(19.12.15) Il Piano lupo conferma, se ce ne fosse bisogno, l'arroganza della lobby che - almeno sino ad oggi - ha potuto operare su un piano di totale autoreferenzialità finanziandosi con 18 progetti LIFE. L'impostazione del Piano è molto pericolosa per i pastori e gli allevatori in quanto mira in modo ormai scoperto ad utilizzare il lupo per imporre una gestione dello spazio rurale che escluderà l'uomo
Piano lupo: i lupocrati vogliono
dettare legge ai pastori
Pourquoi le nouveau Plan loup est un Plan contre les bergers
ici la traduction française par le blog Le loup des voisins
di Michele Corti
Il Piano lupo è un clamoroso esempio di autoreferenzialità lobbysitica che, forte dell’abdicazione delle istituzioni al loro ruolo di salvaguardia di interessi comuni e di bilanciamento di interessi, senza inibizioni propone una visione di governance dello spazio agrosilvopastorale finalizzata alla diffusione del lupo e alla graduale soppressione delle attività antropiche tradizionali. Anche fuori dai Parchi (presidi di una visione padronale di controllo coloniale del territorio montano e rurale), anche nelle “aree contigue”, anche oltre dove la lobby vorrebbe istituire delle Autorità di gestione del lupo con facoltà di dettare legge sull’esercizio della caccia e del pastoralismo. Il tutto sostenuto dall’azione intimidatoria e repressiva di un Corpo speciale di polizia pro lupo. La ciliegina sulla torta è la beffa di un controllo legale del lupo ammesso sulla carta ma condizionato a tali e tante condizioni da rendere impossibile abbattere legalmente forse anche un solo lupo in Italia. Parrebbe un romanzo di fiction ma è la realtà dell’Italia attuale.
Questo piano così come formulato non passerà. Ma se i pastori, gli allevatori, i contadini, i cacciatori, le comunità dei piccoli centri di montagna e alta collina non sapranno esprimere in forma organizzata i loro interessi non si arresterà la strategia che utilizza la diffusione dei grandi predatori come grimaldello per desertificare la montagna e le aree rurali interne e porle sotto il controllo di grandi interessi economici decisi a sfruttare senza scrupoli ogni risorsa (lasciando una facciata di cartapesta di Parchi e di lupi).
Il Piano in dettaglio
Lo stato che il Piano definisce “di conservazione favorevole” in realtà consiste in una condizione di continua espansione di areale e della consistenza della popolazione lupina. Laddove il Piano si prefigge di “conservare” esso nasconde ipocritamente la volontà di “aumentare”. La lobby non può proclamarlo apertamente ma tutto il Piano è finalizzato ad espandere ulteriormente l’areale (sulle Alpi) ed ad incrementare nell’Italia appenninica la consistenza delle popolazioni lupine.
Le finalità del piano contemplano azioni di contrasto al controllo illegale della specie sino alla creazione di “nuclei speciali” (una sorta di louveterie all’incontrario) e alla penalizzazione di cacciatori, raccoglitori di tartufi , sino all’esclusione delle attività, venatorie, cinofile e di raccolta dei tartufi laddove vengano rinvenute esche avvelenate.
Cacciatori e raccoglitori di tartufi vengono criminalizzati quali categorie utilizzatrici di esche avvelenate per bieche rivalità interne facendo finta di ignorare che le esche, come da cronaca, sono spesso utilizzate da allevatori esasperati per un livello insostenibile di predazione. Per “conservare” il lupo il Piano propone, sempre tra le righe (a conferma di una reticenza e mancanza di trasparenza e onestà intellettuale di fondo), non solo di limitare alcune forme di attività venatoria, criminalizzando la braccata ma, in modo ancora più subdolo, auspicando anche l’estensione del divieto o comunque della limitazione delle attività venatoria nelle aree “contigue” ai Parchi. Una proposta che sancisce la concezione dell’area protetta come Santuario della natura o, più prosaicamente, come centro di potere e strumento di controllo del territorio e della spesa pubblica e di complessiva regolazione dello spazio rurale, da allargarsi progressivamente alla buona parte del territorio agro-silvo-pastorale.
