(12.04.13) Tra le ragioni che spiegano l'aumento di forme tumorali e la diminuzione della fertilità maschile è stato chiamato in causa l'aumento del consumo di latte e di latticini. Secondo diversi ricercatori i responsabili sarebbero gli estrogeni del latte
Alimentazione, cancro, fertilità maschile
di Michele Corti
il ruolo del latte bovino "moderno", la necessità di ridurne il consumo e la superiorità del latte caprino
Le crescenti prove sul legame tra prodotti di origine animale e gravi patologie vanno di pari passo con la consapevolezza che l'industria zootecnica contribuisce in modo determinante al deterioramento degli agroecosistemi con gli impatti sulla qualità dell'aria, dell'acqua, del suolo e con il contributo alle emissioni climalteranti e all'esaurimento delle riserve di energia fossile facilmente accessibili. Di qui la crescente presa degli appelli al passaggio alla dieta vegetariana, la previsione che, entro la metà del secolo, l'umanità - volente o nolente - dovrà essere tutta convertita all'astensione dalle carni se non a tutti i prodotti di origine animale.
Si tratta di messaggi sbagliati perché i prodotti e i sistemi di produzione animale non sono tutti uguali: quelli prodotti nell'ambito di sistemi agroecologici - consumati in quantità moderate - migliorano il benessere e la salute dell'uomo ma contribuiscono anche alla piena sostenibilità dei sistemi produttivi stessi (come riconoscono i metodi di agricoltura naturale a partiure dalla permacoltura).
Relazioni tra consumo di latte bovino e incidenza di forme tumorali
L'elevato consumo di latte bovino e derivati è indicato da tempo quale causa dell'aumento dell'incidenza di disturbi della sfera riproduttiva maschile ma anche di varie patologie oncologiche in particolar a carico della prostata ma anche del testicolo e della mammella. Questi aspetti negativi sono legati all'elevato contenuto di estrogeni di origine placentare presenti nel latte bovino "moderno" legato alla coincidenza tra lattazione e fasi avanzate della gravidanza.
Una relazione tra estrogeni, latte e sviluppo spontaneo di tumori mammari negli animali da laboratorio era stata individuata già prima della seconda guerra mondiale (Bittner, 1942).
In tempi recenti sono state sia le evidenze di analisi epidemiologiche che di ricerche di laboratorio che hanno portato non solo a rafforzare l'ipotesi del ruolo degli estrogeni nel latte nell'incidenza del tumore mammario ma ad individuare possibili relazioni con l'infertilità e i tumori maschili (prostata e testicolo).
La grande differenza nell'incidenza del tumore alla prostata tra Occidente e popolazioni asiatiche che notoriamente hanno bassissimi consumi di latte e latticini ha indotto ad approfondire gli studi nell'ambito degli Usa e dei paesi europei. Uno degli studi più significativi è stato realizzato a Milano (La Vecchia et. al., 1991). Da questa indagine emergeva come il consumo di oltre due bicchieri di latte al giorno aumentava il rischio di sviluppo di tumore alla prostata di 5,1 volte rispetto ai non bevitori di latte. Il maggior consumo di latte e latticini è stato anche associato al tumore ovarico. In Svezia si registra la più alta incidenza al mondo di tumore ovarico. Qui uno studio ha mostrato che le donne che consumavano più di quattro porzioni al giorno di prodotti a base di latte vedevano raddoppiato il rischio di sviluppo di tumore ovarico rispetto alle donne che consumavano meno di due porzioni (Larsson et al., 2004)
Una delle più clamorose evidenze del rapporto tra dieta lattea e sviluppo delle principali forme tumorali (mammella e prostata) viene dal Giappone, un paese che, prima della seconda guerra mondiale non consumava quasi lattici. Dalla fine della guerra ad oggi il consumo di questi prodotti è aumentato di 20 volte mentre il tasso di mortalità dovuto al tumore alla prostata è aumentato di 13 volte, ad un ritmo senza uguali nel mondo (Ganmaa et al., 2002).
L'aumento dell'incidenza delle patologie tumorali è stato altrettanto rapido. Da 1374 morti per tumore mammario nel 1948-1952 si è passati a 7589 morti nel 1993-1997 (Li et al., 2003).
Figura 1 - Andamento dei consumi alimentari pro capite relativi al 1955 in Giappone
Figura 2 - Andamento della mortalità (corretta per l'età) per cancro alla prostata in Giappone nel dopoguerra
Le figure 1 e 2 sono riprese da Ganmaa et al. (2001).
