(02.01.13) La crisi ecologica è frutto di una concezione che vede la natura come separata dalla società, di un atteggiamento di dominio dell'uomo sul creato. Una nuova etica e un diverso ruolo della scienza sono indispensabili
Oltre l'ambientalismo istituzionale crescono nuove reti (II)
Ripensare la relazione
tra la società e la natura
di Michele Corti
L'affermazione di una gestione partecipata dei problemi ambientali e delle risorse è indispensabile per fronteggiare crescenti rischi e la tendenza tecnocratica a concentrare decisioni con pesanti implicazioni sociali nelle mani di pochi e sulla base di incerti presupposti scientifici. Per muoversi in questa direzione, però, è necessaria una profonda revisione di alcuni fondamenti ideologici della modernità e della "civiltà occidentale" e dello stesso ruolo della scienza.
Introduzione
Nella prima parte di questo contributo abbiamo preso in esame la componente oppositiva dei nuovi movimenti su scala locale che affrontano i problemi ambientali. Una componente che - come visto - che non esclude riferimenti a soluzioni alternative, più sostenibili, più socialmente eque nel contesto di una opzione tutt'altro che egoistica e individualista per modelli economici improntati alla sobrietà e alla condivisione.
D'altra parte se le comunità locali devono reagire per dire no, contestando scelte imposte dall'alto è perché i processi deliberativi avvengono escludendo la partecipazione, senza la ricerca del coinvolgimento, se non del consenso, di tutti i portatori di legittimi interessi. In molti casi si evita di lasciar filtrare neppure le informazioni.
La gestione dei sempre più pressanti problemi ambientali è largamente impostata ad un approccio "blueprint" (dall'alto) che assegna un ruolo determinante ai saperi esperti, agli scienziati, agli economisti, ai tecnologi. Per contrastare questa tendenza, premessa di restringimento dei già limitati margini di democrazia e di crescenti ingiustizie sociali e territoriali la conferenza della Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo (Unced) ha stabilito con l'Agenda 21 (21 sta per 21° secolo) di promuovere un cambiamento di rotta in favore di un nuovo approccio alla gestione dei problemi ambientali che implichi il coinvolgimento delle comunità, che tenga presente dei sistemi di conoscenza tradizionali, dei valori e gli interessi locali.
Uno dei prerequisiti fondamentali per il conseguimento di uno sviluppo sostenibile è l'ampia la partecipazione del pubblico ai processi decisionali. Nel contesto più specifico di ambiente e sviluppo è emersa la necessità di nuove forme di partecipazione. Ciò include la necessità che singoli, gruppi e organizzazioni partecipino alla valutazione di impatto ambientale trovi procedure, che conoscano le decisioni che vengono prese e partecipino alla loro elaborazione, in particolare quelle che possono compromettere la comunità in cui vivono e lavorano. Gli individui, i gruppi e le organizzazioni devono avere accesso alle informazioni rilevanti per l'ambiente e lo sviluppo da parte delle autorità nazionali, comprese le informazioni sui prodotti e le attività che possono avere un impatto significativo sull'ambiente, e quelle sulle misure di protezione ambientale. (Agenda 21, Cap. 23, comma 2)
Nonostante questi importati enunciati non è facile scalzare una prassi tecnocratica che intacca il potere delle burocrazie e delle strutture di potere scientifiche. Lo abbiamo già osservato nella prima parte dove si ricordava come l'Agenda 21 locale calata dall'alto per input delle istituzioni è l'esempio di una partecipazione limitata e distorta. Se, nonostante, l'adesione formale ai principi dell'Agenda 21, nonostante il consenso apparentemente unanime ai principi della sostenibilità, di una gestione partecipata delle risorse le prassi deliberative in materia ambientale continuano ad essere poco o nulla permeabili alla partecipazione, se – al contrario – gli approcci tecnocratici e forme di governance autoritaria nella gestione territoriale e delle risorse paiono affermarsi con più forza, sostenute molto spesso proprio dalle organizzazioni ambientaliste istituzionali e dalle cerchie di potere scientifico ad esse intrecciate ciò significa che vi sono dei potenti fattori culturali in azione. Che l'ideologia ma che è anche profondamente radicata nell'ideologia moderna, nell'ideologia occidentale.