Che la la gestione del lupo rappresenti un veicolo di estensione del potere delle “centrali verdi” a danno delle popolazioni locali e delle attività tradizionali lo dimostra l’insistenza nel voler sottoporre le attività pastorali e venatorie a restrizioni e cambiamenti di regime sino a sottoporle a sanzione (attuata negando lo stesso diritto di indennizzo per i danni da predazione) qualora gli allevatori non si attengano alle prescrizioni dei lupologi. Ma reti, cani e altri sistemi di difesa passiva in Francia e in Piemonte hanno dimostrato – canta la carta dei verbali stilati dai veterinari pubblici – di essere gradualmente aggirati in forza della capacità del lupo di individuare spazi e tempi opportuni per colpire attraverso i punti deboli delle difese apportate. Riducendosi i greggi e le mandrie che frequentano le aree più a rischio i lupi – che trovano sempre più facile attaccare il domestico e che hanno già falcidiato le popolazioni locali di ungulati – concentrano i loro attacchi sugli ormai pochissimi greggi senza difese rivolgendosi poi di necessità a quelli difesi e trovando i punti deboli del"dispositivo" messo in atto dal pastore. Ovvero la presenza assidua dell'uomo, dei cani da guardiania e dei recinti “plurifilo” (o reti elettrificate).
La parzialità del punto di vista del Piano emerge lampante dalla totale assenza di considerazioni circa i limiti di questi mezzi di difesa passiva proposti e il loro impato negativo psicologico, sociale, economico. Le conseguenza dell’adozione di queste misure vanno al di là di qualunque sussidio graziosamente concesso agli operatori “virtuosi” che si allineano alle prescrizioni lupologiche. Ma per la maggior parte degli esponenti della lobby (compresi i funzionari pubblici) pastori, allevatori, cacciatori sono degli ignoranti pronti a truffare lo stato. Per loro quindi non ci dev’essere alcuna comprensione, prima cessano l’attività meglio sarà. In modo da restituire la montagna, la Natura alla sua presunta verginità.
Il conflitto tra i cani da guardiania e l’attività turistica è solo uno dei tanti impatti negativi dei “rimedi passivi” adottati per far fronte alla presenza del lupo. Un conflitto che, sia in Francia che in Piemonte, si è tradotto non solo in aspre polemiche, ma anche in ordinanze comunali, denunce penali e sanzioni. Un paradosso che dimostra la volontà delle istituzioni di assecondare la lobby e di ignorare le prese di posizione di pastori e allevatori. La Regione Piemonte condiziona gli incentivi del Piano di Sviluppo Rurale alla presenza del gregge/mandria di un cane da difesa ogni 100 capi ma alcuni comuni – timorosi della diserzione dei turisti – minacciano di non affittare più pascoli ai pastori/margari con più di 1-2 cani. Nessuno dei 70 esperti che con arroganza rara si arrogano di essere esperti di pastoralismo, di tecniche di pascolo, di benessere degli animali domestici ecc. si chiede come possano i pastori transumanti del Nord Italia, costretti per ragioni di redditività a mantenere nel gregge 1000-1500-2000 capi, a circolare per la Pianura padana altamente urbanizzata con 10-15-20 cani da difesa. Pare ce ne sia abbastanza per denunciare come la lobby stia giocando, non da oggi, un gioco sporco.
Non una parola da parte del Piano sulle difficoltà indotte dall’adozione delle misure di “difesa passiva” e sui loro limiti ma, anzi, la reiterazione del miracolistico effetto di mezzi che possono risultare efficaci in certe condizioni orografiche e di sistema pastorale ma non in altre. Tanta sicumera continua a basarsi sul logoro trucchetto del consistente nel spiegare ai pastori quanto siano bravi altri pastori che hanno saputo convivere. Consiste nella vulgata della pastorizia abruzzese "virtuosa", che non ha mai dimenticato la cultura della difesa dal lupo, dei pastori toscani che essendo di origine sarda sono antropologicamente avversi ad adottare misure di difesa (per via di una cultura ancestrale modellata in assenza di lupo nell’isola). Parlando tra loro i pastori e gli allevatori hanno imparato a smontare questo trucchetto. Reiterato di recente anche in zone di recente introduzione del lupo (Lessinia) dove la tiritera ha assunto la forma: “In Piemonte i pastori hanno imparato a convivere” (una menzogna propalata anche in Francia ma anche qui smontata grazie ai contatti al di là dei confini tra i pastori. Peccatoche la Lessinia sia completamente diversa dalle valli piemontesi ma anche , per la lupocrazia, che tra loro gli allevatori piemontesi e della Lessinia si parlino da tempo (così come parlano con svizzeri e francesi).
