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al tempo del contagio
Socialità contadina tristezza
urbano-tecnologica
La
segregazione (eufemisticamente "distanziamento sociale") forza
l'ulteriore affermazione di forme di socializzazione e di "svago"
mediate dalla
tecnologia, controllate e impoverite. Una prefigurazione di un tristo
futuro? Intanto è occasione per riflettere sul graduale processo di
compromissione della socialità spontanea, del gioco, della ritualità,
della festività, della convivialità semplice e gioiosa. Un processo che
è coinciso con il passaggio dalla comunità contadina alla, ormai
generalizzata, "forma di vita urbana". L'idea, tutt'ora prevalente e
accettata acriticamente, di comunità di montagna del passato cupe e
miserabili (diffusa dalle elite della società urbano-industrial-
tecno-buro-scientifica) va totalmente ribaltata.
di
Michele Corti
(16.04.20)
La cultura egemone (urbano-industrial-tecno-burocratico- scientifica)
si è affermata, sul piano ideologico, imponendo ai dominati il
riconoscimento aprioristico e indiscutibile della sua superiorità e il
convincimento che la condizione premoderna, pre-industriale, la vita
delle comunità rurali del passato fosse, sotto tutti i profili,
il regno della miseria, dell'ignoranza, della superstizione,
dell'oppressione. Posta in questi termini, ovvero di
contrapposizione tra un presente di benessere e libertà e conoscenza e
un passato di
fatica, privazioni, isolamento, ignoranza, questa versione rozza
dell'apologia della modernità (tutt'ora accreditata da buona parte dei
media, scuola, intelligentsia),
è niente di più che una superstizione.
La storia insegna che le
comunità rurali, specie quelle di montagna, ancorché essere le più
misere, le più chiuse, erano quelle con la più elevata
alfabetizzazione. All'inizio dell'Ottocento l'alfabetizzazione nella
montagna lombarda è nettamente più elevata che nella pianura. Gli
analfabeti erano pochissimi sia tra i piccoli proprietari che i
malghesi (1). Merito
delle istituzioni autonome locali (a livello di comune e di frazione)
che, in ancient régime,
avevano promosso scuole in grado di mettere il montanaro in condizione
di far di conto e di scrivere. L'emigrazione, spesso qualificata,
la
transumanza, imponevano al montanaro non solo di saper far di conto ma
anche di conoscere situazioni commerciali, economiche, politiche che
potevano influire sulla sua attività. Recandosi spesso anche in altri
stati riportava ogni anno al paese le notizie di quello che succedeva
nel mondo. Sul piano della conoscenza la società attuale ha
dilatato all'indinito conoscenze e informazioni ma quanto realmente
controlla il singolo individuo questo patrimonio collettivo? Le
conoscenze dirette, legate al vissuto, si sono impoverite. Siamo
bombardati da conoscenze e informazioni di cui siamo i recettori
passivi, privi di capacità di verificare, di capire, dobbiamo affidarci
agli specialisti della conoscenza, delegare loro - con atti di fiducia
e di fede - la validità di un sapere liquido come la
società. Di fronte allo spettacolo dei virologi, degli
scienziati, che si contraddicono e si insultano, si confondono (come i
politici) con personaggi dello spettacolo , ci rendiamo conto di quanto
la nostra società della conoscenza sia fragile e ingannevole. Se non
c'è una base di conoscenze solida che tipo di idee sul mondo possiamo
farci? Che valori possono orientare la società? Infatti i valori sono
stati sostituiti dai cangianti, come le mode, orientamenti del pensiero
unico politicamente corretto che ci preconfezionano i giudizi
esonerandoci da averne di nostri. Lo storico Huizinga osservava che: il
contadino, l'artigiano, il marinaio di una volta, nel tesoro delle sue
conoscenze pratiche trovava anche lo schema spiritualecon cui misurare
la vita e il mondo (2).