Un dualismo radicato (società e natura)
Tutto poggia sulla visione di un natura e di una società separate, una separazione che a sua volta rimanda al dualismo tra anima e corpo, tra cielo e terra. Esso è assente nel pensiero tradizionale, nelle esperienze religiose (comprese quelle bibliche) ma si insinua nel cristianesimo e nella cultura occidentale attraverso l'inculturazione ellenistica e il pensiero gnostico con la sua svalutazione della dimensione terrena (la “una valle di lacrime”, l' “esilio terreno” ecc.). Una svalutazione del mondo, della terra, del creato che è a ben guardare in totale contraddizione con il fondamento della religione cristiana che non solo proclama Dio creatore ma anche che Dio si è incarnato quale verbo e sapienza. E che è però è ben radicata a dispetto della lotta a volte aspra e cruente contro le eresie che, scacciate dalla porta, rientrano immancabilmente dalla finestra.
Sarà comunque Cartesio a sancire in forma definitiva questo dualismo con la sua distinzione tra res cogitans e res extensa. La scienza moderna poggia sul presupposto di una realtà quale materia assemblata, quale meccanismo da "smontare" con la comprensione sperimentale e da "rimontare" in funzione delle finalità umane (gli OGM sono solo l'esito estremo di questo approccio).
La separazione tra fatti sociali e fatti naturali "oggettivi" garantisce alla scienza, che si muove nella sfera della realtà fattuale - inconfutabile se si seguono i metodi scientifici "corretti" - una grande autorità quando essa torna nella sfera sociale a proporre le sue soluzioni ai profani. Con una autorità sacralizzata superiore a quella degli antichi sacerdoti. Un "giochetto" messo bene in evidenza da Bruno Latour (2009).
La separazione tra sfera sociale e naturale operata sul piano della conoscenza, ha, però altri risvolti. La società industriale, grazie a questa separazione supposta, si è lanciata nella crescita illimitata. Per essa la natura era un elemento inerte da sfruttare nel modo più efficiente possibile per alimentare la crescita economica. Dal momento che la società e l'uomo erano "altro" le conseguenze dell'agire tecnico non avrebbero potuto ritorcersi contro l'uomo, contro la società. Una illusione fallace.
L'atteggiamento della modernità affonda le radici in un "peccato originale" di distorta lettura del Genesi
Era o no l'uomo il dominatore assoluto del creato nella concezione ditanta tradizione cristiana? Una distorta interpretazione della Genesi, con il corollario di un antropocentrismo radicale, ha contribuito non poco a fondare la legittimità dell'approccio moderno e industriale all'uso delle risorse. Una creazione concepita come un mero inizio, frutto di un intervento divino "una tantum", di uno start up, di una natura che poi evolve secondo le leggi dell'evoluzione e che non ha un suo senso, un suo valore, una sua dignità, una sua bellezza di fronte al creatore ma solo in quanto "messa a disposizione" dell'uomo centro, padrone e dominatore assoluto.
Questo atteggiamento è stato collegato all'affermazione di una scienza e di una tecnica occidentali - incubate nell'ambito della tradizione cristiana - che intervengono con mezzi di crescente potenza, sollevate da ogni scrupolo in forza proprio della missione di dominio e di trasformazione affidata all'uomo da dio. Agli albori del '68 la diffusione nelle culture giovanili delle religioni orientali e di atteggiamenti ecologisti portò a teorizzare la "colpa" del cristianesimo per una crisi ecologica che era già evidente mezzo secolo fa. Lynn White jr (1967), uno storico medievalista inglese affidò le sue riflessioni in materia a Science diede luogo a quello che è diventato ormai un luogo comune.