Pur non riconoscendo che i sistemi di difesa passiva presentino limiti e controindicazioni il Piano entra nel merito della gestione dei sistemi stessi e della gestione della pratica pastorale. La finalità ultima della lobby, che consiste nel ridimensionamento sino alla sparizione delle attività di allevamento tradizionali, è palese sia nell’analisi Swot, dove il “declino delle attività di allevamento tradizionali” è salutato come una “opportunità” per il lupo, ma anche più concretamente e palesemente nel richiamare normative obsolete, residuo di condizioni socio-economiche del tutto superate, quando si poteva assegnare un guardiano ogni pochi capi. Il Piano lo dice espressamente: sono auspicabili greggi e mandrie più ridotte con più custodi. Un decreto di morte subitanea perché solo con l’aumento dei capi gli allevatori e i pastori hanno potuto compensare un prezzo della carne e del latte che in termini reali ha continuato a declinare. Un decreto di automatica attuazione se agli effetti economici della riduzione del numero dei capi per necessità di difesa dal lupo si aggiungessero ulteriori oneri di manodopera (ammesso e non concesso che sia reperibile una manodopera qualificata in grado di gestire la difesa dai predatori).
Mentre tutti i gruppi sociali hanno diritto a godere degli effetti del benessere (anche quando significano danni pesanti agli ecosistemi in termini di inquinamento) i pastori e gli allevatori dovrebbero essere gli unici a tornare al passato.
Le Convenzioni internazionali rappresentano uno stumento molto efficace nell'annullare la sovranità nazionale e popolare e nell'affidare al difficile raggiungimento di una nuova e diversa volontà di più stati nonchè a vischiose procedure burocratiche - un contesto in cui le lobby si muovono a loro agio - la loro revisione e aggiornamento.
Nonostante questo contesto internazionale lo stato francese riconosce (e versa) ai pastori 10 milioni di € all’anno per compensare i maggiori oneri di lavoro indotti dalle necessità di difesa dal lupo (e ne riconosce altri 5 di indennizzi). Al contrario in Italia non vengono risarciti neppure i capi palesemente predati. Nessuna tra le diverse istituzioni e agenzie competenti si è mai preoccupata in Italia di stimare i danni del lupo e l’ammontare degli indennizzi versati. Gli“esperti” (gli stessi le cui firme figurano in calce al Piano lupo) stimano in 1-2 milioni di € i danni provocati dal lupo.
Vogliono far credere che i 2000 lupi sul territorio della Repubblica italiana provocano solo una frazione dei danni causati nella vicina Republique da 300 lupi. Il fatto è che – almeno su questo punto – lo stato francese si comporta da stato che si prende la responsabilità di censire i lupi, di monitorarne i danni e di indennizzarli. Lo stato italiano si comporta da cialtrone, assecondando gli interessi delle lobby e trattando da servi della gleba i gruppi sociali che rappresentano interessi dispersi e non in grado di tradursi in pressione politico-lobbystica.
Le regioni hanno trovato ogni scusa per sottrarsi al dovere di rispondere per i danni provocati da animali di loro proprietà (la fauna nella legislazione italiana è “proprietà indisponibile dello stato” che ha delegato alle regioni la materia). Eppure non più tardi della scorsa estate un tribunale ha riconosciuto il dovere della Regione Abruzzo di risarcire la vita di un giovane di ventisette anni che perse la vita nel 2008 a causa di un incidente stradale provocato da un lupo. Per “giocare sporco” hanno spesso affidato a broker assicurativi privati la materia degli indennizzi con conseguenze facilmente immaginabili. In alcuni casi si chiede all’allevatore di contribuire ai premi assicurativi, in altri si pongono limiti assurdi ai risarcimenti. In Piemonte (regione “virtuosa”) gli allevatori stanno gradualmente rinunciando a presentare denunce considerando che la trafila burocratica implica la perdita di intere mezze giornate. Cosa che un pastore e un margaro (anche se hanno un aiutante) non possono permettersi. In Piemonte i bovini adulti, che pure sono stati ripetutamente predati, sono esclusi dall’indennizzo in quanto “capaci di difendersi”. Eppure i verbali di accertamento di predazione parlano di capi fatti diroccare dai lupi (e da essi consumati), di capi con lesioni agli arti o alla testa provocati dalla fuga precipitosa su terreno cosparso di massi, di capi spinti contro una parete di roccia e privati di via di fuga. In Lombardia l’indennizzo ha un massimale di 4000 €. La pecora bergamasca da macello (90 kg) vale 150 €, se da vita 200-300€. E’ sufficiente che i lupi causino la perdita di una ventina di pecore per raggiungere il massimale. Due anni fa un gregge transumante nell’Oltrepo pavese era stato attaccato dal branco di Rocca Susella e decine di pecore erano cadute nel torrente Staffora, trascinate dalle acque verso il Po. Lamentele ancora peggiori giungono dalle regioni centro-meridionali. Ridurre le attività tradizionali per il Piano significa “mitigare” il conflitto, ovvero mettere allevatori e pastori nelle condizioni di non poter più svolgere la loro attività. La “pace dei cimiteri” (si sarebbe detto un tempo).
