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Le problematiche agroambientali del sistema di produzione

 del Grana Padano DOP

 

Pubblicato in : Alimenta COMMENTARIO TECNICO-GIURIDICO DELLA PRODUZIONE AGRO-ALIMENTARE N. 11/12 Anno XVI Novembre-Dicembre 2008, pp. 223-232

Parte I

 

1. I termini generali del problema - 2. Uno scenario senza insilati - 3. Il controllo chimico delle piante infestanti del mais e il suo impatto ambientale

 

Premessa

 

Nella prima parte di questo contributo ci occuperemo della definizione del problema nei suoi termini generali cercando di comprendere il nesso tra gli impatti ambientali delle attività agro-zootecniche nel bacino del Po e gli aspetti specifici che caratterizzano il sistema di produzione del Grana Padano (d'ora in poi GP). Cercheremo anche di delineare lo scenario che verrebbe a definirsi sulla base dell'esclusione dell'utilizzo degli insilati nell'alimentazione delle vacche da latte (causa della presenza di spore di Clostridi nel latte e motivo dell'utilizzo dell'additivo conservante Lisozima). Verrà ipotizzata in particolare la riduzione dell'uso di fitofarmaci (diserbanti) conseguente a questo ipotetico scenario.

Nelle parti successive ci occuperemo del problemi legati ad altri aspetti del controllo delle avversità biotiche della maiscoltura (concia del seme, infezioni fungine, entomoparassiti), all'uso della risorsa idrica, ai problemi della lisciviazione dei nitrati (e, più in generale, dell'uso dei fertilizzanti), alla fertilità di lungo periodo del terreno.

 

I termini generali del problema

La produzione del GP interessa, almeno sulla carta, 5 regioni e 32 province, dal Piemonte (dove assume un certo rilievo la sola provincia di Cuneo) al Veneto e comprendendo anche la Provincia di Trento e alcune aree dell'Emilia Romagna (in prevalenza nel piacentino).

In realtà il prodotto viene realizzato in netta prevalenza in tre province della pianura lombarda orientale irrigua: Mantova (30 caseifici, 28% dell'intera produzione nazionale), Brescia (31 caseifici, 22%) e Cremona (11caseifici, 17%).

Da tempo in questa area omogenea si è consolidato un sistema agrozootecnico basato su aziende di grandi dimensioni ad indirizzo specializzato zootecnico-foraggero, dove la principale coltura è rappresentata dal mais ceroso (silomais), base indiscussa della razione alimentare delle lattifere. Il silomais consente di ricavare per unità di superficie una quantità di Unità foraggere più che doppia rispetto alle più produttive trale coltivazioni foraggere tradizionali e di operare in un breve periodo la raccolta e lo stoccaggio di una scorta foraggera in grado (sia pure integrata con l'uso di altri foraggi quali fieno di prato stabile, fieno di medica, fienosilo di loiessa) di soddisfare le esigenze dell'allevamento per 365 giorni dell'anno.

I vantaggi dell'insilato di mais (beninteso se adeguatamente conservato) consistono anche nella sua buona appetibilità e nel grado delle operazioni di preparazione degli alimenti (sugli svantaggi torneremo a breve). Lo squilibrio tra produzione di liquami e superfici idonee al loro spandimento (o si dovrebbe dir smaltimento?).

A tanti e sostanziali vantaggi corrispondono altrettanti numerosi e gravi inconvenienti. Fino ad oggi la bilancia ha continuato a pendere sul lato dei vantaggi in forza di considerazioni economiche (l'abbattimento del costo della razione alimentare). Dal punto di vista ambientale, i vantaggi principali sono legati alla possibilità – grazie all'elevata quantità di Unità foraggere prodotte per Unità di superficie - di mantenere un carico animale elevatissimo in rapporto alle superfici disponibili per lo spandimento dei reflui zootecnici.

Lo squilibrio tra le superfici foraggere aziendali e la quantità di reflui zootecnici prodotti è aggravato dalla forte specializzazione zootecnica dei comprensori in discorso dove sono pochi i terreni, siti in un raggio di pochi km dal centro aziendale, in grado di ricevere i reflui in esubero prodotti dalle unità zootecniche di produzione intensiva.

Nei comprensori irrigui della bassa padana, infatti, oltre alla presenza di altre aziende zootecniche da latte non coinvolte nella produzione del GP, vi sono quelle che si dedicano alla produzione del vitellone precoce (che utilizzando anch'esse silomais), e – soprattutto – quelle che allevano suini da ingrasso (utilizzando prevalentemente granella umida di mais). Queste ultime, peraltro, sono maggiormente presenti nelle stesse tre province della pianura lombarda orientale, dove si concentra la produzione del GP. Tutti questi allevamenti intensivi utilizzano mais come principale fonte energetica per l'alimentazione animale e richiedono un forte input di proteine dall'esterno. Nel caso del silomais il tenore in proteina grezza sulla sostanza secca è del solo 8,5%, mentre quello proteico medio delle razioni per vacche da latte si colloca intorno

al 17%. Ovviamente utilizzando i foraggi convenzionali tale gap è molto meno accentuato; un fieno di medica contiene il 17% di proteina, quello di buon prato stabile il 12%. Gli animali in accrescimento (suini, vitelloni) presentano, in analogia con la vacca da latte, elevate esigenze proteiche alimentari; tutto il sistema zootecnico richiede fonti proteiche che possono essere reperite solo altrove (nel caso della soia, in gran parte OGM, da oltreoceano). Sono in gioco enormi quantità di proteine (azoto) che entrano come input nel flusso del sistema agroambientale in misura molto superiore a quella che ne esce in forma di prodotti (l'azoto output contenuto nel latte e nei tessuti animali) dal momento che 1) la maggior parte dell'azoto per l'alimentazione animale è un input esterno; 2) la maggior parte dell'azoto alimentare si ritrova nelle escrezioni (urinarie e fecali).

La situazione potrebbe essere bilanciata se, nei comprensori agrari in questione, vi fossero colture in grado di utilizzare questo surplus azotato. Se prendiamo in considerazione la provincia di Cremona (l'unica esclusivamente di pianura nell'ambito del "trio" del GP) la principale coltura che potrebbe beneficiare del surplus di azoto contenuto nei reflui zootecnici è il frumento che, però, copre una superficie pari al solo 9%. Sono poi risibili gli investimenti in altri cereali (tolto, ovviamente il mais, ma questo è per lo più utilizzato come re-impiego zootecnico ed è generosamente fertilizzato con i liquami). Le possibilità di riequilibrio sono peraltro scarse e quello che è un forte surplus azotato a livello aziendale comporta anche un surplus a livello comprensoriale. E' ovviamente quest'ultimo alla base dei gravi impatti ambientali in termine di contaminazione delle acque superficiali e profonde nonché di emissioni atmosferiche (ammoniaca e biossido di azoto). La destinazione del surplus, infatti, non prevede altre alternative rispetto a 1) accumulo di azoto nel terreno, 2) immissione nell'ambiente (aria e acqua).

