La maledizione della jatrofa

Il business delle società italiane (in prevalenza emiliane) punta alla jatrofa, una pianta non commestibile da cui si ricava olio. La jatrofa viene "venduta" come una pianta miracolosa che non compete con le produzioni di sussistenza e che, adattandosi a condizioni di semi-aridità contribuisce a fermare la desertificazione. In realtà, come dimostrano le esperienze delle società italiane in Senegal la jatrofa impone un modello di produzione intensivo che sottrae risorse (acqua e terra) per la produzione alimentare riducendo l'offerta agricola per il consumo interno, costringendo i paesi poveri ad aprirsi sempre di più ad un mercato internazionale dove, anche a causa della competizione con gli usi energetici, i prezzi sono in aumento. Nella crisi dei prezzi agricoli del 2007-2008 i biocarburanti hanno contribuito all'aumento dei prezzi in una misura che la Banca Mondiale ha calcolato del 70-75%, la Fao del 10-15%, l'OECD del 15-15%, l'International Food and Policy Research Institute del 25-30%. Per paesi che destinano al cibo il 50-70% del loro reddito questi aumenti rivestono un peso enorme.

Le conseguenze sociali vanno molto al di là della "bolletta alimentare", più cara, che i paesi poveri si trovano a pagare. Le enormi estensioni investite a monocoltura richiedono pochissima manodopera perché sono coltivate in forma estremamente industrializzata. Il sogno del capitalismo di stato sovietico, che prevedeva la creazione (con i primi piani quinquennali tra la fine degli anni '20 e l'inizio degli anni '30 del secolo scorso) di immense aziende agroindustriali statali di centinaia di migliaia di ettari, si sta realizzando all'insegna del capitalismo ultraliberista del XXI secolo.

Deportazioni

Il risultato è quello di un trasferimento, più o meno forzato di comunità rurali che sarebbe piaciuto a Stalin. Particolarmente gravi - e con molte analogie alla "collettivizzazione forzata" - i casi di deportazione in Etiopia a carico di intere etnie. Human Rights Watch ha denunciato che gli Anuak e  Nuer (70 mila persone) sono state fatte sloggiare dalle loro fertili terre verso le aree della carestia per onorare gli impegni del governo di Addis Abeba verso l'occidente. In altri casi la dislocazione delle comunità rurali - fermamente denuncaia a più riprese da papa Benedetto XVI - avviene in modo più soft. Attratti dalle false promesse degli intermediari delle imprese straniere i contadini cedono i loro pezzi di terra con il miraggio di un lavoro nei vivai, nei cantieri, come sorveglianti. Ma i posti di lavoro promessi nel business e nell'indotto sono spesso un'illusione. I grandi blocchi di superficie a monocoltura rappresentano ostacoli insormontabili per l'economia pastorale, bloccano le rotte della transumanza stagionale, impediscono l'accesso del bestiame ai fiumi.

Actionaid ha preso in esame il Senegal e la vicenda dell'investimento in colture da bocarburanti di due aziende in particolare ma è bene ricordare che chi investe in Senegal opera anche in altri paesi nel quadro di un business globale. La TRE, Tozzi renewable energy che in Senagal è stata protagonista di un tentativo fallimentare di coltivare 50 mila etteri di jatrofa, è presente - sempre con moduli da 50 mila ha anche in Laos e Madadascar. La NII (Nuove iniziative industriali) di Novara opera in Africa in quattro paesi (Senegal, Kenia, Etiopia, Guinea, su 850 mila ha. L'investimento in Kenia è stato bloccato dall'opposizione rurale locale spalleggiata da alcune Ong e da alcune organizzazione ambientaliste preoccupate delle conseguenze ambientali dell'operazione, la RSPB (Royal Society for Protection of Birds) e Birdlife internarional. Conseguenze legate alla monocoltura con la perdita connessa di biodivesrsità, con l'uso di pesticidi, dei fertilizzanti, di grandi quantità di acqua di irrigazione.

