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Buy local? Si. ma .....

Pubblicato in Caseus. Arte e cultura del formaggio, anno XIV (2009), n. 2, pp. 22-22 (Marzo-Aprile)

di Michele Corti

Riassunto. In Trentino si spinge alla globalizzazione della produzione della Mela Melinda, allargando l'area della monocoltura, creando un super complesso per l'esportazione con le coop del Sudtirolo e 'colonizzando' il Veneto. Nel campo lattiero-caseario, invece, ci si appella ad una sorta di autarchia ('comprate trentino' è stato l'appello del Presidente della Provincia autonoma). Tanta strumentalità si spiega con la grave crisi del comparto dove il più grande caseificio della provincia (Fiavè) è stato salvato con decine di milioni di soldi di Mamma Provincia (che può permetterselo grazie ai generosi trasferimenti dallo stato centrale). Ma il bello è questi prodotti lattiero-caseari locali non sono - nella maggior parte dei casi - per niente locali. Il principale prodotto trentino è il Grana Padano seguito da Asiago, Fontal alla Provola, Mozzarella ecc. Aziende zootecniche e caseifici hanno cercato di inseguire il 'modello padano' e da qui è nata una crisi che si risolve con un coraggioso ripensamento e non con ulteriori stampelle pubbliche e un appello al buy local che risulta particolarmente stonato.

A fine gennaio Lorenzo Dellai, rieletto per la terza volta alla guida della Provincia autonoma di Trento (PAT), lanciava un appello ai “suoi” consumatori affinché, in un momento di crisi, sostengano le produzioni locali.  Quelle lattiero-casearie, si intende, perché per quanto riguarda altri comparti (leggi mela Melinda) si invoca la “globalizzazione”, cercando di espandere la produzione verso i “mercati emergenti” di mezzo pianeta.  Già questa “doppiezza” la dice lunga sulla strumentalità un appello che fa leva su una diffusa e sentita esigenza a “riterritorializzare” la produzione alimentare (per motivi ecologici, economici, socio-culturali), ma solo per puntellare un comparto in crisi. Una crisi che va addebitata agli errori strategici della potente Federazione trentina della cooperazione e della stessa politica provinciale. 

Un salvataggio oneroso per le casse pubbliche che non tutela i posti di lavoro

Cercare di risollevare un po' le sorti commerciali del comparto zootecnico-caseario trentino, fare appello al patriottismo locale, evocare “crisi epocali”, sono tutte mosse finalizzate a creare dei diversivi al fine di far digerire senza troppe contestazioni il salvataggio annunciato del Caseificio di Fiavè-Pinzolo-Val di Ledro e Chiese-Rovereto. Quest’ultimo è arrivato puntuale a fine febbraio con un intervento da 22 milioni di €, di cui 9 sborsati direttamente dalla PAT ed gli altri 13 dal sistema cooperativo (largamente sostenuto e garantito dalla stessa PAT). La soluzione è consistita nell’acquisto degli immobili (concessi poi in affitto a condizioni di favore al caseificio stesso).

In questo modo la situazione finanziaria della più grossa struttura casearia trentina (che era giunta ad accumulare 42 milioni di debiti) è stata tamponata. Restano, però, i problemi produttivi: le decisioni in merito allo spostamento alla Latte Trento (l’altro “pilastro” del “polo bianco”) di alcune linee casearie, la necessità di potenziare la fallimentare linea yogurt impiantata a Villa Lagarina-Rovereto (cosa possibile solo se entra la potente centrale sudtirolese MILA, ma a che condizioni?).

Intanto il Caseificio di Fiavè è stato messo sotto tutela, con la nomina di un caposindaco e di due consiglieri in rappresentanza della Federazione e l’obbligo di un monitoraggio trimestrale del piano industriale. Per quanto riguarda i soci allevatori si è deciso di non concedere più deroghe dopo che alcuni “dissidenti”, a fine 2008, erano usciti dalla cooperativa conferendo il latte ad una centrale valsuganotta (del Gruppo privato Grifo Latte).

Quanto alla “ristrutturazione industriale” a fine marzo sono arrivare le lettere di licenziamento per 22 dipendenti su 40 del caseificio di Villa Lagarina.  A molti non va giù che una società cooperativa salvata col denaro pubblico faccia pagare ai lavoratori gli errori della dirigenza e della ristretta cerchia di soci che – in collegamento con Federazione e Provincia – hanno preso le decisioni che l’hanno portata all’orlo del fallimento.  Prima ancora che si sapesse dei licenziamenti a sparare a zero contro la “politica zootecnica e casearia provinciale” ha provveduto un esponente della stessa maggioranza, il consigliere Michele Dalla piccola del PATT (Partito autonomista trentino tirolese). L'uscita è tanto più significativa in quanto Dallapiccola, oltre che esponente politico della  maggioranza, è anche veterinario e Presidente del Macello dell'Alta Valsugana. In una intervista a l'Adige del 12 marzo Dallapiccola ha affermato esplicitamente che "Bisogna cambiare modello e strategie". Quanto all'analisi degli errori essa è altrettanto drastica. Tra le cause della  grave crisi del settore include infatti: "La politica, le scelte contributive sbagliate. La logica è stata: più sei grande e più ti finanzio"; e aggiunge: "Da noi si è puntato sull'Asiago (prodotto veneto) e sul Grana (prodotto padano-emiliano)".  Dallapiccola  ha dato ufficialità a tante voci di dissenso che da tempo si levano dagli allevatori trentini. Una tra le tante è quella di Mauro Cherotti di Fiavé (uno dei soci usciti dalla Cooperativa il 31 dicembre scorso): “Puntando solo sulla quantità e non sulla qualità si è arrivati alla condotta suicida di fare concorrenza ai colossi della Pianura Padana” (l’Adige del 16 gennaio 2009).