Così
come la chiusura e l'ignoranza, anche altri aspetti che
convergono a definire il quadro fosco con il quale sono dipinte le
comunità rurali, specie quelle di montagna, sono - tutt'altro che
paradossalmente - non le presunte caratteristiche di una arcaica
società rurale, ma la conseguenza della modernità. Che non è stata
occasione di magnifiche sorti, ma di decadenza. Miseria, chiusura,
ignoranza sono la conseguenza molto concreta, verificabile sul piano
storico, dell'esproprio di risorse, dell'imposizione di
regole elaborate da lontani uffici burocratici, dell'abolizione
dell'autogoverno e dell'autogestione dei beni collettivi e della stessa
comunità. L'amministrazione della gestione della vita locale fu
affidata a organi "politici" (notabili
nominati dai poteri centrali) e amministrativi (gli uffici
periferici di amministrazioni dello stato). Per l'amministrazione
forestale ciò avvenne sin dagli inizi dell'Ottocento (legge forestale
del 1813), per quella agricola dagli anni
Trenta del Novecento (culminata con la legge del 1935 che sostituiva le
Cattedre ambulanti di agricoltura con gli Ispettorati agrari), per
quella "ambientale" negli ultimi decenni del
secolo scorso (con l'istituzione dei parchi e la proliferazione delle
normative vincolistiche).
Il montanaro non poteva più discutere - e decidere -, con gli altri
capifamiglia gli affari locali nell'ambito di istituzioni democratiche
locali quali furono vicinie (e simili), ma anche gli stessi comuni che,
almeno in
Lombardia, con la riforma di Maria Teresa, ripresa nel Lombardo-Veneto,
si basavano sui "convocati", ovvero assemblee di tutti i proprietari
anche quelli di un fazzolettino di terra. Ridotto a suddito,
anche nell'ambito della vita locale, il montanaro, il contadino, poteva
solo mugugnare e protestare e piegare la testa davanti agli ultimi in
grado tra gli agenti del potere
centrale, forti di divise, del rappresentare lo Stato (e del potere
sanzionatorio). Lo "sfroso", il furto rurale, il contrabbando, il
taglio illegale di boschi, il pascolo abusivo furono altrettante forme
di protesta e di resistenza sociale. Risposta illegale, quindi
moralmente legittima, a regole classiste, immorali perché volutamente
concepite per provocare la miseria dei più poveri e dei più deboli.
Tutto
ciò ha spento lo spirito civico e comunitario e spinto il montanaro a
chiudersi
nel particolare, ad arrangiarsi da solo, nella diffidenza,
nell'egoismo, nell'invidia (non più controbilanciata dai fattori che
nella comunità viva e operante le tenevano a bada). Tutte
queste "virtù negative" gli sono state rinfacciate, vigliaccamente, da
quegli stessi farisaici borghesi (massoni o cattoliberali poco importa)
che hanno messo in ginocchio le comunità
rurali. Le trasformazioni subite dalle comunità locali hanno eroso, al
di là delle
istituzioni di autogoverno, anche quegli "istituti" spontanei della
vita
comunitaria che assicuravano i meccanismi della solidarietà e della
coesione delle famiglie e dei gruppi all'interno della comunità stessa.
Si è
verificato un generale impoverimento degli elementi della
socializzazione e della riproduzione della cultura locale.
La rappresentazione "cupa
e meschina" della realtà della comunità ruralpina è stata prodotta
dall'elite urbana
Per quanto riguarda gli aspetti alimentari abbiamo avuto modo di
illustrare nella Dieta alpina (qui la
presentazione),
come, nel corso dell'Ottocento, i bilanci nutritivi
(i termini di calorie, proteine e altri nutrienti) della famiglia
montanara lombarda (ma ovviamente vale anche per le altre regioni)
siano nettamente peggiorati, raggiungendo tra gli anni '70-'80 di quel
secolo, il punto più basso di un arco secolare. I motivi vanno
individuati nella progressiva "presa" degli apparati burocratici e
repressivi dello stato sulla vita locale, e nella penetrazione del
"capitalismo nelle montagne", una presa che si è tradotta
in privatizzazioni di beni comuni (o di enti ecclesiastici) a favore di
strati privilegiati legati al potere, in vincoli e divieti atti a
limitare la possibilità di trarre risorse dal territorio, in tasse
sempre più esose, tra cui quelle più odiose furono il "macinato", la
tassa sulla macellazione casalinga degli animali verso fine Ottocento,
quella progressiva sulle capre negli anni Venti del secolo scorso.
