerazioni e le ipotesi sopra sviluppate risulterebbero
futili esercitazioni se non fosse che: 1) esiste un
grave problema di impatto ambientale dell'utilizzo degli
erbicidi sui sistemi idrici della pianura padano-veneta;
2) la principale imputata di questi impatti è la maiscoltura;
3) tra le destinazioni dell'uso zootecnico del mais
(carne, formaggi a breve stagionatura) quella che dovrebbe
essere chiamata per prima a concorrere ad una graduale
conversione della maiscoltura in colture foraggere tradizionali
è la produzione di latte destinato a formaggi "tipici"
a lunga stagionatura. Essi infatti risentono in maggior
misura dell'effetto della qualità del foraggio; inoltre
la sostituzione del silomais con foraggi tradizionali,
per quanto "controrivoluzionaria", è certamente
di più facile attuazione della sostituzione della granella
umida di mais nell'alimentazione del suino da carne
(che pure implica non pochi problemi qualitativi nella
produzione dei prosciutti crudi Dop Parma e San Daniele).
Tralasciando in questa sede il punto 3) vediamo di dare
ragione dei punti 1) e 2).
Il
mais è additato quale imputato numero uno
L'Ispra
(Istituto superiore per la ricerca e la protezione dell'ambiente),
commentando il rapporto annuale 2008 sulla presenza
di residui di fitofarmaci nelle acque (i dati sono riferiti
alla campagna di analisi del 2006), mette in rilievo
che i risultati:
"[…]confermano
e rendono più evidente uno stato di contaminazione già
rilevato negli anni precedenti. Per alcune delle sostanze
la contaminazione è molto diffusa e interessa sia le
acque superficiali, sia quelle sotterranee di diverse
regioni e prefigura la necessità di
nterventi
di mitigazione dell'impatto".
Quanto
alle sostanze contaminanti il sopra citato rapporto
sottolinea come tra i contaminanti delle acque :
"[…]
gli erbicidi sono quelli più comunemente rinvenuti,
fatto spiegabile sia con la loro modalità di utilizzo,
che può avvenire direttamente al suolo, sia con il periodo
dei trattamenti, in genere concomitante con le precipitazioni
meteoriche più intense, le quali, attraverso il ruscellamento
e l'infiltrazione, ne determinano un trasporto più rapido
nei corpi idrici superficiali e sotterranei".
L'indice
accusatore viene poi puntato contro la coltura del mais
"Tra
le contaminazioni più diffuse vi è quella dovuta alla
terbutilazina, utilizzata in particolare nella coltura
del mais e del sorgo [dal 2002 ne é ammesso l'uso solo
per queste colture]. La contaminazione è diffusa in
tutta l'area padano-veneta ed evidenziata anche in alcune
regioni del centro-sud: è stata trovata nel 51,0% dei
punti di campionamento delle acque superficiali e nel
15,8% di quelli delle acque sotterranee indagate".
Oltre
alla presenza massiccia della terbutilazina, nelle acque
si trova anche più facilmente, e in maggiori concentrazioni,
un suo metabolita, la
desetilterbutilazina
che, rispetto alla molecola parentale presenta maggiori
tempi di degradazione (>DT50), minore affinità a
formare legami con il suolo (<Koc) e maggiore solubilità
(in quanto composto dealchilato). A conferma del collegamento
tra l'epoca di diserbo del mais e la contaminazione
delle acque, si osserva nel fiume Po un aumento stagionale
molto marcato di terbutilazina (e desetilterbutilazina).
Nel 2006, in relaziona a semine ritardate da forti piogge,
la concentrazione nelle acque di questo fiume è risultata
superiore al limite di legge per tre mesi (aprile, maggio
e giugno) senza, però superare mai il livello di 0,2
microgrammi per litro. Nel 2003 e nel 2005 il picco
si è concentrato nel solo mese di aprile con valori
medi superiori a 0,2 microgrammi per litro (i metaboliti
nelle acque, sono maggiormente presenti nei mesi immediatamente
successivi ai picchi della molecola parentale). La diffusione
della terbutilazina e della desetilterbutilazina nelle
acque è ascrivibile alle grandi quantità di principio
attivo impiegato nella formulazione degli erbicidi commerciali.