"Il cristianesimo, specie nella versione occidentale, è la religione più antropocentrica apparsa al mondo [...] il cristianesimo in assoluto contrasto con l'antico paganesimo e le religioni asiatiche (tranne, forse, lo zoroastrismo), non solo ha stabilito un dualismo dell'uomo e della natura ma ha anche insistito sul fatto che è per volere di Dio che l'uomo sfrutta la natura per i suoi fini".
Lo stesso White peraltro riconosceva l'esistenza di tradizionialternative nell'ambito di una realtà complessa e differenziata come il cristianesimo citando Francesco e proponendolo patrono dell'ecologia (lo divenne nel 1979 per opera di Giovanni Paolo II).
In realtà queste critiche al cristianesimo (al giudeo-cristianesimo) non sono nuove. C'è una tradizione di pensiero che attribuisce il carattere monoteista del giudeo-cristianesimo alla sua origine “nel deserto”, un ambiente dalla natura ostile e, almeno apparentemente, povera di varietà che spinge alla trascendenza e alla svalutazione della natura.
“La natura non ha gran posto nelle religioni semitiche: il deserto è monoteista, sublime nella sua immensa uniformità, rivela immediatamente all'uomo l'idea di infinito, ma non il sentimento di quella vita incessantemente creatrice che una natura più feconda ha ispirato ad altre razze”.
La celebre formula è di Ernest Renan ed è citata da Alain de Benoist (1984) che le riconosce un possibile nocciolo di verità.
Fortunatamente non tutta la tradizione cristiana merita i giudizi di coloro che hanno criticato la sua scarsa attenzione per la natura, da tempo rilanciati da una significativa componente della cultura ecologista e neo-pagana.
Una teologia della creazione di ben altro orientamento rispetto a quella dell'uomo dominatore si è fortunatamente tramandata presso il cristianesimo orientale e ha ripreso vigore anche in ambito occidentale grazie al teologo luterano Jürgen Moltmann (2007) e ad una riflessione in ambito ecumenico ma anche cattolico (Gosler, 1995; Boff, 2000; Morandini 1999, 2004; Bignami, 2012).
La rivalutazione della creazione la riconsidera quale realtà fatta vivere costantemente dal soffio vitale dello spirito e dalla sapienza divino, spirito che "respira" con l'universo e infonde il suo amore ("Credo nello Spirito Santo, che è Signore e da la vita"). La natura, per quanto distinta da Dio, è santificata, sacralizzata, divinizzata dalla presenza dello spirito di Dio. La differenza tra una natura-cosa e una natura-santificata (che pure convivono nella stessa tradizione cristiana) non è di poco conto. Grazie ad essa e grazie al crescente interesse in ambito cristiano per l'etica dell'ambiente, il ruolo dell'uomo nel creato è tornato quello di "saggio amministratore", di custode, chiamato a "coltivare" la terra in sintonia con il progetto del creatore. Il valore del resto della creazione non è sminuito dal ruolo dell'uomo così concepito. La natura non ha valore solo in funzione dell'uomo (antropocentrismo radicale) ma assume valore in relazione ad un uomo che la coltiva, la custodisce, la tutela in relazione al ruolo assegnagli (quale collaboratore del progetto di Dio). Non avrebbe però senso abbracciare un biocentrismo radicale che assegna un valore alla natura del tutto indipendentemente dall'uomo una volta che questo è entrato nel progetto di Dio. In proposito il Compendio di dottrina sociale della Chiesa (Pontificio Consiglio della Dottrina Sociale della Chiesa,2004) si esprime in questi termini:
460. L'uomo, dunque, non deve dimenticare che «la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro ... si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio».1 Egli non deve «disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l'uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire».2 Quando si comporta in questo modo, « invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell'opera della creazione, l'uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui».3 [1,2,3: Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 37: AAS 83 (1991) 840]
Il magistero cattolico sottolinea – come doveroso - la distinzione tra Dio e creato, ribadisce la natura non divina della creazione ma appare di contro ancora prudente di fronte alla rivalutazione teologica del valore della creazione quale realtà divinizzata, probabilmente per evitare equivoci di fronte all'emergere di tendenze neo-pagane fiorite sull'onda della crisi ecologica. Rispetto ai problemi pratici, ma di enormi implicazioni etiche si alternano posizioni coraggiose e profetiche ad altre ambivalenti (un esempio emblematico è rappresentato dagli Ogm). Di fronte alla drammaticità e ai rapidi sviluppi della crisi ecologica (e sociale) però la tradizionale prudenza della Chiesa potrebbe non essere adeguata.