Questi
fattori interagivano (nella seconda metà dell'Ottocento) con una forte
crescita demografica - legata alla diminuzione della mortalità
infantile - che
rompeva un equilibrio tra popolazione e risorse faticosamente mantenuto
(anche con la valvole dell'emigrazione stagionale) nei secoli
precedenti. Da un lato l'emigrazione da stagionale, specie invernale,
spesso qualificata, si fece anche estiva (cantieri edili, boscaioli,
carbonai), poi subentrò quella permanente. La
patata e il mais rappresentarono le soluzioni per migliorare, a prezzo
di un duro investimento in fatica umana - applicata all'unità di
superficie -, l'approvvigionamento calorico. Una fatica, si badi bene,
che ricadeva sulle donne (visto che gli uomini dovevano emigrare nella
bella stagione) , sulle quali ricadevano sempre più anche le attività
di allevamento. La grande diffusione del mais
comportò gravi squilibri nutrizional in quanto accompagnato
dalla diminuzione del consumo di carne e di proteine e da un generale
impoverimento della dieta che si traduceva nella scarsa assunzione di
vitamine e
aminoacidi essenziali. La tragedia, oggi dimenticata, della pellagra
non è il frutto della "miseria e dell'ignoranza contadina" ma
dell'oppressione di classe della società urbana, borghese, benpensante,
scientifica, illuminata, progressista ecc. ecc. sul mondo contadino.
Una
bella differenza!
All'impoverimento
alimentare ha corrisposto, nel contesto dello
sgretolamento delle comunità contadine, anche un impoverimento nei
costumi, nell'abbigliamento, nelle espressioni della festa, del rito,
della socialità in genere. La "cupa" realtà della comunità contadina -
che ha per simbolo l'adozione di un abbigliamento penitenziale a colori
scuri (ci torneremo nella prossima puntata) - è qualcosa di molto
moderno
ed è strettamente legata all'impoverimento materiale, al crescente
controllo degli apparati della società
urbano-industriale-burocratico-scientifica sulla vita locale,
comunitaria, dei gruppi, delle famiglie delle persone. Miseria e
"cupezza" solo la conseguenza della subalternità, dell'abbandono di
forme spontanee e autonome di espressione culturale per subire
quelle della dominante cultura urbana che imponeva la rigida disciplina
della società-fabbrica, l'ascesi mondana accumulativa del calvinismo.
La cultura contadina, che era relativamente autosufficiente, ed in
grado di riprodursi dal
basso, era diventata la versione "bassa" e spregiata di una cultura
unica dominante, stratificata in base al ceto. Lo stridente
contrasto tra la versione "alta" e quella "bassa", metteva in evidenza
lo stato di inferiorità e di miseria dei ceti subalterni. In precedenza
le comunità rurali erano ricche di proprie espressioni culturali e
mantenevano propri sistemi di valori, di conoscenza. Il percepirsi come
ultimo gradino di una società dominata dai valori e dalla cultura
urbani ha agito prepotentemente sulla scomparsa delle espressioni
culturali locali e favorito l'assorbimento passivo delle culture "di
massa" in forza del meccanismo della vergogna, del tentativo di
mimetismo (il "villano" vestito a festa con abiti che imitano
goffamente l'abbigliamento "civile"). Già negli anni Venti il noto
etnografo svizzero Scheuermeier osservava:
La scomparsa della
tradizione contadina locale è stata probabilmente accelerata anche
dalla scarsa stima che esiste generalmente in Italia nei confronti del
contadino: da molti il contadino viene considerato e trattato come un
inferiore, ed egli stesso solo raramente si definisce con orgoglio
contadino (3)
Valgono a questo propostito le considerazioni di Eugen Weber per la
Francia:
Insomma,
il contadino si vergognava di essere tale; si vergognava di essere
incivile e conveniva con i suoi giudici nell’ammettere che a lui
mancava qualcosa di prezioso e di altamente superiore, ossia conveniva
che la civiltà francese, e in particolare tutto ciò che veniva da
Parigi, fosse evidentemente qualcosa di superiore e, quindi, di
apertamente desiderabile (4)
Con la differenza che, da Napoleone III in poi, il contadino "divenuto
francese" ha rappresentato, almeno su un piano retorico, un elemento di
identità nazionale, una riserva di valori repubblicani, mitigando
almeno in parte l'attitudine al disprezzo da parte della cultura
urbana. In Italia il contadino resterà il "cafone", il "bifolco"
disprezzata dall'intelletuale come dal piccolo borghese e nemmeno
l'olocausto contadino delle trincee della prima guerra mondiale varrà a
modificare molto questa situazione.