Una coltivazione di Jatrofa abbandonata: mordi e fuggi

Due esperienze disastrose: la TOZZI e la TAMPIERI

In Senegal la pretesa di investire grandi superfici si è scontrata con una serie di problemi legati alla struttura agricola locale, alla crisi dell'agricoltura di sussistenza. L'esito pesantemente negativo dei progetti della TOZZI Renewable Energy e della Tampieri Financial Group la dice lunga sull'approccio che guida questi investimenti guidati da alcune considerazioni astratte (basso costo della terra e della manodopera, rese sulla carta). Un approccio in cui le considerazioni sugli impatti sociali e ambientali hanno pochissimo pesa. Ma questa arroganza si paga. Nel 2009 la TOZZI stabiliva un accordo con il governo senegalese per la coltivazione di 50 mila ha di jatrofa , la produzione di 100 m3 di olio al giorno e la realizzazione di una centrale a biomasse da 30MW dagli scarti. La TOZZI si impegnava a promuovere l'occupazione e lo sviluppo rurale e a rispettare le necessità della sicurazza alimentare e il governo a garantire efficaci misure di sostegno alla realizzazione del progetto. Sin dal 2008 la filiale selegalese (Jatropha Technology Farm (JTF) individua la zona adatta nella comunità rurale di Nétéboulou nella regione di Tambacounda e inizia il dialogo con i contadini con la formazioen della GIE Fannafaa, un'organizzazione di produttori che avrebbe dovuto facilitare l'individuazione dei soggetti disponibili a cedere i terreni alla JTF.

Inizialmente la JTF intende coltivare direttamente con propri braccianti. Poi vista l'opposizione del Consiglio Rurale punta ad un accordo con l'organizzazione dei produttori che prevedeva per 45 la concessione alla JTF di tutto il raccolto di jatropha. Il Consiglio Rurale acconsente a provare la coltivazione su 500 ha ma nevengono coltivati solo 114. La cattiva qualità del prodotto e la crescita più lenta del previsto della jatrofa. Il risultato negativo viene imputato alla coltivazione su piccola scala e si punta a organizzare la produzione per blocchi di 50 ha chiedendo al Consiglio Rurale una superficie di 3000 ha. Ma il Consiglio la nega perché avrebbe significato decidere una cessione di terre utilizzate da abitanti del villaggio per la propria sussistenza. L'organizzazone dei produttori recupera comunque 1958 ha e prende contatto con la vicina Comunità di Ngoba Babacar dove alcuni villaggi parevano disponibili a coltivare la jatrofa. Così il Consiglio Rurale di Ngoba Babacar approva una domanda di concessione per 2000 ha. Ancora una volta, però, i risultati non sono soddisfacienti.  Così la JTF decide di cambiare ancora strategia concentrando tutto su un'unica grande superficie. Il contratto che doveva durare 45 anni con l'associazione produttori viene interrotto e il vivaio abbandonato. Le operazioni si spostano allora nel villaggio di Ndémpou Mamadou pr coltivare 2 mila ha assegnati dal Consiglio rurale.

Bloccati dal Servizio forestale

Il dissodamento del terreno viene iniziato nel 2011 ma viene interrotto dal Servizio Forestale della regione che accusa la JTF di aver violato le norme sul disboscamento.  Così l'azienda interrompe l'investimento lasciando dietro di sé una serie di impatti negativi e molte polemiche con tanti contadini che si proclamano raggirati dalla JTF. La serie di insuccessi in cui è incappata l'azienda emiliana in Senegal mette bene in evidenza come essa abbia proceduto in assenza di serie valutazioni del contesto agricolo, sociale e ambientale. Tre le conseguenze la perdita irreversibile di diritti fondiari per molti contadini. L'interruzione del progetto ha lasciato senza gli stipendi loro dovuti parte del personale. Nel villaggio di Saré Dady nella Comunità rurale di Ndoga Babacar l'introduzione della jatrofa come coltura intercalare (con il miglio) si è rivelata un disastro perché la distanza tra le file era stata del tutto mal calcolata e c'è stata una perdite del 60-75% della produzione di miglio indispensabile cibo per le famiglie coltivatrici. Lo stesso problema si è presentato in altri tre villaggi.

La serie infinita di problemi sollevati dai reiterati tentativi di mettere a coltura anche solo poche centinaia di ettari consente di farsi un'idea di quelle che sarebbero state le conseguenze sulla sicurezza alimentare e gli equilibri ecologici della prevista monocoltura su 50 mila ettari programmata dalla TOZZI.

 


La jatrofa in coltura intercalare soffoca il miglio coltivato quale

coltura di sussistenza

La TAMPIERI prococa tensioni sociali gravissime

L'altra vicenda oggetto di indagine da parte di Actionaid riguarda la TAMPIERI. In questo caso l'obiettivo dell'impresa era la coltivazione di girasole su 20 mila ha nel Nord del Senegal nel dipertimento di Podor. Il progetto inizialmente prevedeva l'uso della patata dolce per la produzione di bioetanolo. Il caso del girasole della TAMPIERI è balzato ai disonori della cronaca internazionale in occasione dei "fatti di Fanaye" quando gli scontri tra sostenitori e oppositori del progetto, acuiti dalla rivalità tra le fazioni del Partito Democratico al potere, portarono alla morte di due persone e al ferimento di altre (26 ottobre 2011).