Inseguendo modelli industriali si è perso il treno della politica di tipicità

Per capire meglio queste critiche va ricordato che il Grana padano (che un casaro trentino iniziò a produrre tra le due guerre dopo aver lavorato nel mantovano) rappresenta il 40% della produzione casearia trentina ed è considerato il portabandiera dell’immagine del prodotto trentino in Italia e nel mondo.  Aggiungiamo che la “Fontina” (come qualcuno ancora si ostina a chiamare il Fontal) è, dopo il Grana e l’Asiago, un altro prodotto ben rappresentato nei caseifici trentini (compreso lo sfortunato caseificio di Villa Lagarina). Ma vediamo cosa produce la "Latte Trento", struttura portante del sistema (specie dopo la crisi del Caseificio di Fiavè). Qui le Dop prodotte sono due: il Grana padano e l'Asiago.

Nella gamma di “Latte Trento” troviamo poi il “Mascarpone trentino” (chiamatelo pure trentino ma il mascarpone è lombardo), la provola affumicata (evidente “prestito” dal Sud Italia) e lo Stracchino (altro "prestito" dalla Lombardia). Per il resto in gamma troviamo il “Tenerello”, il “Tondo”, il “Montagna”. Non infieriamo sulla Mozzarella, in confezione pizzeria, di Fiavè perché è come sparare sulla Croce Rossa.

La politica delle economie di scala, perseguita dogmaticamente in un epoca in cui era già palese come la montagna non potesse inseguire i sistemi forti della pianura e delle aree forti dell’Europa, ha fatto anche altri danni. Nella logica delle aggregazioni sono stati chiusi diversi caseifici che potevano svolgere un ruolo in una strategia di "tipicità ritrovate". Dopo aver chiuso tanti piccoli caseifici e latterie turnarie (già in una fase precedente) si sono azzerate, ancora di recente, strutture come quella del caseificio di Folgaria, ultimo caso di una serie di fusioni che hanno tolto di mezzo produzioni caratterizzate localmente e in grado di avvantaggiarsi di flussi turistici. 

Ma i vantaggi delle economie di scala sono stati erosi dai costi dei trasporti del latte e del prodotto finito. Intere vallate sono rimaste senza stalle e senza caseifici e devono essere rifornite da un costoso servizio di "camioncini".  Dope che molte produzioni sono state centralizzate in un unico impianto viaggiano anche i semi-lavorati. E’ il caso della panna. La produzione di burro è stata centralizzata alla “Latte Trento” e anche i caseifici che avevano rinomate produzioni locali (vedi il Primiero) devono mandare la crema a Trento per vedersi ritornare un burro sostanzialmente anonimo. Un gran via vai di latte, panna, formaggi su e giù per le valli.

Non è finita. Fondendo più caseifici piccoli-medi in grandi strutture si sono ridotti gli operai ma si è creata una sovrastruttura manageriale. Quest’ultima quando competente,  efficiente, non condizionata da nessuno, può (forse) giustificare i suoi costi, ma quando è scelta con criteri politici diventa una palla al piede.

Non si è messo in piedi un sistema più efficiente ma un sistema “comodo”, che ha potuto funzionare solo avvantaggiandosi di forti sostegni pubblici, sia per gli investimenti che per le spese correnti (vedi i contributi ai trasporti del latte), e che ha garantito il mantenimento di circuiti politico-corporativi. Il guaio è che questo sistema ha favorito la quantità a scapito della qualità, i massicci investimenti a scapito della fantasia, il conformismo dell’ortodossia produttivista rispetto alla capacità critica. In un mondo in rapida evoluzione questo sistema rigido e pesante non poteva non entrare in crisi.