Le nuove condizioni sociali, hanno cancellato quindi facilmente le
espressioni culturali della della socoetà contadina
sostituendole con la versione "di massa" della cultura dominante, con
quelle espressioni preconfezionate che il sistema di
produzione di cultura concede ai subalterni di consumare. La
folklorizzazione dei residuali elementi, culturali, slegati dal
contesto da cui erano sorti, ha fatto il resto.
Questi processi hanno riguardato l'alimentazione, l'abbigliamento, le
forme di socializzazione, di celebrazione festiva, i riti.
Nella fase della cultura "di massa", con l'accento sul consumo,
anche lo svago, la socializzazione, la festa, il divertimento, il
gioco hanno ritrovato spazio - nella dilatazione del tempo vuoto (dal
lavoro salariato) - ma sempre più nella veste di spettatori,
ascoltatori, ricettori
passivi.
Dall'etica della rinuncia
all'esaltazione dell'edonismo senza freni
L'epoca del consumismo andava a scalzare quella dell'austerità, una
austerità imposta, da non confondersi con la dignitosa sobrietà delle
comunità tradizionali, un'austerità che sconfinava con la miseria da
non confondere con la povertà che è rigetto del superfluo, dello spreco.
Passando dalla celebrazione della parsimonia e dell'autosacrificio
(finalizzate a sfruttare il contadino con la legittimazione di un
richiamo moralistico) all'esaltazione del consumo
(finalizzata a sostenere il mercato e il ciclo capitalista), si è
dimenticata la sobrietà, il senso del limite, la morigeratezza,
l'oculata valutazione delle risorse disponibili. Via il bambino con
l'acqua sporca.
La "cinghia tirata"come valore in sé era funzionale allo sviluppo
industriale, a mantenere la disponibilità di forza lavoro a basso
costo, nel contesto di una capacità produttiva industriale e di un
mercato di consumo ancora limitati.
Ciò
era vero sia
per la forza lavoro emigrata verso
le aree industriali (drenata
dall'esodo rurale e dallo spopolamento
montano)e, a
maggior ragione, per quella occupata nei
fondovalle o allo sbocco delle valli.
Qui il collegamento della
manodopera (maschile e femminile) con l' ambiente rurale, la
possibilità di alternare il lavoro industriale con quello agricolo e
l'inserimento in famiglie con autoproduzione alimentare, non solo
consentiva agli industriali di pagare bassi salari ma anche di non
pagare lo scotto della sindacalizzazione e delle lotte operaie.