Rimozione dei limiti
Quale che sia l'influenza di una (distorta) interpretazione dei fondamenti bliblici del rapporto del cristianesimo nei confronti della natura, la cultura occidentale ha finito per essere influenzata da una nuova religione: quella della scienza e del progresso. La nozione di tempo lineare e vettoriale propria del cristianesimo (anche se nella Bibbia esiste anche la nozione di tempo ciclico), il dualismo tra uomo e natura, lo status di “cose” attribuibile agli esseri viventi e senzienti dalle distorte interpretazioni bibliche, hanno rappresentato i presupposti per il pensiero di Cartesio e di Bacone. Il progresso della secolarizzazione nei secoli successivi ha condotto a quella concezione prometeica del ruolo della scienza e della tecnologia che deriva dalla rimozione di ogni fine trascendente dall'assolutizzare il progresso economico e tecnologico quali fini in sé.
Di qui la rimozione dei limiti posti dalla morale, ma anche l'illusione che la scienza, eretta de facto a divinità, possa essere in grado di superare ogni limite naturale.
Una espressione ingenua ma pericolosa è legata alla credenza che, trasformata la Terra in una pattumiera, l'uomo possa colonizzare altri pianeti, lanciarsi alla conquista del cosmo. Per adattarsi a ciò o per sopravvivere in una Terra divenuta inospitale e sterile l'uomo può comunque trasformare la sua “bassa” natura animale in una “pura natura angelica”. Non di tipo spirituale ma fatta di “intelligenza artificiale” e microchip. È la nuova versione della gnosi, evidentemente supportata dal fatto che già oggi l'uomo sta diventando un “ibrido” grazie alle protesi artificiali che rimpiazzano via via i vari organi. Ma questi sono i cascami pericolosi di un modo di pensare vecchio. Ha osservato Herman Daly (2001):
L'idea che la scienza e la tecnologia, avendo aumentato di molto il nostro potere, abbiano rimosso tutti i limiti, si avvicina a essere l'esatto opposto della verità. È anzi proprio perché scienza e tecnologia ci hanno dato così tanto potere che la scala dell'economia ha potuto crescere al punto di portarci a fronteggiare consapevolmente i limiti del creato: finitezza, entropia e dipendenza ecologica. La scienza può aiutarci ad adattarci a tali limiti nel miglior modo possibile, ma pensare che ci porterà a superarli equivale a rivendicare l'autorità di rifare il creato a nostra misura, anziché conservarlo e averne cura così come ci è stato dato da Dio.
Il porsi di fronte alle risorse naturali come qualcosa cui attingere nel modo più efficiente possibile per sostenere la crescita economica ha proceduto ha comportato la rimozione di ogni senso del limite, ben presente nelle culture tradizionali pre-industriali. L'azione umana, con l'acquisizione dell'uso del fuoco e l'avvento agricoltura non è stata ininfluente sugli equilibri ambientali globali (aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4) nel periodo tra 8000 e 200 anni fa è la tesi di Ruddiaman (2007) operando con mezzi tecnici infinitamente superiori per potenza a quelli delle società pre-moderne l'apparato tecnoindustriale ha operato nello spazio di due secoli un sconvolgimento di estensione a quelli realizzati in periodi lunghissimi. Si sono bruciati larghi depositi di carbone, petrolio e gas naturale ma si sono operate anche altre pericolose alterazioni con la deforestazione dei "polmoni verdi", con le grandi dighe, i fiumi deviati, gli insediamenti industriali inquinanti a compromettere le riserve di acque pure. Non a caso i più gravi disastri ambientali sono stati perpetrati da regimi che del "materialismo scientifico" hanno fatto la religione ufficiale. Emblematico quello del Lago d'Aral per la molteplicità degli impatti provocati (Micklin, 2007). Il lago d'Aral al confine tra l'Uzbekistan e il Kazakistan si è ridotto del 75%.