Nel nostro paese la terbutilazina è attualmente presente
in 52 prodotti autorizzati al commercio, di cui 4 in
via provvisoria, come unico componente o in miscela
con altri
erbicidi (alaclor, metolaclor, s-metolaclor, glifosate,
pendimetalin, terbumeton, ecc). L'utilizzo di terbutilazina
è pari 320.000 kg di principio attivo ed è concentrato
essenzialmente nelle regioni Lombardia, Veneto, Piemonte,
Emilia Romagna, Umbria. Ma la presenza nelle acque dipende
anche modalità di applicazione dei diserbanti, alle
caratteristiche idrogeologiche degli ambienti riceventi
e alle caratteristiche pedologiche dei terreni.
L'imputazione
alla maiscoltura quale principale fonte di contaminazione
con erbicidi delle acque italiane deriva, però, anche
dalla constatazione che, tra i principi attivi presenti
con maggior frequenza quali contaminanti delle acque,
troviamo oltre alla terbutilazina e al suo metabolita
anche altri diserbanti del mais: bentazone, dimetinamide,
atrazina, desetilatrazina (senza dimenticare i già citati
alaclor e metolaclor, presenti anche in formulati con
la terbutilazina). I risultati delle analisi sulla contaminazione
delle acque rispecchiano quanto noto sulla base dei
rilevamenti relativi
all'utilizzo dei fitofarmaci (Istat, 2008). Anche l'Istituto
di statistica mette sul banco degli imputati la coltura
del mais attribuendo ad essa il maggior consumo di diserbanti.
Per di più i dati Istat indicano, come già accennato,
un aumento considerevole dell'impiego di diserbanti
per la coltivazione del mais (2,4 kg/ha come media nazionale
nell'annata 2006-2007 contro 1,1 kg/ha in quella 2001-2002).
Anche il numero di trattamenti sono aumentati: da 1,3
a 1,4 kg/ha. La superficie agricola utilizzata (Sau)
impiegata nella coltivazione del mais risulta pari a
1,05 milioni di ettari; di questi il 75,5% (circa 794,9
mila ettari) è soggetta a trattamenti di difesa fitosanitaria.
I trattamenti effettuati dalle aziende maidicole che
praticano la difesa fitosanitaria sono pari a 156,3
mila interventi eseguiti con l'utilizzo di 1,88 mila
tonnellate di principi attivi contenuti nei prodotti
fitosanitari impiegati. Sono dati inequivocabili. Alla
base del problema non vi è solo l'estensione complessiva
della superficie investita a mais a livello nazionale
ma anche il fatto che, in intere province, il mais occupa
la maggior parte della superficie coltivata rendendo
impossibile l'alternanza con altre colture. Basti pensare
che in provincia di Lodi la superficie a mais arriva
al 66% del totale, in quella di Cremona (più interessata
alla produzione del Grana Padano) al 55%. Va considerato,
però, che in questa ultima, tolto il cremasco (con terreni
caratterizzati da falda acquifera prossima alla superficie
che impongono il mantenimento dei prati stabili), il
resto del territorio presenta una incidenza del mais
pari a quella del lodigiano (così come diverse aree
delle limitrofe pianure bresciane e mantovane). I problemi
del difficile controllo delle piante infestanti del
mais non sono, però, legati esclusivamente alle conseguenze
della monosuccessione (sulle quali torneremo tra breve).
Il
mais, così come coltivato attualmente, ha comunque una
"necessità" di diserbo chimico superiore ad
altre colture. Due sono i fattori che determinano
la "necessità" di pesanti trattamenti con
erbicidi: l'epoca di semina e il basso investimento
(semi e, al netto delle fallanze, relative plantule
per m2). La semina del granoturco viene effettuata nei
mesi in cui la temperatura del suolo è intorno ai 9°-10°
C. In tali condizioni climatiche il mais è molto vulnerabile
nei confronti delle erbe antagoniste (Giavone, Sorghetta,
ecc.). Questo aspetto è stato aggravato dalla tendenza
ad anticipare le semine (sin dalla prima decade di marzo)
in relazione all'uso di nuovi ibridi a precoce maturazione,
ma a ciclo complessivo lungo (al fine di assicurare
elevata produttività). Più precoci sono le semine tanto
maggiore è l'aggressività delle infestanti; se si semina
a fine primavera il diserbo potrebbe essere addirittura
trascurato. Quanto all'investimento (solo 6 piante per
m2) esso è andato sempre più diminuendo in relazione
alle dimensioni assunte dalle piante di mais degli ibridi
attualmente coltivati (fino a 4 m di altezza).