Era benedetta quindi quella malintesa "etica contadina" della rinuncia
e del sacrificio. Una trappola che funziona ancor oggi. La
"spremitura"che ha
finanziato lo sviluppo industriale con il sangue del mondo rurale (non
solo in Italia) è avvenuta grazie ai
bassi salari della componente rurale occupata nelle industrie
(spesso solo femminile, come nel tessile)
si univano altri elementi. Uno consisteva in una iniqua pressione
fiscale che penalizzava il contadino
in quanto "possidente" (di un francobollo di terra) e come consumatore
di beni indispensabili (sale, farina). La leva fiscale dello stato
liberale attuava una redistribuzione del reddito: dai più poveri ai più
ricchi. Non si può dimenticare poi il rapporto sfavorevole
tra prezzo dei prodotti agricoli e quello dei beni acquistati dai
contadini (un fenomeno questo che non si è più arrestato). La
miseria del mondo contadino e montano era imputata
alla sua "arretratezza", alle sue pervicaci superstizioni, alla sua
"diffidenza" verso i ritrovati moderni, non alle "avanzate" forme di
sfruttamento. Lo
stato, gli esponenti illuminati delle classi dominanti, che, nelle loro
varie sfumature ideologiche, esercitavano la loro azione pedagogica sui
contadini, avevano un solo fine, al di là di tutti i buonismi e gli
apostolati predicati: staccare il contadino dai mezzi di
sussistenza e di produzione per farne forza lavoro salariata o un
produttore dipendente da un mercato dai rapporti di forza ineguali, un
produttore di materie prime a basso costo per l'industria, un
acquirente di prodotti industriali a caro prezzo. I predicatori
del progresso, sociale, agricolo, morale dovevano
essere oltre tutto ringraziati e riveriti per la loro azione
civilizzatrice e
modernizzatrice. Erano filantropi. Come Soros
L'epoca più buia per le classi subalterne (la prima
industrializzazione) ha visto le comunità rurali non solo ridurre i
consumi alimentari (ridotti a circa 2000 calorie al giorno) ma anche
vedere incupita e intristita tutta la condizione di vita. Il processo
di annullamento delle espressioni culturali spontanee era già iniziato
da tempo. E' con l'inizio della modernità che la dimensione della
festa, del gioco, della musica, della danza si vanno contraendo.
Lavorare di più, mangiare di meno, divertirsi di meno. Questo il
programma della modernità per le classi popolari. Che prevedeva mezzi
"correzionali" inediti e crudeli: i manicomi, le case di lavoro coatto
(le famigerate work house non
erano solo inglesi ma furono realizzate anche dalle
nostre parti). La leva obbligatoria, una delle "riforme rivoluzionarie"
della borghesia comportava un ulteriore strumento di disciplina, di
inquadramento, di "acculturazione". La caserma era il paradigma della
prima società industriale, sulla quale si sono modellati tutti i suoi
principali istituti di controllo sociale. La fabbrica non era
organizzata diversamente da una caserma.
Diversi
aspetti del programma della riforma cattolica e le varie forme
di puritanesimo hanno fatto da pendant alle istituzioni di
disciplinamento, coercizione e correzione statali. Gli effetti
della "polizia dei costumi" (non più affidata ai riti dei giovani, ma
alle minacce di fuoco eterno dei preti), della morale sessuofobica,
funzionale a una società-fabbrica, che doveva essere senza distrazioni
e "disordini", dedita al lavoro (per sopravvivere da sfruttati o per
accumulare), si sono protratti sino al sessantotto. Poi l'esplosione
dei consumi e l'esigenza di sgretolare ogni forma interposta tra
l'individuo e i meccanismi del mercato e del controllo di massa, hanno
indotto a eliminare ogni vincolo di appartenenza, di lealtà, di
solidarietà
organica, ogni ostacolo alle "libere" (in realtà accuratamente
indotte) pulsioni individuali, quelle su cui fa leva l'economia del
consumo.
Con la morale bigotta sono stati travolti anche la famiglia e ogni
valore, men che liquido e relativo, in grado di ostacolare
l'individualismo egoistico e utilitarista. Il conformismo filisteo è
transitato dalla bigotteria sessuofobica al libertinismo, all'omofilia.
Come effetto collaterale, al tradizionalismo è stato assegnato il
compito di difendere un
bidone di benzina: una "società contadina" che idealizza in modo
assurdo la
miseria, l'austerità, il culto del lavoro e del sacrificio, il
soffocante controllo sociale,il familismo, la macerazione nella
rinuncia. Ma questo era il fantasma della società contadina, la falsa
immagine di una
società contadina già snaturata, castrata, piegata alle esigenze della
disciplina industriale. Un fantasma addomesticato e denaturato in
funzione degli interessi dominanti urbani.
Come erano diverse le
cose...