Le ruspe spianano i terreni per la coltivazione del girasole

 

Nel marzo 2011 il presidente del Consiglio rurale di Fanaye firma un protocollo con la Senethanol (società a capitale misto italiano e senegalese) per la realizzazione di una superficie per la produzione di seme di 300 ha in vista dell'investimento di 20 mila ettari. A questo punto si inserisce la TAMPIERI, un gruppo di Faenza lader nella produzione di oli raffinati che con la Senethanol costituisce la Senhuille finalizzata a produrre girasole. L'obiettivo era la produzione di 180 mila tonnellate annue di semi di girasole da esportare interamente in Italia. Da subito nel Consiglio rurale scoppia l'opposizione che il presidente cerca di rintuzzare con il ricorso alla polizia. L'esito degli scontri è stato, come si è visto, tragico. Dopo gli scontri il presidente è costretto a inconrare il Comitato per la difesa della terra di Fanaye e il progetto è (momentaneamente) annullato.

 

 

Conseguenze devastanti per l'economia agropastorale

 

Il progetto, come era stato proposto, si sarebbe mangiato il 32% della terra coltivabile e destinate a pascolo della Comunità rurale e avrebbe costretto ad abbandonare le proprie sedi gli abitanti di 56 piccoli insediamenti e di 6 villaggi nonché la scomparsa di pascoli, laghi e foreste.I contadini si sarebbero trasformati in braccianti e bel 10 km di monocoltura avrebbero impedito l'accesso ai pascoli e al fiume distruggendo l'economia pastorale. Sarebbero state eliminate coltivazioni famigliari di miglio, meloni, fagiolini e di altre produzioni locali che rappresntano una fonte di reddito per le donne che le portano ai mercati. L'avvio delle operazioni di spianamento ha impedito il pascolo e interrotto le vie della transumanza. E questo solo per un'inizio, abortito, di creazione dei campi per la produzione della semenza. Inoltre si è compromesso un progetto di rimboschimento ideato per fermare la dersertificazione.

La popolazione non aveva abboccato alle sirene colonialiste che promettevano 2.500 posti di lavoro. Non si capisce come visto che le operazioni colturali sarebbero state supermeccanizzate. Ma la partita non si è chiusa.

 

Il rilancio del progetto e la nuova ondata di proteste

 

La vicenta di Fanaye, però, non si è chiusa. Le Senethanol non è assolutamente disposta ad abbandonare il progetto. Quello che non si è riusciti ad imporre immediatamente forse lo si otterrà lo stesso. Il Comitato che lottava contro il progetto si è ammorbidito con la prospettiva della creazione di 10 mila posti di lavoro (come?) e quella di una sua partecipazione alle misure di controllo. Molto più probabilmente ci si è forse decisi a praticare forse un'azione di "convincimento" (con i mezzi che si usano in questi casi) non più nei confronti di pochi notabili ma di una cerchia più ampia di persone con influenza sulla comunità. Diventa difficile credere che un progetto respinto in quando disastroso possa miracolosamente diventare "sostenibile".

Infatti dopo che in estate era apparso possibile un "compromnesso" la rivolta contro la Senhuile è tornata a divampare come testimoniano le notizie di questi giorni. Si parla di proteste e dell'arresto di nove persone (tra cui due guardiani) che hanno dato fuoco a delle strutture degli impianti di irrigazione nel villaggio di Sain Louis.

 

 

Conclusioni

 

Il colonialismo italiano delle biomasse, come si vede, non si fa certo molti scrupoli. È pronto a distruggere delicati equilibri sociali, agroecologici, a sacrificare la biodiversità, a compromettere le risorse preziose per il futiro: terra non inquinata e isterilita e acqua. Le responsabilità sono ovviamente anche di chi a livello locale detiene il potere ma è evidente che la fragilità e la corrompibilità delle élites locali, ben nota, rappresenta un elemento che non assolve le imprese straniere. Esse, semmai, dovrebbero essere particolarmente attente a far si che le popolazioni realmente inteerssate ai progetti abbiano accesso all'informazione su quanto viene messo in cantiere e non siano espropriate della possibilità di dire la loro quando non dello stesso diritto alla terra.

La lotta contro l'uso delle biomasse a fini energetici che viene condotta in Italia è condotta in sintonia con le comunità rurali dei paesi poveri e protegge non solo la salute dell'ambiente e delle nostre comunità ma anche le comunità africane e di altri continenti ed ecositemi e agroecosistemi particolarmente vulnerabili.