Il
mais è una pianta aggressiva, ma dopo l'emergenza, per
circa 1 mese, presenta una periodo critico e, dal 30°
al 48° giorno dall'emergenza, esso "deve"
essere liberato dalle infestanti sviluppatesi nonostante
il primo trattamento erbicida in pre-emergenza (il secondo
trattamento, sempre più spesso necessario, è effettuato
quando il mais presenta 5-7 foglioline). Un indicatore
della gravità dei problemi di diserbo del mais è dato
dalla presenza, tra le sue infestanti, di ben 5 (Echinochloa
crus-galli, Sorghum halepense, Chenopodium album, Convolvulus
arvensis, Amaranthus retroflexus) che sono considerate
tra le peggiori 10 "malerbe" in assoluto.
Se
aggiungiamo l'effetto della monosuccessione, che aggrava
notevolmente i problemi di infestazione, ci rendiamo
conto del perché il mais è l'imputato numero uno per
la presenza di pesticidi nelle acque.
La
monosuccessione aggrava i problemi
Il
ruolo crescente del mais nell'alimentazione del bestiame
(ricordiamo che l'86% del mais coltivato in Italia ha
destinazione zootecnica) ha portato alla presenza nei
principali "distretti" zootecnici di enormi
distese di campi dove il mais succede, anno dopo anno,
a sé stesso. Ne deriva l'aggravamento di vari problemi
agronomici e, in primo luogo, una sempre maggiore difficoltà
a contenere le malerbe con i soli mezzi chimici oggi
impiegati, dopo che le operazioni di lotta meccanica
- un tempo praticate - sono cadute in disuso per fattori
economici. Per non rinunciare alla monosuccessione è
necessario utilizzare sempre più pesticidi e, in conseguenza,
diventa difficile rispettare I limiti massimi consentiti
di principi attivi e aumenta la tentazione di ricorrere
al mercato parallelo dei pesticidi.
La
flora infestante attuale è composta da poche specie
dominanti (flora di sostituzione) che si avvantaggiano
delle condizioni ecologiche della coltura del mais (disponibilità
di acqua, temperatura) e che meglio resistono agli erbicidi
(va ricordato che il mais è una Poacea e che
è più difficile il controllo con gli erbicidi di specie
appartenenti a questa stessa famiglia che comprende
varie infestanti). Le piante resistenti si avvantaggiano
nella competizione con le altre malerbe e possono essere
eliminate solo con dosi elevate di erbicida. E' il caso
del Giavone (Echinocloa crus-galli) e di Setaria
ssp). Alcune specie di piante, oltre che di questi
fattori, si avvantaggiano dalla ripetizione del mais
su se stesso rafforzando i loro meccanismi di riproduzione.
E' quello che succede nel caso della Sorghetta (Sorghum
halepense) che - con I suoi rizomi - dispone di
eccezionale vitalità, rigenerandosi facilmente anche
quando la parte aerea viene distrutta.
Con
l'avvicendamento colturale le infestazioni di malerbe
del mais si attenuano o sono più facili da controllare;
interrompendo la monosuccessione di mais con un cereale
vernino (frumento) si libera presto il terreno in estate
consentendo, con un'aratura profonda, di lasciare esposti
a disseccarsi per tutta l'estate i rizomi della Sorghetta.
Si tratta di una operazione che favorisce il contenimento
anche di altre piante
con apparato radicale profondo, bulbi o rizomi – ad
esempio Rumex ssp. e Convolvolus arvensis
- che non sono danneggiati dall'effetto dell'erbicida
che esplica la sua massima efficacia solo a pochi centimetri
di profondità. Con l'avvicendarsi delle colture cambiano
le condizioni ecologiche, gli schemi di concimazione
e irrigazione e, soprattutto, il tipo di diserbo e nessuna
delle categorie di infestanti riesce a prevalere e ad
accumulare
una banca dei semi o di organi riproduttivi vegetativi
nel terreno. Tra le infestanti del mais vale la pena
segnalare il caso del
Cencio molle (Abutilon teophrasti). Questa infestante
in passato, era così poco diffusa che la crescente e
massiccia presenza, a partire dagli anni '80, venne
attribuita ad una neo-introduzione (quale pianta "esotica")
in parallelo con l'allora nuova coltura della soja.