Dell'alimentazione, impoverita, abbiamo già accennato. Vale la pena
accennare ad altri aspetti del costume (giochi, danze, musica). Vediamo
una descrizione dei malghesi della Lessinia dei primi del Novecento
.
Le
donne s'adornano ancora
più con anelli, orecchini, spilloni e collane d'oro [...]
Gli uomini amano passarsela coi giuochi delle boccie (borelle)
delle carte e della morra e ricrearsi spesso o colle donne alla danza
o bevendo da soli vino all'osterie
[...] Robusti,
grazie altresì a tali cibi
nutrienti, attivi nè
mai obbligati a gravi fatiche [...] (5)
Bastano
questi pochi accenni per comprendere che, ancora all'alba del
secolo scorso, il montanaro si "ricreava spesso colle donne alla
danza", aveva ancora tempo per le bocce, le carte, la morra mentre le
sue
donne non disdegnavano di ingioiellarsi. Che l'etica dell'asino da soma
non sia stato l'ideale dei nostri antenati (ma qualcosa di subìto anche
se ancora oggi scioccamente si esibisce come un blasone identitario) ce
lo fanno capire altre testimonianze. Il mandriano, il pastore, specie
transumante, legato a comunità di montagna di quote elevata,
caratterizzate da forme di insediamento a piccoli villaggi o a nuclei
rurali e case sparse (tali da favorire il senso di indipendenza e da
sottrarsi meglio al controllo dei poteri esterni rispetto agli
agglomerati maggiori), è stato il più refrattario a quella
"normalizzazione dei costumi" che la modernità imponeva alla società
rurale. Le conferme sono parecchie. I mandriani svizzeri, kuer, che praticavano
anch'essi una
forma particolare di "nomadismo alpino":
trascorrevano
l’estate sull’alpe "per diventare robusti" e
non per
lavorare.
Proprietari di greggi, per natura, piuttosto pigri, amavano,
ogni volta che se ne presentava l’occasione, fare sfoggio della loro
forza e della loro destrezza nei giochi e nei concorsi. La danza, in
particolare, consentiva di far ammirare la loro straordinaria agilità (6) .
Giochi
alpestri in Svizzera. La "lotta svizzera" e i giochi alpestri
costituiscono un evento nazionale molto istituzionalizzato. Vengono
chiamati "Giochi federali" e l'esercito è impegnato per la preparazione
delle strutture. L'ultima edizione ha visto il concorso di 250 mila
spettatori
In
Svizzera i giochi di forza dei malghesi sono diventati un elemento di
quella "cultura alpestre" che l'elite cittadina ha utilizzato per
costruire l'identità svizzera (mentre la borghesia italiana voleva
nasconderla sotto il tappeto perché disturbava l'immagine di cartapesta
della grande nazione erede della romanità e "protesa nel
Mediterraneo"). I giochi alpestri elvetici sono rimasti in voga sino
ad oggi, sia pure nella forma celebrativa e sportiva, tanto da
diventare "Giochi federali". Danza, giochi di forza (alla svizzera e
alla scozzese, quindi di matrice celtica), sport, espressioni musicali
di diverso genere, jodel, li ritroviamo anche tra i malgesi della
lombarda Valsassina. Bisogna, però, torniamo indietro al Cinquecento,
ovvero prima
della Controriforma, ma anche della crisi economica, sociale,
climatica ("raffreddamento globale") e sanitaria del Seicento. Paride
Cattaneo Della Torre, canonico di Primaluna, nel 1571, scrisse
una Descrizione della Valsassina che
venne pubblicata dopo quasi tre secoli dall'ing. Giuseppe Arrigoni
(7).
[...]
ritrovandosi [i pastori]
ben pasciuti et grassi godono assai quella morbida et
poltronesca vita [...] vederansi a belle squadre danzare,
ballare et
saltare, altri correre, altri sonare et cantare, altri nel chiaro
fiume, piano et piacevole nuottare et pescare, altri vedrai lottare,
far correr cavalli, dei quali in gran copia ivi sempre si ritrovano,
altri fanno risuonar gli antri, caverne spelonche, li cavi sassi, li
alti colli et le basse valli da lor frequenti gridi, urli et fremiti [jodel],
da rusticani stromenti, di varie et diverse sorti, et da repetiti nomi
delle sue dolci et grate favorite.
