(23.12.14) Palatipico e FICO (la Disneyland del cibo) sono i progetti che nell'anno di Expo vedranno il sorgere di megastrutture che in nome del 'cibo tipico' trasferiscono nell'ambito alimentare le logiche della più spinta cultura di massa degradando le 'eccellenze alimentaro' vere o presunte a feticcio
Tra Modena e Bologna una corsa al business del 'tipico' che umilia le culture del cibo
di Michele Corti
Il cibo come cultura (e con esso le città e i luoghi della cultura come spazi antropologici) stanno uscendo umiliati da una corsa alla mercificazione spinta del 'cibo tipico'. Essa, in vista di Expo, conosce una prevedibile accelerazione, con progetti che non fanno nulla per nascondere la loro ispirazione arrogante e mercantilistica. Due di questi progetti hanno per protagoniste due città a meno di quaranta chilimetri di distanza: le "grasse e rosse" Bologna e Modena, uno ha una dimensione locale, l'altro è più ambizioso
La prima vittima
C' è già un vittima di questi progetti: la Palazzina dei Giardini a Modena una serra, gioiello dellāarchitettura barocca, voluta da Francesco I dāEste come quinta prospettica del giardino ducale. Nel 1981, lāAmministrazione Comunale la destinò al dialogo con lāarte contemporanea, assegnandola come sede espositiva alla Galleria civica ed è divenuta un luogo riconosciuto di mostre di arte contemporanea (122 per l'esattezza) .
Lunedì scorso senza preavviso il sindaco Giancarlo Muzzarelli ha annunciato che la Palazzina dei Giardini sarà requisita e assegnata da maggio a ottobre 2015 al consorzio Palatipico come sede del āVillaggio del gustoā, evento di gastronomia modenese che vuole sfruttare lāonda dellāExpo milanese. Appresa la notizia dalla conferenza stampa il direttore della Galleria ha prontamente rassegnato le proprie dimissioni dichiarando polemicamente:
ā¦sfrattare lāarte e accogliere i prodotti tipici (verso i quali non ho alcuna riserva, beninteso, anziā¦) significa, a me pare, prediligere unāimmagine di città a misura del turista consumatore, piuttosto che del cittadino consapevole .
Il direttore della Galleria ha ottenuto il sostegno di numerosi intellettuali e cittadini comuni ed è stata anche lanciata una pagina facebook e una petizione online. Chi contesta la decisione del sindaco (PD) osserva che in città esistono numerosi spazi vuoti. L'idea di voler utilizzare come āvetrinaā dei āprodotti tipiciā un luogo che si è acquistato una visibilità quale prestigioso spazio artistico nasconde in trasparenza una rozza idea di marketing: trasferire prestigio culturale ad un diverso contenuto sfruttando il contenitore. Operazioni che ā sia ben chiaro - sono del tutto legittime in altri contesti, dove è possibile far valere nessi funzionali tra luoghi storici, impregnati di valenze culturali e le culture del cibo, dove si può costruire una corrispondenza tra le diverse dimensioni culturali. In questo caso non c'è un dialogo tra funzioni e contenuti culturali ma una brutale sostituzione che ne mette in evidenza la strumentalità e la rispondenza a logiche puramente commerciali che non può che danneggiare l'immagine di Modena e, strategicamente, il richiamo del binomio tra arte, architettura da una parte e gastronomia dall'altro mettendo i due termini in contrapposizione.
Così si fa scadere il cibo a fatto non culturale, puramente mercantile
Il risultato di questa operazione è, a ben vedere, una deculturalizzazione del cibo, un depotenziamento del richiamo culturale del cibo. Cercando, sulla spinta della politica e della kermesse di Expo di occupare uno spazio culturale la cultura del cibo si autonega come realtà culturale tentando, abusivamente, di accedere ad una dimensione culturale 'rubata' a ciò che, invece, ha un legittimo status culturale: l'arte. Un autogol. Ma è l'autentica cultura del cibo la protagonista di questa sgangherata operazione? No. Ecco il punto.
Il āVillaggio del gustoā come viene definito (con scarsa originalità) l'allestimento che l'amministrazione comunale (l'assessore alla cultura è altrettanto entusiasta del sindaco) vorrebbe realizzare per Expo alla Palazzina dei Giardini verrebbe appaltato a Palatipico, una grande struttura per la promozione dell'agroalimentare modenese che dovrebbe essere realizzata nel 2015 e che disporrà già per l'Expo di una grande tensostruttura nel centro di Modena.