Gli ambientalisti in buona fede (che ben farebbero a darsi una diversa etichetta) dovrebbero comprendere che il fine della lobby del lupo è quello di eliminare le attività di allevamento estensivo (artigianali e indipendenti dalle organizzazioni globali di produzione e distribuzione del cibo) a favore di attività zootecniche industriali. La Confédération paysanne in Francia proclama da tempo che il lupo (o meglio la lobby, perché il lupo è strumento e vittima dei suoi “amici”) è il miglior alleato della distruzione dell’allevamento estensivo e del progresso delle “fabbriche del latte e della carne”. L’allevamento estensivo è veramente “sostenibile”, fattore di biodiversità, di protezione da calamità (incendi, frane), di benessere animale, di riproduzione di saperi e cultura. Lo hanno proclamato cinquanta tra studiosi, ricercatori, intellettuali francesi di varie discipline che nell’ottobre 2014 hanno redatto un “Appello perché gli ecosistemi non siano abbandonati dai pastori” sottoscritto anche da Carlin Petrini e pubblicato il 13 ottobre dal quotidiano Liberation.
L’ideologia della lobby (come di tutto l’animal-ambientalismo di matrice urbana) è invece quella della scissione tra ecosfera e sfera dell’attività economica e in generale umana di cui viene promossa la graduale artificializzazione. La presunta “natura incontaminata” deve essere sottratta al “disturbo antropico”. La conseguenza è quella della progressiva industrializzazione-artificializzazione dell’attività e della stessa vita umana. L’industria e l’apparato tecnoscientifico (difficili ormai da distinguere) stanno promuovendo l’artificializzazione della vita spostando sempre più la frontiera della manipolazione della riproduzione e della stessa costituzione genetica umana e animale. Nel campo della produzione alimentare il complesso industriale-tecno-scientifico sta promuovendo la realizzazione di fabbriche di animali clonati (in Cina) mentre in diversi laboratori si sta sperimentando la coltura in vitro di tessuti animali per la produzione di carne artificiale. La prospettiva è che non esisteranno più animali e piante in simbiosi con l’uomo e neppure lo stesso uomo, almeno come lo conosciamo. Dall’uomo prodotto in provetta con un genoma programmato all’umanoide in cui i circuiti al silicio sostituiscono le strutture biologiche il passo non tarderà molto.
La “naturalizzazione”, l’idolatria della Natura nascondono il loro opposto, sono solo l’altra faccia della medaglia del progetto tecnocratico iperindustriale che si fa portavoce del sistema di potere basato sui due motori della finanza speculativa e della tecnoscienza. Sul cammino di questo progetto antiumano i pastori, i contadini, i montanari, le comunità delle aree rurali interne – meno facilmente manipolabili delle masse urbane – rappresentano un sia pure piccolo ostacolo. Un ostacolo che va abbattuto in barba alle facciate ideologiche della “democrazia” e della “partecipazione”.
La governance dello spazio agrosilvopastorale (o di quello che era un tempo tale) è una governance neoautoritaria e neocentralista dove non solo gli attori, i gruppi sociali presenti sul territorio non hanno possibilità di esprimere i proprio orientamenti e i propri interessi ma dove essi sono privati di informazioni o sottoposti a campagne di disinformazione e di propaganda. Il nascondere la presenza del lupo nelle aree di nuova espansione (almeno sin quando essa è palese, consolidata e difficilmente reversibile) è esempio tanto evidente quanto frequente di quella stategia di disinformazione che nella sua arroganza la lobby teorizza anchein atti pubblici, nei “manuali” allegati alle risultanze dei tanti progetti milionari di cui essa beneficia. Ma la disinformazione non basta; c’è anche la strategia della denigrazione (chi contesta i tecnocrati verdi è gratificato quale “ignorante” e “arretrato”) e quella della repressione e dell’intimidazione portato avanti anche da organi dello stato oltre che dalle guardie ecozoofile che sono riuscite ad attribuirsi ruoli di polizia giudiziaria.