Non se la passavano proprio male questi malghesi.
Paride Cattaneo Della Torre così continua:
Altri essendo poi pieni di cibo si
vedono prostrati supra le verdi herbe sonnacchiar, dormire, et ronfare
et altri per fuggire l'otio vedransi tirar il palo, lanciar dardi,
giochar alle braccia [braccio di ferro], tirar il sasso [vedi giochi
svizzeri], giocar a carte, tesser
spartelle [cesti di vimini]
et altri degni esercitii far li vedrai, cose che a lor dan spasso et a
risguardanti trastullo et grato piacere.
Tra
i "rusticani strumenti", oltre alla cornamusa (baghèt) e alle zampogne (flauto di
pan, firlinföo) vi era anche il corno alpino in legno (sotto
nell'affresco del ciclo di San Glisente a Berzo inferiore, val
Camonica).
Pare di ritornare a una età mitica, all'età dell'oro, ma stiamo
parlando dell'inizio dell'età moderna a un mondo ormai, per tanti
aspetti, più simile
al nostro che al medioevo. Ancora all'inizio dell'Ottocento, le danze e
l'utilizzo dei "rusticani strumenti" era ancora praticato dai malghesi
della
Valsassina.
[...]
Maggio
villaggio di rustiche casupole poste qua e là per un amena prateria
dolcemenite inclinata ed abitata da soli mandriani che fanno eccellenti
stracchini. Bella
è la sagra
che qui si tiene sul principio di settembre ove quei montanari al suono
delle cornamuse e delle rusticali zampogne accompagnato da popolari
canzoni menano carole [danza eseguita tenendosi per mano e
girando in cerchio] sull erboso clivo (8) .
A differenza della fabbrica, dove il ritmo e il "sottofondo musicale"
erano dati dalle macchine, il lavoro agricolo e pastorale era (sino
all'ultima fase della "grande trasformazione" tra gli anni '50 e '70
del secolo
scorso), caratterizzato dal canto. Il peso del lavoro, anche
quello fisicamente gravoso e rischioso, era alleviato dal gusto dello
"stare
insieme", anche a distanza, attraverso il canto e le vocalizzazioni di
richiamo (lo jodel alpino). Poi è
subentrato silenzio e la solitudine secondo
l'inesorabile tendenza che, tra medioevo e contempraneità, ha visto il
costante aumento del numero di animali affidati a un pastore.
Ancora nella prima metà del secolo scorso valevano queste osservazioni
del Bianchini, acuto osservatore della vita alpestre della sua val
Tartano (bassa Valtellina orobica):
La quiete del meriggio era talvolta
intervallata dai canti intervallati da "jodel" gícui di ragazze che raccoglievano céra [fieno "selvatico"] sui
dirupi: anch’esse a quell’ora si riposavano, attendendo che l’erba
falciata si essicasse, per poterla portare a casa, in grossi
fasci. Giovani pastori o i cascii [pastorelli] rispondevano con "jodel" (9).
Analoghe
le osservazioni del Pensa che, riferendosi alla raccolta del fieno
selvatico nelle valli lariane
orientali osservava:
Era
tuttavia, quell’impegno che occupava tra la prima e la seconda
fienagione sui maggenghi, un momento da cui i giovani
non rifuggivano quasi gustando la libertà della natura e, mentre
tagliavano l’erba magra, moncif o scernion,
come la si
chiamava in dialetto, lanciavano, da una parte all’altra delle valle,
il cigol [jodel],
tipico grido di presenza e di richiamo, festoso
segno del gusto di vivere insieme (10) .
Canto, lavoro, istituti di socializzazione
Il lavoro era anche
occasione di socializzazione (lo è per fortuna
anche oggi in
alcuni casi). Se è vero che le macchine e le forme di vita urbana (o
simil-urbana) hanno sollevato dalla fatica, è anche vero che hanno
tolto
alle persone le possibilità di socializzare, di mantenere quelle
relazioni che costruiscono e tengono viva una comunità giorno per
giorno (sommandosi alle occasioni rituali e festive "speciali").