Palatipico
Palatipico è espressione del marchio PiacereModena che raggruppa le Dop e Igp modenesi più un circuito di ristorazione). Vale la pena notare che se dal punto di vista industriale e commerciale questa 'tipicità' è quella che produce i fatturati essa non può certo essere identificata con quelle espressioni di cultura alimentare.
L'aceto balsamico IGP di Modena, come non mancano di far osservare i modenesi (e anche altri emiliani) agli ospiti è un prodotto industriale che non ha nulla a che vedere con il prodotto frutto di pazienti, lunghissime e attente cure che è l'orgoglio delle famiglie che si tramandano la tradizione (e le acetaie) vuoi per autoproduzione che per produzione artigianale. La mitologià del āMuseo della lentezzaā (contrapposto a Maranello il āMuseo della velocitàā dovrebbe essere riferita all'autentico aceto balsamico, non a quello Igp ma viene utilizzata per promuovere l'Igp. Il mercato, però, ha la forza di cambiare le carte in tavola e l'Aceto balsamico di Modena Igp è un aceto di vino con aggiunta di mosto cotto d'va mentre per cercare (se si è disposti a pagarlo) un 'vero' Aceto balsamico (ossia un prodotto di lenta trasformazione del mosto) bisogna acquistare l'Aceto balsamico tradizionale Dop (nelle sotto denominazioni di Modena e di Reggio Emilia). Nessuno nega il diritto dell'industria di 'valorizzare' patrimoni di tradizione e di rinomanza locali, basta che il consumatore non venga confuso, frastornato che non si scambi (come fa comodo all'industria) un prodotto storico artigianale con la replica industriale. Passiamo al cotechino. L'Art. 2 del disciplinare recita: Il "Cotechino Modena" viene ottenuto nella zona tradizionale di elaborazione geograficamente individuata nellāintero territorio delle seguenti province italiane: Modena, Ferrara, Ravenna, Rimini, Forlì, Bologna, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Cremona, Lodi, Pavia, Milano, Varese, Como, Lecco, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona e Rovigo. Quindi Emilia, Romagna. Lombardia e Veneto. Come "modenese" non c'è male. E la materia prima? Art. 3. Materie prime Il "Cotechino Modena" è costituito da una miscela di carni suine. Orgine? Globale. "Modena", come "Parma" sono quindi dei brand di un mercato globale
FINI E' UN MARCHIO KRAFT
Tipicità istituzionale
Operazioni come Palatipico valorizzano la 'tipicità istituzionalizzata' quella che piace alla politica perché consente di relazionarsi con entità paraistituzonali come i Consorzi ma non avvantaggiano la produzione artigianale che, spesso con grandi difficoltà, destreggiandosi tra normative pensate a Bruxelles (ma anche a livello regionale) per l'industria agroalimentare e non per l'artigianato agroalimentare. Ma mantenere uno spazio per quel settore agroalimentare che riproduce le culture del cibo quale 'bene culturale' consente a tutto il sistema di conservare patrimoni e risorse da contrapporre all'americanizzazione del cibo a un sistema globale del food sempre più aggressivo e pervasivo, molto più osmotico con le strutture agroalimentari italiane (comprese quelle delle 'filiere tipiche') rispetto a quanto la retorica del made in Italy lasci supporre. Ed è abba stanza chiaro che nel venir meno di culture e identità legate alla produzione, alla trasformazione, al consumo e alla coerenza delle loro relazioni fa gradualmente scivolare il cibo made in Italy in cibo italian sound (sia quello prodotto all'estero, sia quello prodotto in Italia con materie prime globalizzate e una 'cosmesi' tipicizzante). Considerato che i marchi di grossi segmenti dell'industria alimentare sono già di proprietà delle multinazionali globali il rischio è concreto. Da tempo i marchi storici del settore carni e latticini sono di proprietà delle multinazionali. A partire dal modenese Fini (passato alla 'grande sorella' Kraft, la seconda 'padrona del cibo' mondiale dopo la Nestrè, nel 1993).