Il recepimento della direttiva comunitaria 91/676/CEE (attraverso il DM 7 aprile 2006) ha costretto ad una drammatica presa di coscienza di un problema che, in precedenza, era stato largamente sottovalutato sulla base di norme basate su "tabelle tecniche" che sottovalutavano in modo palese (basandosi su studi vecchi di decenni) l'escrezione azotata di una vacca da latte al netto delle volatilizzazioni atmosferiche durante lo stoccaggio (50 kg di azoto annuo contro gli 83 attuali). Le correzioni apportate con le nuove norme sono state eseguite basandosi sull'escrezione media di una vacca da latte di una non precisata razza ed allevata in una non precisata regione e sistema di produzione e pertanto sottovalutano ancora di molto la reale produzione di azoto nei reflui zootecnici dell'allevamento da latte dei comprensori irrigui padani. Alla sottovalutazione della produzione di azoto da parte delle lattifere fa riscontro la sopravalutazione dei fabbisogni delle colture. In ogni caso è largamente noto che oltre la metà dell'azoto somministrato non viene utilizzato dalle colture.

All'attualità, nonostante questi "edulcoramenti", I problemi delle aziende (e dei comprensori) che producono quantità di azoto per ettaro in misura superiore ai limiti della direttiva nitrati e ai fabbisogni delle colture, sono di molto aumentati rispetto alla situazione precedente. Tanto che, onde evitare la procedura di infrazione contro l'Italia per la mancata applicazione della direttiva nitrati (ritirata nel giugno 2008), la Regione Lombardia, dopo forti resistenze, ha accettato di estendere le aree classificate "vulnerabili" ai nitrati presenti nelle acque di falda. In forza di tale ampliamento delle aree dichiarate "vulnerabili" il 56,5% della pianura lombarda è ora sottoposto al vincolo del massimo di apporto azotato di 170 kg per ha (contro i 340 kg/ha delle zone non vulnerabili). Tra gli altri vincoli conseguenti al recepimento della direttiva figura anche il divieto (senza più deroghe) di spandimento invernale dei liquami con un "fermo" di 90 giorni. Una cosa è certa: gli effetti degli impatti ambientali che in passato rappresentavano solo "esternalità", che sul bilancio aziendale non venivano ad incidere, oggi si stanno traducendo in costi crescenti per le aziende.

Gestire il surplus di azoto legato al sistema mais-soia diventa sempre più oneroso in ragione delle grandi capacità di stoccaggio richieste e, soprattutto, in vista della necessità di introdurre complessi e costosi impianti per la separazione della frazione liquida da quella palabile, per la digestione anaerobica e per l'abbattimento dell'azoto. La Regione Lombardia contribuisce generosamente coprendo il costo degli interessi e delle garanzie finanziarie, ma l'investimento è pur sempre oneroso.

I grandi vantaggi del sistema di foraggiamento delle vacche da latte con mais ceroso sono quindi controbilanciati da costi crescenti. E' lecito quindi porsi l'interrogativo sui limiti di convenienza di questo sistema "spinto" oltre che sui suoi impatti ambientali. Il ragionamento deve partire dalla considerazione che la produzione di latte riguarda aspetti ben diversi della produzione del vitellone precoce! E infatti nessuno può negare che l'alimentazione con insilato di mais può compromettere in modo significativo la qualità del latte e del formaggio (specie quello a lunga stagionatura). Rimandando ad un successivo contributo gli altri aspettirelativi alla composizione e al profilo organolettico dei prodotti caseari ci limiteremo in questa sede all'inquadramento generale delle diverse situazioni create dal problema dei Clostridi nel latte.

 

Insilato = Clostridi = Lisozima

Alimentare le vacche da latte con gli insilati (foraggi conservati in assenza di aria) rappresenta la principale causa della presenza di Clostridi nel latte; mentre con l'alimentazione tradizionale (a base di erba o fieno) si trovano meno di 200 spore di Clostridi per litro, con quella a base di insilati se ne possono trovare più di 2.000. La presenza dei Clostridi provoca il "gonfiore tardivo", un difetto del formaggio che consiste nella presenza di occhiature, fessurazioni, sfogliature, caverne e, talora, nella consistenza spugnosa della pasta. In sovrappiù possono riscontrarsi sapori ed odori sgradevoli. Questo grave problema (contro il quale non vi sono rimedi) si verifica dopo qualche settimana/ mese di stagionatura e assilla vari tipi di formaggi a pasta dura o semi-dura, in primis il GP. Situazione sempre più problematica, come dimostrato dal fenomeno sempre più accentuato della presenza di elevate cariche di Clostridi nel latte.

In Lombardia dati recenti (2006) indicano un generalizzato peggioramento della situazione. I Clostridi sono batteri che si sviluppano in condizioni di anaerobiosi, protetti da una capsula protettiva che ne consente la sopravvivenza nel terreno per anni. Sono resistenti alle temperature elevate (e quindi alla pastorizzazione) e ai comuni disinfettanti. Situazione ben nota agli allevatori ma alla quale non rimediano per ragioni economiche posto che gli insilati abbattono i costi della "razione". La colpa, però, non è solo dell'insilato. L'unifeed è l'altro "imputato". La tecnica dell'unifeed ovvero del "piatto unico", che permette la somministrazione - in un'unica "passata" - di tutti i componenti della dieta in miscela fra loro, è stata adottata per accorciare i tempi della distribuzione.

Si utilizzano enormi carri miscelatori superaccessoriati (da 20 metri cubi di capacità!) che "estraggono" l'insilato dai silos, "trinciano" i foraggi "lunghi", li mescolano a mangimi ed altre materie prime (anche liquide) o acqua. Il foraggio così trattato è consumato senza lasciare avanzi. In più, somministrando insieme mangimi e foraggi, si possono far ingerire aumentati quantitativi di mangime di quanto possibile con la somministrazione del solo mangime. Una serie di vantaggi dal punto di vista economico, ma non di quello dell'igiene e della sanità del latte. Con questo sistema, infatti, la polvere e la terra che contaminano i foraggi finiscono nella miscelata e la presenza di acqua, amidi e zuccheri costituiscono un pabulum ideale per lo sviluppo dei Clostridi. Le vaccine lattifere ingeriscono così le spore dei Clostridi e le "restituiscono" nelle feci e da queste, con il liquame sparso copiosamente sui terreni, le spore tornano al terreno dove i Clostridi si riproducono riattivando così il ciclo.