Il Piano prevede, come già osservato, l’istituzione di un Corpo speciale di polizia in difesa del lupo con la scusa del “bracconaggio” e azioni di rappresaglia a danno di pastori e cacciatori dovunque vengano trovate esche avvelenate (grazie alle squadre di cani appositamente addestrate di cui dovrebbe essere dotata la Polizia pro lupo). Vietare il pascolo o la caccia laddove si rinvenga non già un lupo ucciso ma solo un esca è un mezzo infallibile per gettare benzina sul fuoco del conflitto sociale. Gli “esperti” del Piano Lupo dimostrano una conoscenza del conflitto sociale pari a zero e comunque inferiore a quella di un qualsiasi laureato triennale di sociologia. Insultare e criminalizzare interi gruppi sociali e proibire l’esercizio di attività lecite da parte di cittadini che hanno titolo per esercitarle solo per “rappresaglia” rappresenta una regressione della civiltà giuridica a tempi lontani. I tempi dei signorotti e dei servi della gleba, tempi che la lobby del lupo rimpiange. Oltre che falsamente ambientalista essa è infatti falsamente progressista come dimostra l’identificazione in animali che sono stati simbolo di culture che esaltano la sopraffazione, la violenza, l’aggressività. Non occorre risalire agli ulfendhnar, guerrieri-lupo delle tradizioni norrene, basta pensare alle SS e ai werwolf, gli irregolari nazionalsocialisti operanti dietro le linee nel 1945. Gratta la pellicola verde e trovi una polpa ideologica rossa e un nocciolo nero, ovvero visioni ideologiche elitarie e totalitarie.
A suggello di una governance lupocratica, in grado di espropriare anche fuori dei Parchi la capacità di controllo sul territorio dei comuni e dei gruppi sociali locali, vi è la proposta "organica" di crezione delle Autorità di gestione del lupo. Ovvero autorità con facoltà di coordinare la gestione del territorio agro-silvo-pastorale in senso favorevole al lupo. Come? Contando sui collaudati meccanismi di autoreferenzialità e di moltiplicazione della rappresentanza del mondo animal-ambientalista attraverso le varie espressioni dell’ambientalismo istituzionale (WWF, Legambiente) e dell’animalismo con varie gradazioni di spirito militante (Enpa, Lav, Pro natura ecc.). Facile prevedere che in tali organismi le rappresentanze della parte venatoria e agricola saranno minoritarie, spesso manipolabili in quanto non specificamente selezionate sulla base della connessione con le realtà di base e non sufficientemente motivate, attrezzate in senso tecnico e culturale, non coordinate. L’ovvio risultato sarà quello di dare campo libero allo schieramento lupocratico pronto ad approfittare di ogni occasione per togliere spazi e voce agli interessi locali. Ovviamente questa governance neoautoritaria conta sul fatto che l’orientamento politico generale è attualmente favorevole allo smantellamento delle autonomie locali, all’eliminazione dei comuni di montagna (auspicabilmente da aggregare a grossi comuni di fondovalle o pedemontani).
Nel quadro sin qui tracciato la lobby trova condizioni favorevoli per la sua politica. Essa, però, non può ancora proclamare apertamente i propri obiettivi. L’espansione numerica e geografica del lupo è possibile quanto più si indeboliscono i presidi rurali, la presenza diffusa di allevatori, pascoli utilizzati. Ma è ancora troppo presto per proclamare apertamente l'obiettivo della pulizia etnica del mondo rurale, pastorale, contadino. Ecco allora che si fa credere che la consistenza delle popolazioni lupine dipenda dal "bracconaggio". Ma il “contrasto al bracconaggio” è solo una messa in scena. Il "bracconaggio" innanzitutto non esiste, vi è un controllo illegale del lupo, ma quest'ultimo è una "manna" per la lobby. Esso serve a togliere le castagne dal fuoco, ad impedire che le istituzioni, con il consenso ambientalista, debbano "sporcarsi le mani" uccidendo legalmente i lupi. Consentendo ad entrambe di usufruire della rendita politica di una "intransigente politica di protezione del lupo".