Un non luogo alle porte di Bologna
A meno di quaranta chilomentri da Modena, alle porte di Bologna un'operazione molto più ambiziosa sta decollando nell'ambito del CAAB, il Centro agro-alimentare di Bologna, una società a prevalente partecipazione pubblica (Comune, CCIAA, Regione, Provincia) anche se partecipata da Istituti di credito, Organizzazioni di categoria e operatori (ma a Bologna, si sa che ā pubblico o privato ā tutto ruota nella sfera di quello che lì chiamano ancora tutti āil Partitoā). Su spazi (prevalentemente) pubblici, grazie a investimenti privati, sorgerà la creatura più ambiziosa della megalomania di Farinetti, che ā almeno nelle intenzioni dell'esponente del capitalismo renziano ā dovrebbe proiettare la catena Eataly verso un ruolo primario nel retail italiano (largamente egemone se si considera il complesso Eataly-Coop). FICO è il nome ufficiale del progetto e l'acronimo (versione italiana e involgarita dell'onnipresente anglismo āsmartā) e sta per Fabbrica italiana contadina (sic), un ossimoro che svela l'eterno retropensiero comunista, anche nella versione surmoderna di un esponente del capital-comunismo (campione di sfruttamento del lavoro precario con la copertura politica di Pd e Cgil): irrididimentare i contadini in una fabbrica, disciplinare quelli che Marx definiva āun sacco di patateā. Sempre meglio, in ogni caso, essere presi per il collo da Eataly (il 'miracoloso' accesso ai grandi mercati è pagato dai piccoli produttori in termini di prezzi molto bassi delle forniture) che morire letteralmente di fame come è successo a decine di milioni di contadini cinesi, ucraini, kazaki ecc. durante i feroci processi di 'collettivizzazione forzata'. Il fatto è che con i prezzi al produttore riconosciuti da Farinetti i piccoli non vanno lontano.
Il luogo dell'eccellenza alimentare dove trovi Ferrero, Barilla, Peroni
Il business Eataly (anche prima di Bologna) è realizzato sulla base dell'utilizzo di spazi pubblici a condizioni 'favorevoli', il ricorso larghissimo al lavoro interinale, i vili prezzi riconosciuti ai produttori e l'uso dei prodotti artigianali come 'civetta' per attrarre il consumatore un po' snob (ma solo sommariamente acculturato in materia agroalimentare) per propinare un volume molto più importante di prodotti di massa e semi-massa (comunque industriali). I grossi produttori sono disposti a cedere a Eataly i loro prezzi a condizioni anche più giugulatorie di quelle imposte da Caprotti o dalle Coop in forza del ritorno di immagine. Non si tratta ovviamente dei grossi-grossi come Peroni, Barilla, Ferrero (1) ma di marchi magari noti solo a livello regionale. L'assioma funziona così: se da Eataly ci sono i prodotti di eccellenza e io vendo a Eataly posso vantare di essere un āproduttore di eccellenzaā. Sui canali principali del retail non funziona, ma in qualcuno si e così il grande produttore che vende a Farinetti ārientraā. In questo gioco Farinetti guadagna parecchio i grandi produttori non ci perdono. Da qualche parte (consumatori, piccoli produttori) qualcuno però ci perde perché non è un gioco a somma positiva.
La Disneyland del cibo
FICOè stato definito dallo stesso patron di Eataly āla Disneyland del ciboā, ovvero Eatalyworld un grande parco a tema con aspirazioni globali finanziato anche da capitali asiatici (2). Il riferimento senza tanti mimetismi a Disneyland che rappresenta per antonomasia il ānon luogoā della tarda modernità e non può che far storcere il naso anche a sinistra dimostra che il santone del business di Alba si sente ormai al sopra del male e del bene. Quando pochi giorni fa ha commentato l'interesse di Raffaele Cantone per l'aggiudicazione ad Eataly dei servizi di ristorazione dell'Expo ha commentato sdegnato che se c'è di mezzo Eataly una chiamata diretta equivale ad una gara perché Eataly è Eataly e ha di nuovo minacciato, dopo le accuse dei Cobas, di lasciare l'Italia. Ma cosa significa una Disneyland del cibo e cosa c'entra con i contadini e le culture del cibo? I non luoghi sono stati identificati da Marc Augé (3) spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Luoghi che si contrappongono a quelli antropologici. Nei luoghi sono luoghi la finalità è consumare e divertirsi in modo rapido, frenetico e in definitiva compulsivo. Ben difficile conciliare queste finalità con gli intedimenti pedagogici di Slow Food anche se la chiocciola mantiene un ruolo molto ambiguo svolgendo il ruolo di consulente di Eataly (pur avendo rinunciato ad essere socia intuendo il rischio di una completa cannibalizzazione da pare di Farinetti da cui Petrini in qualche occasione ha anche preso le distanze in modo abbastanza esplicito).