Veniamo al latte. La sua contaminazione avviene principalmente attraverso le feci e l'imbrattamento delle mammelle. I moderni sistemi di stabulazione "libera", che non prevedono l'uso di paglia, sono spesso caratterizzati da aree di "esercizio" molto sporche, dove le mucche si imbrattano di deiezioni per di più ammassate, in attesa di essere rimosse, nelle sale di mungitura. Stalle e impianti sottodimensionati rispetto all'aumentato numero di mucche presenti, la contrazione della manodopera e l'inevitabile aumento dei problemi gestionali contribuiscono a peggiorare la situazione in quanto non si puliscono a sufficienza le aree di riposo, le attrezzature a contatto con gli animali, le mangiatoie (non di rado ricettacolo di residui di alimenti). La pulizia di mammella e capezzoli non è sempre adeguata per mancanza di tempo. Il largo uso di disinfettanti non risolve il problema, semmai lo aggrava perché riduce la flora microbica "buona", in grado di contrastare I Clostridi che, invece, nelle condizioni descritte trovano il loro habitat più favorevole. In caseificio non è possibile rimediare e questo spiega il ricorso all'uso del Lisozima (antibatterico naturale). Le altre soluzioni, rappresentate da moderne tecnologie casearie, sono estranee al contesto produttivo di un prodotto "tipico".

 

Uno scenario (teorico) senza insilato

Da tutto quanto detto sinora emerge il nesso molto stretto tra la produzione di GP e l'alimentazione maidicola "spinta", un nesso che ha per mediatore risolutore il Lisozima. Stabilito questo nesso occorre ora valutare l'impatto ambientale del sistema partendo dai campi, dove si semina, si spargono i liquami, si irrorano i pesticidi e si raccoglie il mais.

 

Grana Padano e coltivazione del mais

Per stimare il peso della produzione di latte destinato alla trasformazione in GP in termini di fabbisogni di mais e di superfici investite va tenuto presente che, alla produzione complessiva di 4.200.000 forme/anno, ne vanno sottratte 100.000 di Trentin Grana, un prodotto che pur restando nell'ambito del GP ha escluso dal proprio disciplinare di produzione l'uso del mais ceroso per l'alimentazione delle vacche da latte.

Per la rimanente produzione si terrà comunque conto che, anche fuori del Trentino, vi è una quota di aziende che producono latte destinato alla trasformazione in GP che non utilizzano mais ceroso. Si stimerà perciò un quantitativo medio di utilizzo del mais ceroso sull'insieme delle aziende zootecniche da latte coinvolte nella produzione del GP più basso rispetto a quello che viene ordinariamente utilizzato nelle aziende che lo impiegano nella razione alimentare delle proprie vacche da latte. 4.200.000 forme al peso medio di 35 kg significano 147 mila t di formaggio marchiato che, con la resa del 7%, implicano l'utilizzo di 2,1 milioni di t di latte e, considerato che una vacca produce mediamente 8,5 t di latte, è necessario disporre di un "parco vacche GP" di quasi 250.000 lattifere. In realtà le vacche "coinvolte" nella produzione di GP sono molte di più (stimate 350.000 da fonti "interne" al sistema delle DOP) in quanto molti caseifici non si limitano alla produzione del solo GP ma utilizzano il latte conferito per produzioni diverse. Va comunque tenuto conto che il fabbisogno di latte per la produzione di GP così calcolato (sulla base del numero di forme marchiate e dichiarate) è in realtà sottostimato in quanto risulta al netto di scarti e "scartoni".

Consideriamo ora il "fabbisogno" alimentare di tale "parco vacche" così stimato. Una vacca in lattazione riceve una quantità di insilato di mais tra i 20 e i 30 kg (ma si può arrivare a 35 kg o utilizzarne anche solo 10). Laddove viene utilizzato l'insilato di mais una quantità di 25-27 kg/giorno potrebbe essere ritenuta una media indicativa; vi è però - come già ricordato - una minoranza di aziende nelle quali l'insilato non è utilizzato (si tratta di aziende di zone di montagna come ad esempio nel piacentino o di aziende biologiche o di alcune zone dove tutt'oggi vi è una forte presenza di prati stabili come nel Mantovano e nel Cremasco).

Sulla base di tali considerazioni è realistico stimare per il "parco vacche" precedentemente calcolato un consumo medio giornaliero di 20 kg/giorno/vacca in lattazione. Le bovine ricevono inoltre altri kg di mais sotto forma di pastoni, farina, mais schiacciato, mais fioccato, mais germe, mais glutine ecc, che entrano come materie prime o attraverso mangimi finiti (potremo calcolarli complessivamente in 5 kg di granella equivalente). Per ogni vacca in lattazione va calcolata la "popolazione improduttiva", cioè le vacche in asciutta e manze presenti in stalla. L'incidenza nelle stalle del "bestiame improduttivo" è oggi molto elevata (un soggetto "asciutto" per uno in lattazione); ciò a causa della breve carriera produttiva delle vacche da latte "spinte" (poco più di due lattazioni per capo) che implica una notevole quota di rimonta (tutte le vitelle devono essere allevate). Va poi comunque tenuto conto che per ogni vacca in lattazione vi sono 0,16 vacche asciutte. Anche i capi asciutti consumano una significativa quantità di mais ceroso (variabile in funzione dell'età, stato di gravidanza) valutabile, sempre tenendo conto che in alcune aziende l'insilato non è utilizzato e che in altre vi è comunque un largo ricorso a fieno e fieno-silo, in 8 kg/capo. Anche nei capi asciutti vi è un consumo di mais sotto altre forme (che stimeremo a 1 kg di granella equivalente).

Nella media delle aziende conferenti il latte ai caseifici che producono GP la quota di silomais per "unità di stalla" (vacca in lattazione + capi asciutti) risulterebbe pertanto pari a 28 kg/giorno. La produzione di silomais nelle condizioni della pianura padana è di 54 t/ha. Considerando le perdite in trincea orizzontale (15%) ed ulteriori perdite per spreco di foraggio la produzione deve risultare pari a 1,3 volte il fabbisogno alimentare. 250.000 "unità stalla" (per 28 kg e 365 giorni) richiedono pertanto 3,2 milioni di tonnellate di prodotto alla raccolta. Tale produzione, considerando una produttività media di 54 t/ha, è ottenibile investendo 59.100 ha.