La conferma da parte di diversi studi di questa relazione induceva ad identificare la componente del latte alla base del problema. Dopo una serie di indagini che chiamavano in causa il ruolo dei grassi uno studio condotto su 41 paesi da Grant (1999) puntava il dito contro componenti del latte diverse dai grassi. Gli estrogeni apparivano un candidato ideale. Sharpe e Skakkebaek (1993) avevano ipotizzato che gli estrogeni potessero essere responsabili di oligospermia e disturbi dell'apparato genitale maschile e dal momento che il 60-80% degli estrogeni assunti con la dieta derivano dal latte (Hartmann et al., 1998) diveniva logico associare il rischio di carcinoma prostatico con gli estrogeni del latte pur tenendo conto che nel latte sono presenti altri ormoni, fattori di crescita e altri peptidi che potrebbero rivestire un ruolo nello sviluppo del tumore prostatico (Janssen et al., 1996, Wang e Wong, 1998; Untergassen et al. 1999).
Un problema legato allo stadio di lattazione
Nel siero di latte di vacche non gravide si trovano circa 30 pg / ml, estrone solfato nella frazione di siero di latte di vacche non gravide (Heap e Hamon, 1979). Durante la gravidanza, tuttavia, questi livelli salgono a 151 pg/ml trail 41esimo e il 60esimo giorno di gravidanza, e raggiungono i livelli massimi di circa 1000pg/ml tra i 220-240 giorni di gestazione. I valori di estrogeni in circolo nelle vacche non gravide durante l'ovulazione sono, al picco, parecchie centinaia di volte inferiori a quelle vacche in gravidanza secondo Gyawu e Papa (1983). I ricercatori della Pennsylvania State University hanno dimostrato che le concentrazioni di estrone sonopari in media a 0,6, 7,9 e 27,1 pg/ml rispettivamente nel primo, secondo e terzo trimestre di gravidanza, mentre i livelli di estradiolo a 0,3, 0,9, e 5,0 pg/ml (Pape-Zambito et al., 2008). Alcuni ricercatori olandesi hanno scoperto che le concentrazioni di estrone e di estradiolo nel latte aumentano rispettivamente più di 16 volte e di 2,5 volte tra il primo e il terzo trimestre di gravidanza (Malekinejad et al., 2006). Molto eloquenti i dati riportati da Quin (2003) relativamente all'aumento della concentrazione di estrone solfato nel latte vaccino nel corso della gravidanza (figura sotto).
Figura 3 - relazione tra giorni di gravidanza e concentrazione di estrone solfato nel latte vaccino Quin (2003)
Purtroppo la concentrazione degli estrogeni nel latte vaccino messo in vendita al consumatore resta elevata perché i trattamenti termici non sono in grado di inattivare questi ormoni (Qin, 2004). Le considerazioni sopra esposte hanno portato Ganmaa et al. (2001) a concludere che:
[...] in ragazzi in età prepuberale nel periodo critico dello sviluppo sessuale in eccesso consumo di latte e prodotti lattiero-caseari possono interferire con lo sviluppo fisiologico del sistema riproduttivo e determinare una ridotta qualità spermatica in età adulta.
"Ma il latte si è sempre consumato!"
Molte persone si scandalizzano quando si fanno loro presenti gli inconvenienti legati al consumo di latte e latticini e replicano che il latte è un prodotto naturale, di grande valore nutrizionale e protettivo dal momento che la sua funzione è alimentare i piccoli dei mammiferi e difenderli in una fase cruciale dello sviluppo. Anche di fronte alla considerazione che l'uomo è l'unico, mammifero che si nutre di latte si tende a rispondere che da migliaia di anni ci sono popolazioni pastorali che si nutrono di latte e che sono spesso invidiate per la loro forza e salute.
Ma queste considerazioni sono pertinenti quando si tratta di valutare gli effetti del consumo del latte bovino prodotto nel contesto degli attuali sistemi di allevamento industriale? Innanzitutto il consumo di latte da parte degli adulti non è universale nell'uomo ma è limitato a quelle popolazioni che, in seguito ad una modificazione genetica hanno fissato nel loro patrimonio ereditario la capacità di sintetizzare la lattasi, un enzima necessario per scindere il lattosio del latte in zuccheri semplici e consentirne l'assorbimento intestinale.
Va però detto, innanzitutto, che questa modificazione è avvenuta piuttosto lentamente nel corso di svariati millenni. Non è stato insomma un adattamento facile. Pertanto non è vero che da 8.000 anni i nostri antenati europei bevono latte senza problemi. Lo studio del Dna ricavato da scheletri del mesolitico e del primo neolitico dimostra che la variante genetica per la produzione di lattasi anche in età adulta era assente (Burger, 2007). Una scoperta che avvalora l'ipotesi di una selezione adattativa a favore del carattere di lattasi persistenza insorta dopo la diffusione dell'allevamento e l'inizio dello sfruttamento del latte e dei latticini.