In realtà il Cencio molle è, quantomeno da secoli, parte
della flora padana e la sua straordinaria diffusione,
che tanti problemi di infestazioni e di difficile controllo
ha rappresentato (e continua a rappresentare), è paradigmatica
dei meccanismi mediante i quali la specializzazione
colturale e la monosuccessione favoriscono la diffusione
delle infestanti.
L'impatto
dell'uso dei diserbanti
Nel
mais il diserbo chimico ha ottenuto già da diversi decenni
un successo strepitoso, inducendo ad abbandonare i mezzi
di lotta meccanica alle malerbe. Questo risultato è
da attribuire in larga misura ad un prodotto con eccezionali
doti di efficacia erbicida e di selettività: l'atrazina,
un prodotto clorotriazinico che fu a lungo il diserbante
più impiegato dai maiscoltori, finché non ne fu proibito
l'uso. Ma l'atrazina è risultata vittima del
suo stesso successo; esso indusse gli agricoltori ad
usarla in dosi massicce (anche per contrastare I fenomeni
di resistenza) tanto da provocare gravi e diffuse contaminazioni
delle riserve di acqua potabile della pianura padana.
Ne derivarono situazioni di emergenza che colpirono
parecchi comuni (specie nel 1986), tanto che l'acqua
potabile dovette essere rifornita con le autobotti e
si assistette alla distribuzione di sacchetti d'acqua
alla popolazione. Per risolvere questi problemi si dovette
procedere alla realizzazione di nuovi acquedotti che
comportarono ingenti spese. Costi sociali, beninteso,
"esternalità negative" dal punto di vista
delle imprese agricole e dei produttori e commercianti
di erbicidi.
La
conseguenza di quel disastro fu che l'atrazina venne
bandita da parte di alcune amministrazioni locali sin
dal fatidico 1986 e che, già da quell'anno, ne fu limitato
l'uso da parte del Ministero Sanità (Ordinanza Ministero
Sanità 25 giugno 1986). Va ricordato che con ordinanza
dell'allora Ministro della Sanità, onde evitare la chiusura
dei pozzi, il limite di legge di 0,1 microgrammi/litro
d'acqua venne elevato di ben 10 volte e che tale "deroga
provvisoria" alle direttive europee in materia
di requisiti di potabilità delle acque, dovette essere
prorogata – non senza forti polemiche - ancora nel 1988.
In seguito, a partire dal 1990, vennero introdotte ulteriori
restrizioni al suo utilizzo fino a che, nel 1992, fu
vietata definivamente
in Italia la vendita e l'uso di qualsiasi prodotto contenente
atrazina (Ordinanza Ministero della Sanità n. 705/910
del 18 marzo 1992). Nonostante ciò I dati più recenti
sulla contaminazione delle acque con erbicidi (2006)
indicano la presenza di atrazina nel 6,7% dei campioni
(la desetilatrazina, metabolica dell'atrazina, si trova
nel 7,1% dei campioni). Segno, quantomeno, di un residuo
di prodotto stoccato e smerciato
illegalmente. Dal punto di vista dei parametri chemiodinamici
le triazine sono tra gli erbicidi maggiormente suscettibili
di svolgere un ruolo di contaminanti delle acque sotterranee.
Per calcolare l'indice di lisciviazione secondo Gustafson
si utilizza una semplice formula che
tiene conto di DL50 (= indice di persistenza = tempo
in giorni di semidimezzamento nel terreno della sostanza
in esame in condizioni standard) e Koc (= indice di
mobilità = coefficiente di ripartizione tra la matrice
organica del suolo e l'acqua; valori di log Koc superiori
a 4 indicano un'elevata affinità per il suolo). L'indice
di lisciviazione secondo Gustafson è definito come:
GUS = log (DT50) x 4 - log Koc. Questa equazione empirica
ha un forte valore predittivo e la sua applicazione
permette di classificare le sostanze in: contaminanti
(leacher) delle acque sotterranee, se il loro
GUS è superiore a 2,8; non contaminanti con GUS >
1,8; con comportamento intermedio, se il loro GUS è
compreso
tra questi valori (Istisan, 2004). Sulla base delle
loro caratteristiche chimico-fisiche e chemiodinamiche
la terbutilazina e la desetilterbutilazina sono classificate
dagli enti preposti alla tutela dell'ambiente e della
salute pubblica quali potenzialmente mobili nel suolo
e dotate di persistenza da moderata ad elevata.