Nella pianura padano-veneta la superficie a mais ceroso (200.000 ha nel 2007, dati Istat). La produzione di GP è pertanto da associare al 30% della superficie investita a mais ceroso. Come "consumatori" di mais ceroso seguono i vitelloni in allevamento intensivo (gli allevamenti sono presenti soprattutto in Veneto) e le altre produzioni lattiero-casearie (Provolone Valpadana, Gorgonzola, Taleggio ecc.). Per valutare l'imputazione complessiva delle superfici investite a coltura maidicola vanno ora aggiunti 576.300 t di mais da granella che, con una resa media di 9 t/ha (e una quota di perdite/spreco molto limitata e pari al 5%) comporterebbero un investimento di altri 64.000 ha. Tenendo conto che le importazioni di mais coprono in Italia il 10% del fabbisogno (il mais utilizzato nei mangimifici può essere anche di origine francese) la superficie necessaria in questione può essere ridotta a 60.900 ha. Il totale delle superfici a mais "indotte" dal GP equivarrebbe ad un totale di 120.000 ha.

 

Due ipotesi

Nell'ipotesi che il Grana Padano rinunciasse, alla pari del Parmigiano Reggiano, all'uso degli insilati ci si potrebbe attendere una sostanziale riduzione degli impatti ambientali nei comprensori zootecnici da latte della pianura Padana irrigua? Esaminiamo due ipotesi del tutto teoriche e che esulano - sia ben chiaro - da considerazioni economiche. Nella prima valuteremo le conseguenze della cessazione dell'uso dell'insilato di mais mantenendo inalterato il volume di produzione del GP (e quindi le unità foraggere necessarie). Nella seconda ipotesi sconteremo una contrazione della produzione mantenendo costante la superficie agricola attualmente impegnata. In entrambi i casi terremo conto che (come avviene peraltro anche nel regime di produzione del Parmigiano Reggiano), il silomais può continuare ad essere utilizzato per le manze sino al sesto mese di gravidanza. Dal fabbisogno di 28 kg/giorno di insilato di mais per l'unità di stalla (vacca in lattazione più asciutte e rimonte) si scenderebbe così a 6,5 kg. La superficie investita a mais ceroso crollerebbe da 59.100 a 13.700 ha e 45.400 ha, già investiti a mais ceroso, dovrebbero essere convertiti in prati monofiti e polifiti avvicendati e in prato stabile. Queste coltivazioni foraggere non solo presentano minore produttività (1,1 t di sostanza secca/ha vs 1,9 t del mais ceroso) ma minore valore energetico (0,68 Unità foraggere latte/kg di s.s. vs. 0,86 del mais ceroso). Dal momento che l'ingestione di sostanza secca proveniente da foraggi non può essere aumentata (non è pensabile aumentare la quantità complessiva di foraggio dal momento che si considera di sostituire il silomais - caratterizzato peraltro anche da una buona appetibilità – in un contesto di ingestione già elevata) si dovrà ammettere, per compensare la minore densità energetica del fieno di medica o polifita, di ricorrere ad un aumento della quantità di amido (da cereali) nella razione (è quello che succede nel caso del Parmigiano-Regiano). Non solo risulterebbe quindi necessario investire 73.400 ha (45.400 ha già investiti a mais ceroso più altri 28.000 ha) in colture foraggere "tradizionali", ma, per pareggiare il deficit energetico, si dovrebbero investire ulteriori 12.900 ha a mais da granella (ove si volesse reperire il 95% del fabbisogno all'interno del comprensorio). Nel complesso il sistema GP richiederebbe 41.000 ha in più. L'aumento delle coltivazioni foraggere tradizionali, però, non potrebbe che avvenire a spese del mais.

Sempre utilizzando il caso di Cremona si constata come il mais (che da solo rappresenta il 55% per cento delle superfici), sommato alle coltivazioni foraggere, rappresenti il 78% delle superfici agrarie utilizzate (se si sommano i cereali "minori" si arriva al 90%). Dal momento che il restante 10% è rappresentato da colture specializzate sarebbe giocoforza convertire 28.000 ha dai cereali (in prevalenza mais) a foraggere. La superficie a mais da granella (o altri cereali) coinvolta dalla produzione del GP risulterebbe perciò diminuita di soli 14.900 ha in relazione all'aumentato fabbisogno di granella stessa (-28.000 ha, + 12.900 ha). Consideriamo ora un altro scenario. Invece di supporre un "parco vacche" e una produzione di latte e di GP invariata, assumiamo che si accetti un forte ridimensionamento delle vacche da latte allevate e quindi della produzione di latte e di GP. Un simile scenario consentirebbe la destinazione a foraggere della superficie già destinata a mais ceroso. Rimarrebbero investiti a mais ceroso 7.400 ha da destinare alle manze, consentendo di disporre comunque di 49.900 ha da convertire da mais a foraggere tradizionali. Le vacche "addette" alla produzione del GP subirebbero una drastica diminuzione: da 250.000 a 134.200 e, corrispondentemente, la produzione di GP scenderebbe da 147.900 t a 79.400 t.

 

Stima del quantum specifico di principi attivi erbicidi connessi alla produzione del GP

Rimandando a successivi contributi l'esame delle variazioni di impatto ambientale conseguenti alla "rivoluzione" dell'ipotetica rinunzia all'utilizzo del mais ceroso cercheremo ora di calcolare di quanto diminuirebbe la quantità di erbicidi irrorati sui campi della pianura padano-veneta.

Nell'annata 2006-2007 (dato più recente disponibile) la quantità di diserbanti applicati alla coltivazione del mais è risultata, sulla base dei dati ufficiali Istat, pari a 2,4 kg/ha; tenendo conto che nel 2001-2002 la corrispondente quantità era pari a soli 1,1 kg/ha (e che quindi gli effetti della monosuccessione si stanno aggravando), considerando che l'area di produzione del GP corrisponde ad un'area di maiscoltura intensiva, (dove la monosuccessione è da tempo praticata), che alle quantità di erbicidi utilizzati ed ufficialmente rilevati vanno purtroppo aggiunte quelle utilizzate illegalmente in forza della presenza di un mercato parallelo (testimoniata inequivocabilmente dalla persistente presenza di atrazina nelle acque come si vedrà in prosieguo), è più realistico supporre un utilizzo di 2,75 kg/ha, che corrisponde al 10% in più del dato ufficiale Istat più recente disponibile. Tale quantità, moltiplicata per la superficie sopra ricavata, comporta un quantitativo di 330 t di principi attivi erbicidi "applicati" ai terreni. Nello scenario di eliminazione dell'insilato di mais dalla razione alimentare delle vacche coinvolte nella produzione del GP avremmo nell'ipotesi 1) (produzione di GP invariata) una riduzione delle superfici a mais ceroso di 45.400 ha e una di 14.900 ha di quelle di mais da granella (ed altri cereali) cui corrisponderebbe un aumento di 73.400 ha di foraggere tradizionali. Il passaggio a queste ultime comporterebbe un drastico calo delle quantità utilizzate di erbicidi. L'opportunità del diserbo chimico delle coltivazioni foraggere "tradizionali" viene infatti valutata di volta in volta in base alla presenza di erbe infestanti e può essere limitata ad interventi riguardanti solo parte delle superfici. L'unico tipo di prato da vicenda per cui i protocolli di lotta integrata e di buone pratiche agronomiche ammettono la possibilità del diserbo chimico è il medicaio. Ma anche in questo caso il diserbo chimico è eseguito frequentemente nel solo primo anno di impianto (al fine di assicurare una buona "partenza").