Nessuno ha interess a contrastare sul serio contrastare il “bracconaggio”. Come sostenuto dallo stesso Boitani in più occasioni il "bracconaggio" toglie un gran fastidio a Regioni, Parchi, ambientalisti, lupocrati. Se non ci fosse il controllo numerico illegale del lupo la specie di espanderebbe eccessivamente anche per i gusti dei lupofili e lupocrati. Crescendo la presenza anche in aree intensamente coltivate e con attività di allevamento intensive contro il lupo si rischia (dal punto di vista lupofilo lupocratico) di suscitate opposizioni forti in grado di compromettere la governance del lupo a livello nazionale. La Lessinia che appartiene al tempo stesso alla realtà montana e a quella dell’allevamento intensivo indica già quali problemi sollevi la presenza del lupo in un contesto di zootecnia da latte con un densa presenza di aziende sul territorio parte importante della realtà sociale locale. In Lessinia contro il lupo si sono schierati i sindaci (anche se poi alcuni continuano ad appoggiare il Parco), si sono attivate associazioni di categoria, si è mosso il sindaco di Verona, la provincia. Una reazione che non trova riscontro quando il lupo “picchia” in realtà disperse e marginali.
Il “bracconaggio” frena anche l’arrivo del lupo nelle aree periurbane dove, sempre dal punto di vista lupofilo, vi è un rischio molto grave: che l’opinione pubblica alle prime notizie di avvistamenti, “incontri ravvicinati” muti rapidamente l’atteggiamento superficialmente lupofilo in uno lupofobo. La storia del Trentino insegna qualcosa. Quando l’orso ha aggredito e mandato all’ospedale delle persone in comune di Trento o in un comune limitrofo il già declinante consenso alla presenza degli orsi è crollato. Il “bracconaggio” quindi è una manna per gli ambientalisti e le istituzioni ignave. Si tratta di una vera azione di controllo della popolazione. 100-200 capi eliminati ogni anno secondo le stesse stime dei lupologi che nella loro altezzosa arroganza non si preoccupano se esse sono palesemente incompatibili con altri due dati: l’espansione, sotto gli occhi di tutti della specie e l’altro, taroccato, ovvero le stime “ufficiali” della consistenza numerica della stessa. Perché i lupologi tarocchino la stima “ufficiale” della popolazione lupina (ferma a 1000 esemplari) è abbastanza chiaro. Innanzitutto non potrebbero accedere ai canali privilegiati di finanziamenti europei se la specie non fosse in perenne “pericolo” come essi sostengono in barba ad ogni evidenza empirica, in secondo luogo in assenza di una stima certa il Ministero (sentita l’Ispra che a sua volte sente il Comitato scientifico ovvero la lupologia e gli ambientalisti) ha potuto respingere in modo ineffabile le richieste di piani di controllo selettivo più volte avanzate dalle Regioni. Vale la pena di osservare per apprezzare il livello di squallore del Piano che esso riporta che “nessuna regione ha mai avanzato richiesta di attivazione della deroga per l’abbattimento selettivo di lupi”. La sola Regione Piemonte l’ha fatto due volte, la prima quando era assessore all’agricoltura il pd Taricco (oggi onorevole), l’altra quando era assessore l’ex leghista Sacchetto. Eppure tra i firmatari del Piano ci sono anche funzionari piemontesi. Vale la pena ricordare che l’argomento della “mancanza di dati” sollevata – si badi bene – nel caso di una regione che aveva speso milioni con il Progetto lupo per monitorare i branchi.
A controprova che i Comitati scientifici (foglia di fico dietro la quale il Ministero nasconde la sua ignavia) sono in realtà Comitati politici è bene ricordare che nella risposta alla “inesistente” richiesta della regione Piemonte si obiettò anche che non era possibile abbattere alcun capo a causa della “sensibilità dell’opinione pubblica” (aspetto questo del tutto non pertinente con un parere sul piano gestionale).Quanto avviene in materia di controllo numerico del lupo (non un capo può essere abbattuto legalmente nonostante ricorrano tutte le circostanze previste dalla Direttiva habitat per l’attivazione delle deroghe al regime di protezione) rappresenta un classico esempio di italica ipocrisia. Dopo “Divorzio all’italiana” di potrebbe girare un film: “Controllo del lupo all’italiana”.