FICO proclama di voler rinchiudere la differenza delle mille culture italiane dentro la sua scatola. Nulla di nuovo perché racchiudere il mondo in un non luogo visitabile in pillole è uno dei filoni dei non-luoghi deve con altissimo livello di comodità tecnologica.
Il rischio (ma è una certezza) di Eatalyworld
In un non luogo non solo la percezione dello spazio ma anche quella del tempo viene distorta. Plastica espressione di un āeterno presenteā i non luoghi sono i luoghi dalla precarietà assoluta (non solo nel campo lavorativo), del transito e dal passaggio superficiale da un esperienza all'altra, da un individualismo solitario della folla che si accalca in queste āmacchine di consumoā. Le persone transitano nei non luoghi ma nessuno vi abita. Tutto all'opposto della dimensione del cibo culturale che rivendica una sua profondità storica, una ricchezza di relazioni, che presuppone il gusto della scoperta, dell'interpretazione, dell'accostamento graduale e rispettoso a realtà che si intendono comprendere e non solo consumare in fretta. Nulla parrebbe più agli antipodi di una Disneyland del cibo farinettiana dello Slow Food. Viene da chiedersi anche: quanto può diventare FICO distorsivo rispetto ad un approccio Slow alle culture del cibo territoriale, del cibo tradizionale. Quanto può rappresentare un surrogato che impedisce esperienze autentiche invece che stimolarle? Forse anche qualcuno a Bologna farebbe bene a chiedersi se FICO non sottragga, piuttosto che apportare, flussi turistici. Di certo con il suo modello centralizzato risponde bene a certe esigenze di business e ideologia di qualcuno.
Rural washing
Eataly e, a maggior ragione FICO, fanno parte di quei fenomeni che, sotto lāetichetta del local food, del cibo tipico, presunto artigianale, delle tradizioni ācontadineā reintroducono dalla finestra forme di āfeticismo della merceā, di reificazione, (ri)commodificazione ovvero in definitiva lāassorbimento del cibo locale in un ruolo di nicchia del mercato ā governato dalle stesse logiche di profitto - del cibo di massa, del divertimento e della cultura. Peggio ancora rappresentano forme di āesproprio della tipicitàā, operazione di marketing cosmetico, di rural washing che danneggiano pesantemente i produttori rurali e le loro comunità (4).
In un contesto in cui anche strati non marginali della popolazione italiana accusano difficoltà economiche nell'accesso ad una alimentazione adeguata ai fabbisogni nutrizionali, la trasposizone del movimento del cibo 'buono, pulito e giusto' (o quantomeno lo sfruttamento delle attese e delle sensibilità da esso suscitate) in iniziative imprenditoriali finalizzate ad alimentare mercati di alta gamma per una élite di consumatori assume una valenza morale discutibile (5).
Note
(1) Ferrero insieme a Lavazza e Marzotto è socia del fondo milanese Tamburi che ha notevolmente investito in Eataly tanto da aprire le prospettive per una discesa in borsa nel 2016.
(2) M. Monti, āFarinetti, Eataly in Borsa nel 2017. A Bologna la Disneyland del ciboā, in Il Sole24ore, 11.02.2014 (http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-02-11/farinetti-eataly-forse-borsa-2017-bologna-nasce-disneyland-ciboā175548.shtml?uuid=AB96tuv).
(3) M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
(4) M. Corti āAllegre pastorelle, pascoli fioriti e barbuti casari. Lāuniverso simbolico della comunicazione commerciale lattiero-casearia tra idillio e conflitto socialeā, in Latte & linguaggio, 1 (2014):70-103, Ravenna, Danilo Montanari editore.
(5) āSe la giustizia sociale non è al centro dellāattenzione, le Iniziative alimentari alternative (AFIS) rischiano di generare un sistema alimentare a due livelli in cui le iniziative imprenditoriali creano costose alternative alimentari di nicchia per chi se le può permettere e cibo a buon mercato per tutti gli altriā C. Z. Levkoe āTowards a transformative food politicsā, Local Environment, 16, 7 (2011):687-705