Negli anni successivi, la capacità di competizione dell'erba medica stessa nei confronti delle infestanti e le buone pratiche colturali (razionale calendario di sfalci, adeguata concimazione, buona sistemazione per evitare ristagni), sono generalmente sufficienti per mantenere sotto controllo le malerbe. D'altra parte non è prevedibile una larga sostituzione delle superfici già investite a mais ceroso con il medicaio per la semplice ragione che il forte accumulo di azoto nel terreno rende più profittevoli, almeno in termini di unità foraggere, colture foraggere monofite o polifite a prevalenza di Poaceae con forti esigenze azotate. Stimiamo quindi l'uso di principi attivi per le colture foraggere che subentrerebbero al mais ceroso nell'ordine di 0,2 kg/ha pari a 14,7 t complessive. In compenso la riduzione delle superfici a mais ceroso equivarrebbe a 125,1 t, cui si devono aggiungere una ulteriore diminuzione di 29,8 t in ragione della riduzione delle altre superfici a cereali (in questo caso si è considerato un dato di partenza meno elevato e pari a 2,0 kg/ha considerando che una parte di queste superfici avrebbe potuto essere investita, oltre che a mais, anche a cereali con minor fabbisogno di diserbo chimico). Nel complesso vi sarebbe un minor impiego di 140 t di principi attivi erbicidi.

Un valore non molto inferiore si ricava nella seconda ipotesi (consistente nella conversione "secca" delle superfici a silomais a foraggere tradizionali). In questo caso si otterrebbe la diminuzione di 49.900 ha investiti a mais ed un corrispondente aumento delle foraggere tradizionali con una diminuzione dell'utilizzo di principi attivi erbicidi di 127 t di principi attivi erbicidi. Possiamo considerare i due dati ottenuti come una stima teorica dell'impatto, in termini di utilizzo di erbicidi, dell'impiego dell'insilato di mais nella produzione del GP. Tale impatto equivarrebbe a più del 7% del totale dei principi attivi erbicidi utilizzati per la coltivazione del mais in Italia.

 

Il controllo chimico delle piante infestanti del mais e il suo impatto ambientale

Tutte le considerazioni e le ipotesi sopra sviluppate risulterebbero futili esercitazioni se non fosse che: 1) esiste un grave problema di impatto ambientale dell'utilizzo degli erbicidi sui sistemi idrici della pianura padano-veneta; 2) la principale imputata di questi impatti è la maiscoltura; 3) tra le destinazioni dell'uso zootecnico del mais (carne, formaggi a breve stagionatura) quella che dovrebbe essere chiamata per prima a concorrere ad una graduale conversione della maiscoltura in colture foraggere tradizionali è la produzione di latte destinato a formaggi "tipici" a lunga stagionatura. Essi infatti risentono in maggior misura dell'effetto della qualità del foraggio; inoltre la sostituzione del silomais con foraggi tradizionali, per quanto "controrivoluzionaria", è certamente di più facile attuazione della sostituzione della granella umida di mais nell'alimentazione del suino da carne (che pure implica non pochi problemi qualitativi nella produzione dei prosciutti crudi Dop Parma e San Daniele). Tralasciando in questa sede il punto 3) vediamo di dare ragione dei punti 1) e 2).

 

Il mais è additato quale imputato numero uno

L'Ispra (Istituto superiore per la ricerca e la protezione dell'ambiente), commentando il rapporto annuale 2008 sulla presenza di residui di fitofarmaci nelle acque (i dati sono riferiti alla campagna di analisi del 2006), mette in rilievo che i risultati:

 

"[…]confermano e rendono più evidente uno stato di contaminazione già rilevato negli anni precedenti. Per alcune delle sostanze la contaminazione è molto diffusa e interessa sia le acque superficiali, sia quelle sotterranee di diverse regioni e prefigura la necessità di

 nterventi di mitigazione dell'impatto".

 

Quanto alle sostanze contaminanti il sopra citato rapporto sottolinea come tra i contaminanti delle acque :

 

"[…] gli erbicidi sono quelli più comunemente rinvenuti, fatto spiegabile sia con la loro modalità di utilizzo, che può avvenire direttamente al suolo, sia con il periodo dei trattamenti, in genere concomitante con le precipitazioni meteoriche più intense, le quali, attraverso il ruscellamento e l'infiltrazione, ne determinano un trasporto più rapido nei corpi idrici superficiali e sotterranei".

 

L'indice accusatore viene poi puntato contro la coltura del mais

 

"Tra le contaminazioni più diffuse vi è quella dovuta alla terbutilazina, utilizzata in particolare nella coltura del mais e del sorgo [dal 2002 ne é ammesso l'uso solo per queste colture]. La contaminazione è diffusa in tutta l'area padano-veneta ed evidenziata anche in alcune regioni del centro-sud: è stata trovata nel 51,0% dei punti di campionamento delle acque superficiali e nel 15,8% di quelli delle acque sotterranee indagate".

Oltre alla presenza massiccia della terbutilazina, nelle acque si trova anche più facilmente, e in maggiori concentrazioni, un suo metabolita, la

desetilterbutilazina che, rispetto alla molecola parentale presenta maggiori tempi di degradazione (>DT50), minore affinità a formare legami con il suolo (<Koc) e maggiore solubilità (in quanto composto dealchilato). A conferma del collegamento tra l'epoca di diserbo del mais e la contaminazione delle acque, si osserva nel fiume Po un aumento stagionale molto marcato di terbutilazina (e desetilterbutilazina). Nel 2006, in relaziona a semine ritardate da forti piogge, la concentrazione nelle acque di questo fiume è risultata superiore al limite di legge per tre mesi (aprile, maggio e giugno) senza, però superare mai il livello di 0,2 microgrammi per litro. Nel 2003 e nel 2005 il picco si è concentrato nel solo mese di aprile con valori medi superiori a 0,2 microgrammi per litro (i metaboliti nelle acque, sono maggiormente presenti nei mesi immediatamente successivi ai picchi della molecola parentale). La diffusione della terbutilazina e della desetilterbutilazina nelle acque è ascrivibile alle grandi quantità di principio attivo impiegato nella formulazione degli erbicidi commerciali. Nel nostro paese la terbutilazina è attualmente presente in 52 prodotti autorizzati al commercio, di cui 4 in via provvisoria, come unico componente o in miscela con altri erbicidi (alaclor, metolaclor, s-metolaclor, glifosate, pendimetalin, terbumeton, ecc). L'utilizzo di terbutilazina è pari 320.000 kg di principio attivo ed è concentrato essenzialmente nelle regioni Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Umbria. Ma la presenza nelle acque dipende anche modalità di applicazione dei diserbanti, alle caratteristiche idrogeologiche degli ambienti riceventi e alle caratteristiche pedologiche dei terreni.