In realtà il "bracconaggio" non esiste o, nel caso del lupo, è realtà marginalissima (come quel balordo genovese, caso unico di bracconiere di lupi condannato, che ostentava al collo una collana con le zanne di sei lupi da lui uccisi). Il vero bracconaggio è altra cosa e riguarda l'attività esercitata a scopo di lucro (grazie ad una legge obsoleta che continua a considerare la caccia solo come uno "sport") da chi approvvigiona i ristoranti con cinghiali e cervi. Nel 99% dei casi i lupi non sono uccisi da bracconieri ma da pastori, abitanti dilocalità isolate (cacciatori o no) che non si risolvono a rischiare una condanna penale per divertimento, per sport, per senso di sfida ma per legittima difesa, per tutelare la propria attività la sicurezza propria e delle persone con cui vivono e lavorano. L’uccisione dei lupi è percepita dal gruppo sociale dei pastori e degli allevatori e dalle comunità locali non solo come una rischiosa necessità che supplisce all’ipocrisia di stato e alle falsità ambientaliste ma anche come una doverosa e legittima forma di resistenza sociale. Se “passano” i lupi, se essi arriveranno a condizionale la vita locale o a desertificare ulteriormente borgate e vallate minori allora per la montagna per le alte colline interne non c’è speranza. Infine c’è la componente di protesta (le carcasse o i trofei ostentati) che, però, riguarda solo poche situazioni di particolare esasperazione. Nella stragrande maggioranza dei casi chi elimina il lupo cerca di farlo nel massimo silenzio facendo sparire ogni traccia.
Quando il Piano lupo proclama la necessità di una lotta diretta al “bracconaggio” fa solo un esercizio di propaganda. Il “bracconaggio” non esiste ed essendo una forma di legittima difesa e di resistenza sociale l’approccio repressivo e le ritorsioni non possono che esasperarlo. Dal momento che il controllo illegale del lupo è non solo importante ma necessario i piani antibracconaggio si tradurranno in sperpero si spesa pubblica e in qualche esibizione “muscolare” di facciata. La lotta “diretta” alle cause di mortalità antropogenica non ci sarà. Fa troppo comodo che i lupi vengano eliminati in silenzio consentendo alle istituzioni (che dopo il caso Daniza tremano all’idea di dover giustificare, di fronte ad un’opinione pubblica aizzata dagli animalisti , l’uccisione legale di orsi e lupi). Se il Piano perseguisse sul serio la riduzione della mortalità si assisterebbe ad un aumento del tasso di crescita non solo nelle aree di espansione (Alpi) ma anche sugli Appennini.
Il Piano pertanto quando proclama di voler “conservare” la popolazione in realtà non riesce a dissumulare che quello che persegue non è solo l’espansione territoriale sulle Alpi ma l’aumento numerico delle popolazioni lupine (ovunque tranne Sardegna e Sicilia). Proclamare, che in Toscana o in altre regioni “calde” i lupi debbano auspicabilmente aumentare di numero è politicamente “complesso” e quindi si finge di perseguire la “conservazione”. L’ipocrisia si rileva nella reticenza nell’ammettere la condizione di incremento numerico e di espansione di areale della specie (studi scientifici lasciano ritenere che la consistenza reale della popolazione lupina italiana raggiunga e superi i duemila individui ). In realtà l’obiettivo è quello di mantenere ai livelli attuali il “bracconaggio” così da ottenere, in presenza di una progressiva “ritirata” dell’uomo, un aumento numerico fino ad avvicinarsi agli obiettivi indicati dalle mappe di “vocazionalità territoriale”. Esse, non tenendo conto della presenza delle attività umane (tranne le strade in quanto ostacolo e causa di mortalità del lupo), basandosi solo sulle caratteristiche orografiche e vegetazionali dei territori, facendo finta che l’uomo si sia già estinto, arrivano a preconizzare la presenza di 2000 lupi solo sulle Alpi.
Non mancano nel Piano affermazioni palesemente prive di ogni fondamento oggettivo quando non palesemente false e fuorvianti. Così come quando si reitera l’identificazione del capro espiatorio dell’ibridazione nei pochi allevamenti di Cane lupo cecoslovacco sfidando impavidamente l’ovvio rilievo che si tratta di un numero esiguo di esemplari di grande valore commerciale il cui abbandono o rilascio non può spiegare che una frazione infinitesimale del fenomeno. Le osservazioni velatamente critiche sulla gestione dei Centri di recupero e degli Zoo del lupo (di cui non si può fare a meno di rilevare i costi esorbitanti ma anche la discutibile gestione della riproduzione in cattività e nel rilascio di soggetti dopo lunghi periodi di contatto con l’uomo) lasciano intendere che la presenza di ibridi e di lupi "strani" (per taglia e colorazione del mantello) allo stato selvatico non possa essere ascritta solo al mancato controllo o abbandono da parte di cacciatori, contadini residenti in aree rurali ma anche ad altri fenomeni illeciti di tutt’altra natura.