Ancora più rilevanti ai fini della nostra discussione sono altri interrogativi: il latte consumato dai nostri progenitori era lo stesso che consumiamo oggi. La risposta è senz'altro negativa per due motivi: 1) il latte bovino consumato anche sino a non molte generazioni fa era profondamente diverso da quello attuale; 2) per una lunga fase della storia umana sono stati utilizzati in modo molto più rilevante che oggi anche latti diversi da quello bovino. Oggi nel mondo si consuma per l'85% latte bovino e solo per il 2% latte caprino o ovino. Ma è ben noto che in molte comunità rurali altri latti (non solo capra e pecora ma anche renna, yak, camelidi, bufali, equini) erano consumati di più del latte bovino, spesso in modo esclusivo.
Il periodo di lattazione "naturale"
Quale sia la lunghezza della lattazione "naturale" ce lo dice la fisiologia dell'allattamento. Il vitello utilizza il latte materno sino a 6 mesi anche se già dopo poche settimane inizia a consumare foraggio e questo diventa l'alimento preponderante verso la fine dello svezzamento contestualmente alla diminuzione della secrezione mammaria.
La capacità produttiva delle diverse razze quando la produzione è utilizzata totalmente dal vitello varia entro limiti abbastanza contenuti. Confrontando vacche nutrici (allattanti il vitello) di 9 razze, da carne e a duplice attitudine, la produzione in 210 giorni di lattazione variava da 1200 (Hereford) a 1800 (Braunvieh = Bruna originale) con produzioni al picco varianti tra 8,5 (sempre Hereford) e 11,9 (sempre Braunvieh) kg al giorno. Sei mesi di lattazione e produzioni di 1500 kg possono ritenersi "naturali" in bovine di ceppo europeo mentre lattazioni più brevi e produzioni ancora più ridotte sono normali in razze e ambienti extraeuropei (le razze zebuine africane presentano lattazioni di 3-4 mesi e produzioni di 2-300 kg di latte). Quello che è indiscutibile è che la produzione di latte in gravidanza avanzata non appare come "naturale".
Vacche e latti di ieri e di oggi
Nella realtà contadina tradizionale la vacca era spesso un animale da lavoro e le produzioni di latte erano molto modeste con lattazioni decisamente più brevi di quelle delle moderne "macchine da latte".
Nella nostra montagna alpina (almeno sino alla seconda metà del XIX secolo) le vacche in inverno erano asciutte e vi restavano per diversi mesi, sino ai parti primaverili (la monta avveniva in alpeggio d'estate). Il foraggio invernale disponibile per le vacche era limitato perché tutti i terreni migliori in prossimità dei villaggi e i versanti terrazzati erano utilizzati per la coltivazione di cereali, patate, legumi. Così le vacche ricevevano spesso “fieni selvatici” raccolti in alta montagna e nei boschi e da foglie di essenze arboree secche ma si ricorreva anche a foraggi di scarsissimo valore come i rami di brugo. Questi alimenti non avrebbero potuto sostenere la produzione lattifera.
Le cose cambiarono a fine XIX con l'apertura all'economia monetaria che ridusse la necessità della coltivazione dei cereali e aumentò la disponibiltà di fieno consentendo di sfruttare la produzione di latte (che veniva spesso lavorato dalle nuove latterie sociali) anche in inverno. Ancora all'inizio del secolo scorso le produzioni di latte vaccino della montagna lombarda si collocavano tra i 10 e i 15 q.li di latte mentre in pianura salivano a 20-25. Una produzione da mettere a confronto con gli attuali 100 q.li. La lunghezza della lattazione è andata gradualmente aumentando (per arrivare a 340 giorni) mentre il periodo di asciutta è sceso da diversi mesi ai "canonici" 65 giorni e, oggi, può essere limitato a 40 giorni. Il risultato è che si produce latte nell'ultima fase di gravidanza. Tutte queste trasformazioni sono state sostenute dalla drastica modificazione della razione alimentare che ha gradualmente sostituito i foraggi con alimenti a forte contenuto energetico e proteico (cereali, sottoprodotti dell'industria alimentare, semi oleosi, farine proteiche) e dall'impiego di integratori.