L'imputazione alla maiscoltura quale principale fonte di contaminazione con erbicidi delle acque italiane deriva, però, anche dalla constatazione che, tra i principi attivi presenti con maggior frequenza quali contaminanti delle acque, troviamo oltre alla terbutilazina e al suo metabolita anche altri diserbanti del mais: bentazone, dimetinamide, atrazina, desetilatrazina (senza dimenticare i già citati alaclor e metolaclor, presenti anche in formulati con la terbutilazina). I risultati delle analisi sulla contaminazione delle acque rispecchiano quanto noto sulla base dei rilevamenti relativi all'utilizzo dei fitofarmaci (Istat, 2008). Anche l'Istituto di statistica mette sul banco degli imputati la coltura del mais attribuendo ad essa il maggior consumo di diserbanti. Per di più i dati Istat indicano, come già accennato, un aumento considerevole dell'impiego di diserbanti per la coltivazione del mais (2,4 kg/ha come media nazionale nell'annata 2006-2007 contro 1,1 kg/ha in quella 2001-2002). Anche il numero di trattamenti sono aumentati: da 1,3 a 1,4 kg/ha. La superficie agricola utilizzata (Sau) impiegata nella coltivazione del mais risulta pari a 1,05 milioni di ettari; di questi il 75,5% (circa 794,9 mila ettari) è soggetta a trattamenti di difesa fitosanitaria. I trattamenti effettuati dalle aziende maidicole che praticano la difesa fitosanitaria sono pari a 156,3 mila interventi eseguiti con l'utilizzo di 1,88 mila tonnellate di principi attivi contenuti nei prodotti fitosanitari impiegati. Sono dati inequivocabili. Alla base del problema non vi è solo l'estensione complessiva della superficie investita a mais a livello nazionale ma anche il fatto che, in intere province, il mais occupa la maggior parte della superficie coltivata rendendo impossibile l'alternanza con altre colture. Basti pensare che in provincia di Lodi la superficie a mais arriva al 66% del totale, in quella di Cremona (più interessata alla produzione del Grana Padano) al 55%. Va considerato, però, che in questa ultima, tolto il cremasco (con terreni caratterizzati da falda acquifera prossima alla superficie che impongono il mantenimento dei prati stabili), il resto del territorio presenta una incidenza del mais pari a quella del lodigiano (così come diverse aree delle limitrofe pianure bresciane e mantovane). I problemi del difficile controllo delle piante infestanti del mais non sono, però, legati esclusivamente alle conseguenze della monosuccessione (sulle quali torneremo tra breve).

Il mais, così come coltivato attualmente, ha comunque una "necessità" di diserbo chimico superiore ad altre colture. Due sono i fattori che determinano la "necessità" di pesanti trattamenti con erbicidi: l'epoca di semina e il basso investimento (semi e, al netto delle fallanze, relative plantule per m2). La semina del granoturco viene effettuata nei mesi in cui la temperatura del suolo è intorno ai 9°-10° C. In tali condizioni climatiche il mais è molto vulnerabile nei confronti delle erbe antagoniste (Giavone, Sorghetta, ecc.). Questo aspetto è stato aggravato dalla tendenza ad anticipare le semine (sin dalla prima decade di marzo) in relazione all'uso di nuovi ibridi a precoce maturazione, ma a ciclo complessivo lungo (al fine di assicurare elevata produttività). Più precoci sono le semine tanto maggiore è l'aggressività delle infestanti; se si semina a fine primavera il diserbo potrebbe essere addirittura trascurato. Quanto all'investimento (solo 6 piante per m2) esso è andato sempre più diminuendo in relazione alle dimensioni assunte dalle piante di mais degli ibridi attualmente coltivati (fino a 4 m di altezza).

Il mais è una pianta aggressiva, ma dopo l'emergenza, per circa 1 mese, presenta una periodo critico e, dal 30° al 48° giorno dall'emergenza, esso "deve" essere liberato dalle infestanti sviluppatesi nonostante il primo trattamento erbicida in pre-emergenza (il secondo trattamento, sempre più spesso necessario, è effettuato quando il mais presenta 5-7 foglioline). Un indicatore della gravità dei problemi di diserbo del mais è dato dalla presenza, tra le sue infestanti, di ben 5 (Echinochloa crus-galli, Sorghum halepense, Chenopodium album, Convolvulus arvensis, Amaranthus retroflexus) che sono considerate tra le peggiori 10 "malerbe" in assoluto.

Se aggiungiamo l'effetto della monosuccessione, che aggrava notevolmente i problemi di infestazione, ci rendiamo conto del perché il mais è l'imputato numero uno per la presenza di pesticidi nelle acque.

 

La monosuccessione aggrava i problemi

Il ruolo crescente del mais nell'alimentazione del bestiame (ricordiamo che l'86% del mais coltivato in Italia ha destinazione zootecnica) ha portato alla presenza nei principali "distretti" zootecnici di enormi distese di campi dove il mais succede, anno dopo anno, a sé stesso. Ne deriva l'aggravamento di vari problemi agronomici e, in primo luogo, una sempre maggiore difficoltà a contenere le malerbe con i soli mezzi chimici oggi impiegati, dopo che le operazioni di lotta meccanica - un tempo praticate - sono cadute in disuso per fattori economici. Per non rinunciare alla monosuccessione è necessario utilizzare sempre più pesticidi e, in conseguenza, diventa difficile rispettare I limiti massimi consentiti di principi attivi e aumenta la tentazione di ricorrere al mercato parallelo dei pesticidi.

La flora infestante attuale è composta da poche specie dominanti (flora di sostituzione) che si avvantaggiano delle condizioni ecologiche della coltura del mais (disponibilità di acqua, temperatura) e che meglio resistono agli erbicidi (va ricordato che il mais è una Poacea e che è più difficile il controllo con gli erbicidi di specie appartenenti a questa stessa famiglia che comprende varie infestanti). Le piante resistenti si avvantaggiano nella competizione con le altre malerbe e possono essere eliminate solo con dosi elevate di erbicida. E' il caso del Giavone (Echinocloa crus-galli) e di Setaria ssp). Alcune specie di piante, oltre che di questi fattori, si avvantaggiano dalla ripetizione del mais su se stesso rafforzando i loro meccanismi di riproduzione. E' quello che succede nel caso della Sorghetta (Sorghum halepense) che - con I suoi rizomi - dispone di eccezionale vitalità, rigenerandosi facilmente anche quando la parte aerea viene distrutta.