Tabella
1 – parametri chemiodinamici di alcuni erbicidi
T50
|
Log
|
Kco
|
GUS
|
T50
|
Log
|
Kco
|
GUS
|
terbutilazina
|
64
|
2,81
|
4,41
|
cianazina
|
14
|
1,45
|
3,13
|
iridate
|
10
|
3,70
|
0,30
|
butilate
|
16
|
2,73
|
2,09
|
pendimetalin
|
45
|
3,80
|
2,81
|
bromoxinil
|
15
|
2,47
|
2,23
|
metolacloro
|
23
|
2,26
|
3,19
|
bentazone
|
70
|
2,15
|
5,23
|
MCPA
|
14
|
2,30
|
2,28
|
atrazina
|
64
|
2,40
|
4,82
|
linuron
|
57
|
1,90
|
5,12
|
alacloro
|
11
|
2,27
|
1,90
|
EPTC
|
30
|
2,45
|
3,46
|
2-4,D
|
15
|
2,50
|
2,20
|
dicamba
|
14
|
1,90
|
2,68
|
|
|
|
|
Tossicologia,
ecotossicologia
La
rilevanza tossicologica dell'atrazina e dei suoi metaboliti
(desetilatrazina e deisopropilatrazina) è messa in evidenza
da un'ampia letteratura che dimostra come, nonostante
la loro tossicità acuta nei mammiferi sia generalmente
limitata, la loro interferenza biologica risulti elevata
(Istisan, 2004). Studi sperimentali su roditori ed alcuni
studi epidemiologici hanno dimostrato, sin dagli anni
'90, che esposizioni prolungate ad atrazina possono
aumentare il rischio di tumori della mammella e dell'ovaio
(Donna et al., 1996; Kettles et al., 1997). Diversi
studi epidemiologici hanno anche avanzato l'ipotesi
di relazione tra triazine e diverse altre forme tumorali
anche se la numerosità dei casi, la durata delle indagini
e la possibilità di concause ha portato ad escludere
la rilevanza statistica dei risultati (Sathiakumar e
Delzell, 1997). Il quadro dei risultati ha comunque
indotto l'Epa (Ente per la protezione ambientale statunitense)
a classificare l'atrazina come cancerogeno del Gruppo
C, ovvero sospetto cancerogeno per l'organismo umano
(Us Epa, 1999). Il meccanismo più accreditato che spiegherebbe
la cancerogenicità delle triazine sembra da ricondursi
all'interferenza con la sintesi degli ormoni steroidei
legati alla sfera riproduttiva. E' stato osservato da
tempo (Lang et al., 1996; Lang et al., 1997; Sanderson
et al., 2001) che queste molecole provocano l'induzione
dell'aromatasi, un enzima chiave nel pathway biosintetico
degli ormoni steroidei e un conseguente squilibrio ormonale,
dovuto ad una alterazione dei livelli di estradiolo
e di estrone.
L'effetto
di
stimolo dell'espressione dell'aromatasi da parte dell'atrazina
è stato osservato recentemente anche in alcune linee
di cellule tumorali umane (Fan WuQiang, 2007) riportando
di attualità il dibattito sullo scottante argomento.
Oltre a stimolare la sintesi di estrogeni, l'atrazina
e alcuni suoi metaboliti inibiscono la sintesi del testosterone.
Gli effetti delle triazine trovano riscontro in modo
clamoroso nel caso degli anfibi dove a bassissime concentrazioni
(pari al limite di legge in vigore) l'atrazina provoca
la femminilizzazione degli individui maschi (un fatto
che spiega la riduzione delle popolazioni di anfibi
in aree contaminate). In definitiva, se l'effetto di
perturbatore endocrino appareparticolarmente pericoloso
per la fauna acquatica (pesci, anfibi, rettili), altrettanto
grave appare quello correlato ai tumori degli organi
riproduttivi dei mammiferi.
Oltre
agli effetti sugli animali superiori non bisogna dimenticare
che la contaminazione con atrazina e altri composti
triazinici ha anche altri effetti sui sistemi acquatici
(alghe) (Shehata et al., 1993; Faust et al., 2001; Berard
et al., 2003) e sulla microfauna del terreno (Barrer
et al., 1994; Lins et al., 2007).