La superiorità del latte caprino
Il latte caprino è sempre stato oggetto di apprezzamento da parte della sapienza contadina e la pratica dello svezzamento con il latte di capra nel mondo alpino (spesso assunto direttamente dal capezzolo dell'animale) è cessata solo negli anni '70 del secolo scorso. Il latte caprino era associato a virtù "medicinali" e, sino alla metà del XIX anche la scienza medica e pediatrica ufficiale concordava con questi apprezzamenti (Corti, 2006). Nella Pianura padana - dove la produzione di latte vaccino iniziò ad aumentare lentamente con la diffusione dell'irrigazione a partire dal XIII secolo - sino al XIV secolo la maggior parte del latte e derivati erano ottenuti da capre e pecore (Corti, 2007). In tutta Europa fu solo con l'età moderna che si affermò la supremazia dell'allevamento bovino da latte e che la capra iniziò ad essere oggetto di marginalizzazione, sino a divenire la "vacca del povero". Persino in un paese come l'Inghilterra, che ha riscoperto solo in tempi molto recenti le qualità del latte di capra, il suo consumo era generalizzato sino al medioevo ed è declinato in relazione all'aumento di importanza dell'allevamento bovino, più precoce che in altre parti d'Europa (Albarella, 1997).
La modernità ha poi gradualmente ridotto o persino eliminate le capre da molti paesi europei ma a sfatare lo stereotipo della capra animale esclusivamente mediterraneo va ricordato come la Norvegia rappresenti uno dei paesi con più radicate tradizioni di allevamento caprino e di consumo di derivati del latte di questa specie.
L'unico vantaggio del latte bovino rispetto a quello caprino è che si può produrre più facilmente in grandi quantità con pochissimo impiego di manodopera ma molti investimenti in capitrali e tecnologia (oggi vi sono fabbriche del latte con 2mila Frisone munte con i robot. Per il resto il latte caprino ha una serie di vantaggi indiscussi:
1) è più ricco di acidi grassi a media catena che posseggono proprietà anti-batteriche e antivirali, possono essre assorbiti facilmente dall'intestino mentre riducono l'accumulo di colesterolo (Shingfield et al., 2008);
2) è più ricco (come il latte umano) di oligosaccaridi (Martinez-Ferez et al., 2005) con proprietà anti-infiammatorie nei confronti della mucosa del colon (Daddaoua et al., 2006)
3) è più ricco di nucleotidi che vengono aggiunti nei latti "umanizzati" in quanto favoriscono lo sviluppo del sistema immunitario;
4) è più ricco di azoto non proteico (come il latte umano) facilmente assimilabile;
5) consente un migliore assorbimento del ferro e del rame (Borronievo et al., 2002;
6) la maggior parte dei problemi di allergia al latte vaccino è risolta con la sua sostituzione con il latte caprino utilizzato anche nella cura di disturbi digestivi (Park, 2004);
7) è più digeribile del latte vaccino in relazione alla minor dimensione dei globuli di grasso, alla percentuale più elevata di acidi grassi a corta e media catena, alla minor consistenza del coagulo che si forma nello stomaco per precipitazione della caseina
Va aggiunto che tutt'oggi le capre sono spesso alimentate al pascolo e che il particolare comportamento della capre che si nutre di moltissime essenze arboree ed arbustive (a differenza del bovino e dell'ovino che consumano al pacolo prevalentemente graminacee viene considerato uno dei motivi per cui il latte caprino rappresenta una vera e propria "farmacia". Per l'approndimento di queste tematiche e delle altre proprietà nutrizionali e dietetiche del latte caprino si rimanda a recenti rassegne bibliografiche sul tema (Haendlein, 2004; Silanikove et. al., 2010).
Un ulteriore vantaggio del latte di capra
Le preoccupazioni circa il ruolo negativo degli estrogeni nel latte vaccino alla luce del rischio oncologico e della ipofertilità maschile non possono che far guardare con ancora maggiore interesse al latte e ai latticini caprini. La ragione è semplice Nella capra la lattazione dura solo 5 mesi (contro i 9 della bovina) ed è molto più breve (200-250 giorni confrontati ai 340 delle moderne "macchine da latte"). Così le capre cessano di produrre latte prima dell'inizio della gravidanza o, al massimo, all'inizio della gravidanza quando la concentrazione di estrogeni nel latte è ancora molto bassa.. In aggiunta alle innumerevoli proprietà dietetiche e salutistiche del latte di capra questo aspetto dovrebbe consigliare una più vasta sostituzione del consumo del latte vaccino con latte caprino, non solo nella prima infanzia, ma anche, in modo particolare, nei ragazzi nella fase pre-pubere.
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