Con l'avvicendamento colturale le infestazioni di malerbe del mais si attenuano o sono più facili da controllare; interrompendo la monosuccessione di mais con un cereale vernino (frumento) si libera presto il terreno in estate consentendo, con un'aratura profonda, di lasciare esposti a disseccarsi per tutta l'estate i rizomi della Sorghetta. Si tratta di una operazione che favorisce il contenimento anche di altre piante con apparato radicale profondo, bulbi o rizomi – ad esempio Rumex ssp. e Convolvolus arvensis - che non sono danneggiati dall'effetto dell'erbicida che esplica la sua massima efficacia solo a pochi centimetri di profondità. Con l'avvicendarsi delle colture cambiano le condizioni ecologiche, gli schemi di concimazione e irrigazione e, soprattutto, il tipo di diserbo e nessuna delle categorie di infestanti riesce a prevalere e ad

accumulare una banca dei semi o di organi riproduttivi vegetativi nel terreno. Tra le infestanti del mais vale la pena segnalare il caso del Cencio molle (Abutilon teophrasti). Questa infestante in passato, era così poco diffusa che la crescente e massiccia presenza, a partire dagli anni '80, venne attribuita ad una neo-introduzione (quale pianta "esotica") in parallelo con l'allora nuova coltura della soja. In realtà il Cencio molle è, quantomeno da secoli, parte della flora padana e la sua straordinaria diffusione, che tanti problemi di infestazioni e di difficile controllo ha rappresentato (e continua a rappresentare), è paradigmatica dei meccanismi mediante i quali la specializzazione colturale e la monosuccessione favoriscono la diffusione delle infestanti.

 

L'impatto dell'uso dei diserbanti

Nel mais il diserbo chimico ha ottenuto già da diversi decenni un successo strepitoso, inducendo ad abbandonare i mezzi di lotta meccanica alle malerbe. Questo risultato è da attribuire in larga misura ad un prodotto con eccezionali doti di efficacia erbicida e di selettività: l'atrazina, un prodotto clorotriazinico che fu a lungo il diserbante più impiegato dai maiscoltori, finché non ne fu proibito l'uso. Ma l'atrazina è risultata vittima del suo stesso successo; esso indusse gli agricoltori ad usarla in dosi massicce (anche per contrastare I fenomeni di resistenza) tanto da provocare gravi e diffuse contaminazioni delle riserve di acqua potabile della pianura padana. Ne derivarono situazioni di emergenza che colpirono parecchi comuni (specie nel 1986), tanto che l'acqua potabile dovette essere rifornita con le autobotti e si assistette alla distribuzione di sacchetti d'acqua alla popolazione. Per risolvere questi problemi si dovette procedere alla realizzazione di nuovi acquedotti che comportarono ingenti spese. Costi sociali, beninteso, "esternalità negative" dal punto di vista delle imprese agricole e dei produttori e commercianti di erbicidi.

La conseguenza di quel disastro fu che l'atrazina venne bandita da parte di alcune amministrazioni locali sin dal fatidico 1986 e che, già da quell'anno, ne fu limitato l'uso da parte del Ministero Sanità (Ordinanza Ministero Sanità 25 giugno 1986). Va ricordato che con ordinanza dell'allora Ministro della Sanità, onde evitare la chiusura dei pozzi, il limite di legge di 0,1 microgrammi/litro d'acqua venne elevato di ben 10 volte e che tale "deroga provvisoria" alle direttive europee in materia di requisiti di potabilità delle acque, dovette essere prorogata – non senza forti polemiche - ancora nel 1988. In seguito, a partire dal 1990, vennero introdotte ulteriori restrizioni al suo utilizzo fino a che, nel 1992, fu vietata definivamente in Italia la vendita e l'uso di qualsiasi prodotto contenente atrazina (Ordinanza Ministero della Sanità n. 705/910 del 18 marzo 1992). Nonostante ciò I dati più recenti sulla contaminazione delle acque con erbicidi (2006) indicano la presenza di atrazina nel 6,7% dei campioni (la desetilatrazina, metabolica dell'atrazina, si trova nel 7,1% dei campioni). Segno, quantomeno, di un residuo di prodotto stoccato e smerciato illegalmente. Dal punto di vista dei parametri chemiodinamici le triazine sono tra gli erbicidi maggiormente suscettibili di svolgere un ruolo di contaminanti delle acque sotterranee. Per calcolare l'indice di lisciviazione secondo Gustafson si utilizza una semplice formula che tiene conto di DL50 (= indice di persistenza = tempo in giorni di semidimezzamento nel terreno della sostanza in esame in condizioni standard) e Koc (= indice di mobilità = coefficiente di ripartizione tra la matrice organica del suolo e l'acqua; valori di log Koc superiori a 4 indicano un'elevata affinità per il suolo). L'indice di lisciviazione secondo Gustafson è definito come: GUS = log (DT50) x 4 - log Koc. Questa equazione empirica ha un forte valore predittivo e la sua applicazione permette di classificare le sostanze in: contaminanti (leacher) delle acque sotterranee, se il loro GUS è superiore a 2,8; non contaminanti con GUS > 1,8; con comportamento intermedio, se il loro GUS è compreso tra questi valori (Istisan, 2004). Sulla base delle loro caratteristiche chimico-fisiche e chemiodinamiche la terbutilazina e la desetilterbutilazina sono classificate dagli enti preposti alla tutela dell'ambiente e della salute pubblica quali potenzialmente mobili nel suolo e dotate di persistenza da moderata ad elevata.

 

Tabella 1 – parametri chemiodinamici di alcuni erbicidi

T50

Log

Kco

GUS

T50

Log

Kco

GUS

terbutilazina

64

2,81

4,41

cianazina

14

1,45

3,13

iridate

10

3,70

0,30

butilate

16

2,73

2,09

pendimetalin

45

3,80

2,81

bromoxinil

15

2,47

2,23

metolacloro

23

2,26

3,19

bentazone

70

2,15

5,23

MCPA

14

2,30

2,28

atrazina

64

2,40

4,82

linuron

57

1,90

5,12

alacloro

11

2,27

1,90

EPTC

30

2,45

3,46

2-4,D

15

2,50

2,20

dicamba

14

1,90

2,68

 

 

 

 

 