Pochi i casi di prodotti con “appeal” local-tipico, sconfortante il confronto con il Sudtirolo

Comprare locale significa mettere a disposizione (del residente come del turista) un "paniere" variegato di prodotti con un’immagine di legame territoriale convincente. Il consumatore locale acquisterebbe più prodotto locale se ci fossero più caseifici artigianali con prodotti realmente legati al territorio e realmente diversificati dalle produzioni di massa della Padania. Invece …

Negli ultimi anni il panorama delle "tipicità casearie" trentine è stato vivacizzato da alcune operazioni per le quali ci si è ampiamente affidati al fattore-immagine rappresentato dai Presidi di Slow Food. Ma i Presidi non hanno proprietà taumaturgiche e le operazioni dei formaggi e del burro "di malga" prodotti in grandi caseifici e affidati al Concast (il consorzio dei caseifici) possono convincere sino a un certo punto.

A parte questi limitati successi (molto legati alla dimensione comunicativa), a parte l’obbligo per le “Osterie trentine” di utilizzare i formaggi Dop e nell’elenco dei prodotti tradizionali, il panorama delle produzioni casearie "tipiche" trentine resta fiacco e solo il Puzzone di Moena (peraltro anch’esso prodotto in un unico caseificio) e qualche formaggio di malga riescono a farsi apprezzare dai gourmet.

Nei migliori locali del centro storico di Trento i carrelli dei formaggi sono monopolizzati da formaggi artigianali sudtirolesi (in parte “innovativi”) che il noto affinatore Hansi Baumgartner ha saputo far conoscere e valorizzare incentivando la ripresa di produzioni valligiane aziendali e dimostrando come un “artigiano” può ottenere risultati migliori di manager strapagati e di costosissime campagne promozionali “istituzionali”. E’ anche interessante constatare come l’immagine casearia sudtirolese, acquisita grazie al recupero di piccole produzioni e al mantenimento di una struttura basata su piccole stalle, si sia riverberata positivamente sulle produzioni delle grandi centrali.  Dop come lo “Stelvio” in Sudtirolo (o il “Casera” in Valtellina) sono frutto di una “tipicità” largamente inventata, e comunque standardizzata, ma vengono percepiti come legati in modo univoco a territori marcatamente montani spuntando un “premio” (si compra il territorio, la montanità!). Ovviamente per il Grana padano trentino, l’Asiago, il Fontal trentini questo meccanismo non scatta anche se il Trentino ha una buona immagine turistica.

Paoli, direttore unico del “Polo bianco” (Latte Trento + Fiavè), forse riflettendo su questo, auspicava, qualche mese fa l’avvento di un “formaggio tipico da produrre in tutti i caseifici trentini”. L’idea - in ogni caso fuori tempo massimo considerata l’attuale moratoria per nuove Dop - era di affidare alla Fondazione Mach (ovvero l’ente di sperimentazione agricola provinciale) uno studio su “i profumi  e gli aromi del nostro latte”.  Ma i “profumi e gli aromi” sono legati ad ambienti specifici, alla diversità dei pascoli, alla loro quota, alla natura del terreno, al terroir, non ai limiti amministrativi di una provincia dove, peraltro, molte vacche mangiamo abbondantemente mangimi e foraggi importat

Ciò dimostra solo che certi limiti culturali non sono stati superati. Sono i limiti che hanno fatto ritenere agli strateghi del settore caseario trentino che l'Europa avrebbe imposto ovunque il modello nord-europeo del formaggio di plastica, asettico, che le malghe e i laboratori artigianali fossero destinati alla museificazione. La linea della industrializzazione e del modernismo era sostenuta con particolare dogmatismo forse per dimostrare ai “vicini” (lombardi e veneti) di essersi scrollati di dosso i ritardi culturali del passato o forse di essere più “centroeuropei” di loro. Fatto sta che sono state investite somme ingenti (i vantaggi dell’autonomia ….) e sono stati creati grossi caseifici “comprensoriali”. Con il risultato di imporre un “pensiero unico”.  Condizionati dai costi fissi i caseifici comprensoriali hanno impedito a molti soci (pena il non ritiro del latte anche in inverno) di caseificare in malga sono stati fortemente dissuasi coloro che volevano aprire caseifici aziendali. Oggi il Piano di sviluppo rurale ha ridotto gli incentivi per le grosse stalle, si promuovono con pubblicazioni ed eventi i formaggi di malga fatti in malga e, da qualche tempo, ci sono “aperture” a concedere sostegni ad aziende che vogliono tornare alla caseificazione aziendale.  Ma il coraggio di operare una svolta manca. I 22 milioni di € impiegati per il salvataggio del Caseificio di Fiavè (che meritava di fallire, visto che i licenziamenti ci sono lo stesso e che gli allevatori non si sentono tutelati) avrebbero potuto essere impiegati meglio a sostegno di un programma di incentivo ai caseifici aziendali artigianali. Si perde ancora del tempo prezioso e si condannano altre stalle alla chiusura. Le “strutture industriali” possono essere fuse, chiuse, riaperte, ma è più difficile resuscitare, una volta che è morto, un tessuto di strutture di allevamento che è, in primo luogo, un tessuto sociale e culturale. Cose difficili a capirsi per i tecnocrati e i politici che preferiscono dar retta a loro e alle lobby, ma non per questo meno vere.