Pensiano all'era dei
lavatoi pubblici (oggi a volte splendidamente
restaurati ma desolatamente inutili e silenziosi). Lavare con le mani
nell'acqua fredda di montagna non era certo piacevole, ma le macchine
lavatrici - simbolo della prima rivoluzione dei consumi - hanno
eliminato una vera e propria istituzione comunitaria, una istituzione
tutta al femminile che consentiva alle donne di disporre di un loro
ambito esclusivo per confrontarsi, scambiarsi consigli e notizie.
E per cantare insieme. Le osterie si sono trasformate in
bar, una istituzione (solo maschile) molto più povera dell'osteria che,
nella società pre-industriale era una vera istituzione-perno della
comunità (lo vedremo in una prossima puntata). Intanto notiamo che la
"vita di città" ha tolto alle donne del popolo molti ambiti di socializzazione, a
differenza delle donne del ceto medio che
andavano al caffé o prendevano il tè con le amiche, (servite dalle
"servette"
rurali), che andavano dal coiffure
. Un netto peggioramento della condizione femminile rispetto a quella
uomini, che , anche nella "società industriale",
hanno mantenuto, oltre al bar, il sindacato o il partito, il circolo
ricreativo. La monitonia della vita
della casalinga del popolo, chiusa nelle mura domestica dei casermoni
periferici, era rotta solo dalle uscite per
fare la spesa, per la messa e rarissimi "svaghi" (non c'era nemmeno la
televisione e molti degli elettrodomestici poi divenuti comuni).
Non era
certo una vita più felice di quella della contadina. Anche se non
doveva più
fare la "bestia da soma" era ancor più in condizione di
inferiorità rispetto al maschio perché, perso il contatto con il
lavoro agricolo, si doveva occupare solo del "servizio" della casa e
dei famigliari. Soprattutto, era più
isolata. Qualcosa che ai tempi del contagio
possiamo ben capire. 1. continua
Note
(1)
X.
Toscani, L’alfabetismo
nelle campagne dei dipartimenti del Mincio e del Mella e nelle alte
valli del Serio e dell’Adda (1806-1810)”, in A. Bartoli Langeli, X.
Toscani, Istruzione, alfabetismo, scrittura. Saggi di storia
dell’alfabetizzazione in Italia (sec. XV-XIX), Milano,
1992, pp. 109-148 (p. 236).
(2) J. Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi,
Torino, 1974 p. 42
(3) P.
Scheuermeier, Il lavoro dei contadini, Vol II., Milano, Longanesi,
1956, p. 290
(4)
E.Weber
Da contadini a francesi.
La modernizzazione della Francia rurale (1870-1914),
Bologna, Il Mulino, 1989, p. 29.
(5) Luigi Sormani Moretti, La Provincia di Verona monografia
statistica, economica amministrativa. Condizioni economiche della
provincia,
vol. II, Olschki, Firenze, 1903, p. 35.
(6) A
Niederer, Economia e forme
tradizionali di vita nelle Alpi, in Storia
e Civiltà delle Alpi. Il destino umano, a cura di P. Guichonnet,
Milano,
1987.
(7)
G.
Arrigoni Documenti inediti
risguardanti la storia della Valsassina e delle terre limitrofe,
Milano, Pirola, 1857, pp.37-38.
(8)
I.
Cantù. Guida pei monti della Brianza
e per le terre circonvicine, Milano, Bravetta (1837) (1a ed.
1818), p. 216.
(9) G.
Bianchini, Gli alpeggi
della Val Tartano ieri e oggi. Economia e degrado ambientale nella
crisi dei pascoli alpini, Sondrio, Tip. Mitta, 1985, p.
(10) P.
Pensa,
L’Adda nostro fiume,
Religiosità. Tradizioni e folklore nel ritmo delle stagioni. vol III,
Lecco, Edizioni di cultura. Punto stampa. 1977 p. 439.
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