Tossicologia, ecotossicologia

La rilevanza tossicologica dell'atrazina e dei suoi metaboliti (desetilatrazina e deisopropilatrazina) è messa in evidenza da un'ampia letteratura che dimostra come, nonostante la loro tossicità acuta nei mammiferi sia generalmente limitata, la loro interferenza biologica risulti elevata (Istisan, 2004). Studi sperimentali su roditori ed alcuni studi epidemiologici hanno dimostrato, sin dagli anni '90, che esposizioni prolungate ad atrazina possono aumentare il rischio di tumori della mammella e dell'ovaio (Donna et al., 1996; Kettles et al., 1997). Diversi studi epidemiologici hanno anche avanzato l'ipotesi di relazione tra triazine e diverse altre forme tumorali anche se la numerosità dei casi, la durata delle indagini e la possibilità di concause ha portato ad escludere la rilevanza statistica dei risultati (Sathiakumar e Delzell, 1997). Il quadro dei risultati ha comunque indotto l'Epa (Ente per la protezione ambientale statunitense) a classificare l'atrazina come cancerogeno del Gruppo C, ovvero sospetto cancerogeno per l'organismo umano (Us Epa, 1999). Il meccanismo più accreditato che spiegherebbe la cancerogenicità delle triazine sembra da ricondursi all'interferenza con la sintesi degli ormoni steroidei legati alla sfera riproduttiva. E' stato osservato da tempo (Lang et al., 1996; Lang et al., 1997; Sanderson et al., 2001) che queste molecole provocano l'induzione dell'aromatasi, un enzima chiave nel pathway biosintetico degli ormoni steroidei e un conseguente squilibrio ormonale, dovuto ad una alterazione dei livelli di estradiolo e di estrone.

L'effetto di stimolo dell'espressione dell'aromatasi da parte dell'atrazina è stato osservato recentemente anche in alcune linee di cellule tumorali umane (Fan WuQiang, 2007) riportando di attualità il dibattito sullo scottante argomento. Oltre a stimolare la sintesi di estrogeni, l'atrazina e alcuni suoi metaboliti inibiscono la sintesi del testosterone. Gli effetti delle triazine trovano riscontro in modo clamoroso nel caso degli anfibi dove a bassissime concentrazioni (pari al limite di legge in vigore) l'atrazina provoca la femminilizzazione degli individui maschi (un fatto che spiega la riduzione delle popolazioni di anfibi in aree contaminate). In definitiva, se l'effetto di perturbatore endocrino appareparticolarmente pericoloso per la fauna acquatica (pesci, anfibi, rettili), altrettanto grave appare quello correlato ai tumori degli organi riproduttivi dei mammiferi.

Oltre agli effetti sugli animali superiori non bisogna dimenticare che la contaminazione con atrazina e altri composti triazinici ha anche altri effetti sui sistemi acquatici (alghe) (Shehata et al., 1993; Faust et al., 2001; Berard et al., 2003) e sulla microfauna del terreno (Barrer et al., 1994; Lins et al., 2007).

Dopo la messa al bando dell'atrazina, la ricerca chimica ha trovato numerosi principi attivi sostitutivi, ma nessuno ha uno spettro d'azione completo, per cui è necessario intervenire con principi attivi diversi o con trattamenti in epoche diverse o in miscele, sia estemporanee sia in formulazioni precostituite. Il diretto discendente dell'atrazina è la terbutilazina che ne condivide parecchie proprietà tra cui quella di dare vita a dei metaboliti (desetilterbutilazina) che, per la loro maggiore persistenza, si trovano spesso nelle acque in concentrazioni superiori alla molecola parentale. Il largo ricorso alla terbutilazina (e la conseguante contaminazione delle acque che si rispecchia nei dati recenti già citati) ha determinato provvedimenti ristrettivi a suo carico. Nel 2002 venne revocata l'autorizzazione per tutti gli erbicidi contenenti terbutilazina (GU n. 178 del 31-7-2002) al fine di introdurre nel mercato nuove confezioni indicanti che l'uso di questo principio attivo deve essere riservato al mais e al sorgo nel rispetto della dose di 1 kg/ha. In Piemonte, già nel 2003, in seguito ai risultati del monitoraggio, è stata richiesta alle autorità competenti la limitazione di impiego. (Deliberazione del Consiglio Regionale 17 giugno 2003, n. 287-20269). In base ad una normativa nazionale, a partire dal 1°gennaio 2008 non è più possibile utilizzare erbicidi contenenti la sola terbutilazina, ma devono essere impiegati esclusivamente formulati che prevedono la miscela di quest'ultima con altre sostanze. Sono state inoltre introdotte alcune limitazioni d'uso per i prodotti contenenti tale principio attivo. In particolare, negli appezzamenti adiacenti ai corpi idrici superficiali dovrà essere lasciata una fascia di rispetto non trattata pari a 5 metri, così come nelle aree vulnerabili da fitofarmaci. In ogni caso la questione della revoca dell'autorizzazione all'uso della terbutilazina in quanto tale è attualmente in discussione a livello comunitario. Nel frattempo uno dei più comuni (il metolaclor) è stato ritirato dal mercato sin nel 2003 (sostituito prontamente dal S-metolaclor, diverso solo per il rapporto relativo dei due isomeri presenti).

Dal punto di vista tossicologico l'esposizione acuta (nell'ordine di mg/l) alla terbutilazina provoca varie alterazioni istopatologiche a carico di branchie, fegato, reni, epitelio intestinale nel Branzino d'allevamento (Dezfuli et al., 2006). Concentrazioni basse (nell'ordine di µg/l) sono però sufficienti a determinare alterazioni ematologiche e istologiche (a carico delle branchie, fegato e reni) nel Persico. Il bioaccumulo di terbutilazina modifica in modo significativo alcune attività enzimatiche legate ai meccanismi di detossificazione nella Trota iridea (Tarja et al., 2003).

Come in generale le triazine anche la terbutilazina altera i meccanismi di regolazione della comunità trofiche del terreno o alterando le catene alimentari che collegano la microflora alla microfauna predatrice sia attraverso effetti tossici diretti che indirettamente influenzando le interazioni trofiche (Salminen et al., 1996)

In conclusione non può mancare qualche considerazione sulla ormai ampia disponibilità di sistemi informativi che, incrociando i dati relativi alla vulnerabilità dei suoli ai fitofarmaci utilizzati, la vulnerabilità idrogeologica degli acquiferi e la pressione sul territorio della coltivazione del mais, possono consentire di cartografare, con l'ausilio di Gis (sistemi informativi geografici), il grado di "criticità" della maiscoltura. Per la Lombardia simili applicazioni sono già disponibili o stanno per esserlo a livello provinciale (Ersaf, 2006). Ne emerge un quadro di significativa presenza di aree ad alta criticità e di diffusa presenza di aree a criticità moderata alla terbutilazina nella fascia di bassa pianura lombarda. In queste aree non resterebbe che ricorrere all'introduzione dell'avvicendamento colturale e alla reintroduzione di prati stabili e comunque di altre coltivazioni foraggere "tradizionali". (continua)

 

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