Per incrementare la produzione di cotone il regime sovietico attuò un progetto di deviazione dei due fiumi che si immettevano nel lago. L'acqua prelevata venne utilizzata per irrigare i campi delle neonate colture intensive delle aree circostanti. Oggi resta un deserto di sabbia salata e tossica per via delle enormi quantità di diserbanti che inquinarono irrimediabilmente il terreno circostante, tanto che ancora oggi le polveri inquinanti vengono sparpagliate ovunque dalle frequenti tempeste di sabbia, fino ai lontani ghiacciai dell'Himalaya. Il lago Baikal, il più grande serbatoio al mondo di acqua dolce è compromesso dalla cartiere che sorgono sulle sue rive. Abbiamo una scorta di acqua pura limitata e c'è chi fa di tutto per ridurla. Oltre alle industrie vi è il “contributo” dell'agricoltura industrializzata che rende non utilizzabili per il consumo umano grandi riserve idriche sotterranee a causa dell'uso dei pesticidi e della zootecnia intensiva che – spinta dalle sovvenzioni pubbliche a industrializzarsi, a concentrarsi in grandi unità con poca terra a disposizione – causa gravi fenomeni di dilavamento di nitrati.
La Terra in un famoso articolo di K.E. Bouling (1966) era paragonata ad una astronave lanciata nello spazio con un bagaglio di acqua, aria, terra, minerali ecc. predefinito, da far bastare al crescente equipaggio e senza speranza alcuna di poter fare rifornimento altrove. Da qui l’urgenza di razionalizzare, riusare, risparmiare e di metterci d’accordo su come distribuirci le risorse. Non è più possibile, sempre nella metafora di Bouling, insistere nella “economia del cow boy” che sposta perennemente in la la frontiera, il limite, che confida in risorse illimitate. Ma a ben guardare è così calzante lì ”economia dell'astronave”? La responsabilità verso le generazioni future non deve neppure indurci ad adottare scelte dettate da visioni catastrofiste (facilmente strumentalizzabili) e a sottovalutare la capacità di resilienza della Terra. Vi è i rischio concreto che una politica di rispetto dei "limiti" si traduca in una legittimazione di forma di ingiustizia a danno dei più deboli. Le avvisaglie non mancano.
Il legame negato tra società e natura che si ripropone con forza
L'interdipendenza tra la sfera sociale e quella naturale, negata dall'ideologia della modernità, riemenge per opera degli stessi sistemi tecnologici che hanno contribuito a creare quella che vari autori definiscono una “seconda natura” popolata anche di ibridi biotecnologici (Latour, 2009). L'uomo si trova sempre più spesso a vivere nel contesto di questa seconda natuta di questa "tecnonatura" . Ma se i confini tra sociale e naturale già incerti si dissolvono c'è anche un altro piano in cui la relazione sociosfera-biosfera diventa cruciale. Esso riguarda l'impatto delle “vecchie” tecnologie industriali, agricole, forestali, minerarie. C'è innanzitutto un effetto sommatoria, dovuto all'aumento delle delle combustioni, della produzione di rifiuti, dei consumi (in larga misura indipendente dall'aumento della popolazione come una certa vulgata insiste a far credere).