Dopo
la messa al bando dell'atrazina, la ricerca chimica
ha trovato numerosi principi attivi sostitutivi, ma
nessuno ha uno spettro d'azione completo, per cui è
necessario intervenire con principi attivi diversi o
con trattamenti in epoche diverse o in miscele, sia
estemporanee sia in formulazioni precostituite. Il diretto
discendente dell'atrazina è la terbutilazina che ne
condivide parecchie proprietà tra cui quella di dare
vita a dei metaboliti (desetilterbutilazina) che, per
la loro maggiore persistenza, si trovano spesso nelle
acque in concentrazioni superiori alla molecola parentale.
Il largo ricorso alla terbutilazina (e la conseguante
contaminazione delle acque che si rispecchia nei dati
recenti già citati) ha determinato provvedimenti ristrettivi
a suo carico. Nel 2002 venne revocata l'autorizzazione
per tutti gli erbicidi contenenti terbutilazina (GU
n. 178 del 31-7-2002) al fine di introdurre nel mercato
nuove confezioni indicanti che l'uso di questo principio
attivo deve essere riservato al mais e al sorgo nel
rispetto della dose di 1 kg/ha. In Piemonte, già nel
2003, in seguito ai risultati del monitoraggio, è stata
richiesta alle autorità competenti la limitazione di
impiego. (Deliberazione del Consiglio Regionale 17 giugno
2003, n. 287-20269). In base ad una normativa nazionale,
a partire dal 1°gennaio 2008 non è più possibile utilizzare
erbicidi contenenti la sola terbutilazina, ma devono
essere impiegati esclusivamente formulati che prevedono
la miscela di quest'ultima con altre sostanze. Sono
state inoltre introdotte alcune limitazioni d'uso per
i prodotti contenenti tale principio attivo. In particolare,
negli appezzamenti adiacenti ai corpi idrici superficiali
dovrà essere lasciata una fascia di rispetto non trattata
pari a 5 metri, così come nelle aree vulnerabili da
fitofarmaci. In ogni caso la questione della revoca
dell'autorizzazione all'uso della terbutilazina in quanto
tale è attualmente in discussione a livello comunitario.
Nel frattempo uno dei più comuni (il metolaclor) è stato
ritirato dal mercato sin nel 2003 (sostituito prontamente
dal S-metolaclor, diverso solo per il rapporto relativo
dei due isomeri presenti).
Dal
punto di vista tossicologico l'esposizione acuta (nell'ordine
di mg/l) alla terbutilazina provoca varie alterazioni
istopatologiche a carico di branchie, fegato, reni,
epitelio intestinale nel Branzino d'allevamento (Dezfuli
et al., 2006). Concentrazioni basse (nell'ordine di
µg/l) sono però sufficienti a determinare alterazioni
ematologiche e istologiche (a carico delle branchie,
fegato e reni) nel Persico. Il bioaccumulo di terbutilazina
modifica in modo significativo alcune attività enzimatiche
legate ai meccanismi di detossificazione nella Trota
iridea (Tarja et al., 2003).
Come
in generale le triazine anche la terbutilazina altera
i meccanismi di regolazione della comunità trofiche
del terreno o alterando le catene alimentari che collegano
la microflora alla microfauna predatrice sia attraverso
effetti tossici diretti che indirettamente influenzando
le interazioni trofiche (Salminen et al., 1996)
In
conclusione non può mancare qualche considerazione sulla
ormai ampia disponibilità di sistemi informativi che,
incrociando i dati relativi alla vulnerabilità dei suoli
ai fitofarmaci utilizzati, la vulnerabilità idrogeologica
degli acquiferi e la pressione sul territorio della
coltivazione del mais, possono consentire di cartografare,
con l'ausilio di Gis (sistemi informativi geografici),
il grado di "criticità" della maiscoltura.
Per la Lombardia simili applicazioni sono già disponibili
o stanno per esserlo a livello provinciale (Ersaf, 2006).
Ne emerge un quadro di significativa presenza di aree
ad alta criticità e di diffusa presenza di aree a criticità
moderata alla terbutilazina nella fascia di bassa pianura
lombarda. In queste aree non resterebbe che ricorrere
all'introduzione dell'avvicendamento colturale e alla
reintroduzione di prati stabili e comunque di altre
coltivazioni foraggere "tradizionali". (continua)
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