A fronte della costante riduzione della popolazione rurale, degli allevatori e dei cacciatori, e quindi alla tendenziale contrazione di almeno alcune delle componenti del fenomeno dei cani vaganti, l’aumento della presenza di ibridi è palesemente da mettere in relazione alla conquista da parte del lupo di areali antropizzati dove era stato eradicato in tempi precedenti al secolo. Tale conquista è il risultato della scelta di non controllare la specie ma di lasciare a sé stesse le dinamiche di espansione territoriale. Una scelta ideologicamente lupofila che fa pagare (non paradossalmente) al lupo lo scotto della sua strumentalizzazione come bandiera ideologica, simbolo della "rivalsa della Natura" (utile, come già osservato, a continuare a distruggere gli ecosistemi ). Uno scotto che si traduce in una penalizzazione dell’integrità genetica del lupo vittima di un “successo biologico drogato” (agevolato), non controbilanciato dalla prudenza nell’evitare l’espansione in aree non storiche e non vocate contigue a quelle a forte antropizzazione.
Quella che dovrebbe risultare come l'unica novità del Piano, ovvero l'ammissione sul piano di principio della possibilità di attivazione delle deroghe che consentono l'abbarrimento legale del lupo si rivela in realtà sono come un tatticimo. Delle varie condizioni di attivazione delle deroghe (sono cinque) il Piano ne salva solo una (quella legata alla sicurezza e a gravi conflitti sociali). Si dimostra con ciò che la consistenza del lupo deve essere considerata variabile indipendente e che gli interessi economici degli allevatori sono una variabile dipendente. Il Piano non prende infatti in considerazione la fattispecie contemplata dalla Direttiva Habitat del “grave danno economico”. Sostituendosi al legislatore il Piano cassa questa previsione come "non fondata scientificamente" e sostanzialmente afferma che l’attivazione della deroga non deve essere messa in relazione alla pressione predatoria.
La teorica possibilità di ricorso alla deroga per consentire alla rimozione di singoli capi sottostà a tali e tante condizioni da determinarne di fatto l'inapplicabilità certa della previsione. Per di più, mentre in altri paesi europei con popolazioni lupine molto meno consistenti (sia in termini assoluti che di densità territoriale), si attua (o si cerca di attuare) un prelievo annuo del 10% (in Francia quest’anno è possibile abbattere 36 esemplari su una popolazione stimata di poco più che 300 capi e lo stesso vale in Svezia con il prelievo di 20 su 200), il Piano prevede che il numero di capi abbattuti non possa eccedere il 5% del valore della stima al ribasso. Per poter disporre di stime attendibili si richiedono spudoratamenre cospicui finanziamenti per studi e ricerche “complesse, lunghe e costose”. Necessarie evidentemente per continuare mantenere in efficienza lìipertrofica macchina lupologica vitaminizzata da 18 progetti Life. Così il numero di capi teoricamente ammissibili al prelievo sarà irrisorio. Di fatto, però, sarà praticamente impossibile trovare un comune che soddisfi contemporaneamente a tutti i requisiti incrociati previsti (presenza di danni sopra la media, monitoraggio, assenza di bracconaggio ecc. ecc.). Un modo, neppure troppo elegante, per prendere per i fondelli allevatori e pastori.
La “flessibilità” esibita (per la quale il Piano si autoelogia) è quindi solo di facciata, furbesca, non esiste. Servirà solo ad ostacolare il coagulo di consenso intorno alle popolazioni rurali e montanare che si oppongono alla diffusione del lupo. Servirà a contrastare l'erosione dell’accettazione sociale generica e senza cognizione dei reali termini del problema dei “Grandi predatori”. Questi ultimi sono oggetto di interesse e favore fin quando mitizzati, ma quando si materializzano come problema e minaccia concreta, non in remote “aree marginali” ma di aree con forte densità abitativa, l'atteggiamento del pubblico muta drasticamente.
I profeti, gli "imprenditori" dei Grandi predatori ignorano semplicemente che l’Italia è – nonostante i processi di urbanizzazione e la stasi demografica – un paese con una densità umana superiore di diversi ordini di grandezza agli sconfinati scenari nordamericani dove l’ideologia conservazionista, parchista, grandipredatorista si è sviluppata per essere quindi importata in Italia quale strumento di colonizzazione culturale e di trasformazione socioterritoriale, ovviamente nel senso gradito ai grandi interessi economici mondiali.
In questo quadro, in questa tela di ragno abilmente tessuta dalla lupocrazia, il problema del conflitto si risolverà con la sparizione in molte aree del paese dell’attività venatoria e pastorale. La politica deve dire oggi se è quello che vuole. Se non lo vuole deve cambiare registro e non lasciare all'autoreferenzialità della lobby il problema del lupo.