C'è poi una serie di effetti a cascata che riguardano le complesse catene di sconvolgimenti che si originano in una singola area del pianeta per manifestarsi in località a grande distanza. Un risultato di equilibri ecologici già compromessi e della sempre più fitta catena di interdipendenza economica che amplifica e diffonde gli impatti ambientali, i costi nascosti della globalizzazione che non sono computati dal PIL. Così li moltiplichiamo, ci impoveriamo sentendoci più ricchi perché paghiamo quattro soldi prodotti che fanno il giro del mondo. Il risultato è che in un mondo che appare sempre più piccolo e interconnesso l'impronta ecologica umana è sempre più grande e le conseguenze in termini di impatto sociale delle scelte (e non scelte) ambientali, sono sempre più gravi. Ogni vulnus all'ambiente si traduce in una qualche forma di ingiustizia a danno dei soggetti più deboli. Di qui la sottolineatura da parte della recente dottrina sociale della chiesa dell'esigenza di una Ecologia sociale quale unica e autentica forma di ecologia a fronte della fallacia di un biocentrismo radicale che, sottovalutando o ignorando gli impatti sociali, non esita a imboccare derive nichiliste e antiumanistiche, creando peraltro così il presupposto per il fallimento di politiche ecologiche durature. Ha detto Benedetto XVI (2009) nella sua enciclica Caritas in veritate:
"Ogni lesione della solidarietà e dell'amicizia civica provoca danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle relazioni sociali. La natura, specialmente nella nostra epoca, è talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire quasi più una variabile indipendente".
Con queste premesse con quale credibilità è possibile che degli esperti possano elaborare soluzioni “neutre”? È superabile l'empasse moltiplicando gli specialisti, sottoponendo a posteriori i loro risultati a una ratifica politica sempre svuotata di significato? La complessità dei compiti assunti dalla pubblica amministrazione e la moltiplicazione dei rischi legati allo sviluppo della civiltà tecnologica ha spinto sempre più la politica a fare affidamento sul supporto dei tecnici, degli scienziati. Con il risultato di svuotare la democrazia rappresentativa (peraltro già più apparente che reale) e dispianare la strada al trionfo dell'ingiustizia sociale a disparità sociali più accentuate di quelle delle vituperate società classiste e oligarchiche del passato.
Di fronte alla gravità dei problemi del cambiamento climatico e degli impatti ambientali globali il rischio è che decisioni sempre più importanti per tutta l'umanità vengano a dipendere da modelli, interpretazioni, schemi di soluzione (sapere è potere) elaborati nell'ambito di pochi laboratori concentrati nell'emisfero nord del pianeta e che un potere crescente risulti in capo a ristretti network di specialisti e tecnoburocrati che operano nell'ambito delle scienze ambientali.
I rischi sociali e ambientali delle politiche "verdi" sostenute dalla tecnocrazia e dagli interessi finanziari
Abbiamo già accennato al rischio di strumentalizzazione del catastrofismo e di una interpretazione troppo meccanica dell'esigenza di rispetto dei limiti. Kyoto e il l'obiettivo 20 20 20 sono stati pesantemente strumentalizzati da interessi forti che hanno approfittato dell'acceleratore sulle "rinnovabili" non solo per lucrare enormi profitti speculativi con le incentivazioni ma anche per utilizzare il grimaldello dei biocarburanti e delle biomasse per operare su vasta scala il land grabbing, l'acquisizione di enormi estensioni di terreno agricolo scacciando le comunità rurali (sfruttando l'incertezza dei diritti di possesso della terra) o mettendo a coltura terre vergini attraverso la distruzione di foreste, savane, torbiere. Gli impatti sociali ed ambientali imponenti di queste politiche "verdi" stanno inducendo a delle marce indietro la Commissione europea e gli Usa. Ma sono già stati prodotti grandi danni. L'urgenza di una democratizzazione e di un controllo dal basso di analisi, valutazioni, approccio ai problemi, soluzioni appaiono evidenti.
Il sostegno delle organizzazioni ambientaliste istituzionali a politiche "verdi" rivelatisi dannose per l'ambiente e socialmente inique e la loro partecipazione attiva alla governance tecnocratica delle medesime (o direttamente a funzioni di consulenza, progettazione, gestione) deve fare riflettere anche sulla necessità di mettere in discussione il ruolo, all'interno di processi decisionali o consultivi, di attori che dovrebbero assicurare un certo grado di partecipazione democratica ma che in realtà si traducono in un risultato opposto.
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