(20.01.13) Da oltre trent'anni la capra è protagonista di un revival che non passa di moda. Oggi, di fronte ad una crisi profonda e a un deciso "ritorno alla terra" è venuta l'ora di riconoscere il valore sociale di questo fenomeno rurale
Benedette capre.
Elogio di capre e caprai
di Michele Corti
Sfidano una burocrazia che - in tempi di crisi - continua a mettere i bastoni tra le ruote all'autoimprenditorialità giovanile, sono costretti a muoversi nelle strutture di un "mondo agricolo" che non è a "misura di capre", sono considerati ancora un "comparto minore". Sono i giovani e meno giovani neocaprai che ridanno vita a borgate abbandonate, che creano piccole filiere locali agroalimentari nel deserto creato dagli ipermercati. Ed è ora di riconoscere loro un ruolo di protagonisti della nuova ruralità
Solo qualche anno fa ritenevo che il settore avesse raggiunto una sua dimensione "fisiologica", che si stesse assestando e che - in definitiva - fosse più interessante dedicarsi a nuovi problemi. Ho continuato ad interessarmi di capre ma senza assegnare loro quella centralità che gli avevo riservato dagli "eroici" anni '80 in poi.
Da qualche tempo, negli ultimi mesi, nelle ultime settimane, una serie di informazioni, di considerazioni mi hanno indotto a ricredermi. Le capre e i caprai rappresentano tutt'oggi una "prima linea" di una ruralità che ha diritto e bisogno di riconoscimento. Specie in tempi di crisi, di disoccupazione giovanile, di fuga dei (pochi) giovani all'estero.
Non solo montagna
Se si prendono in esame le nuove iniziative agricole non si può fare a meno di constatare che i "neorurali" (non stiamo parlando di quelli snob del casale ristruttutato dalle archistar) si indirizzano verso la viticoltura (spesso bio, biodinamica, naturale) o l'allevamento caprino. Il secondo è scelto prevalentemente in montagna (a fianco di piccoli frutti, erbe officinali e poco altro) e di questo ci occupiamo spesso su Ruralpini. Però il rilancio dell'allevamento e delle tradizioni di trasformazione del latte caprino ha trovato un suo spazio anche nelle "terre alte" di collina dove non arriva la viticoltura. Pensiamo al rilancio dell'allevamento caprino nella fascia dall'alta Langa all'oltrePo pavese, con aziende come La Masca a Roccaverano (AT), il Boscasso della milanese Chiara Onida a Ruino (PV), Le Ramate della altrettanto milanese Patrizia Vanelli a Malvicino (AL). Persino in zone di viticoltura storica sono sorti allevamenti di capre. Esempi ne troviamo in Piemonte (vedi la Cascina Valeggia di Moncalvo d'Asti del giovane autoctono Alan Bollito e il Podere Santa Margherita nelle crete senesi di Maria De Dominicis. Di certo, però, è in montagna dove sono nati in maggior numero gli allevamenti caprini. Una montagna estesa alla fascia prealpina, dove il neoallevamento caprino ha allignato particolarmente bene (innestandosi su tradizioni preesistenti). Per citare solo alcuni "storici" caprai corre obbligo menzionare la varesotta Valcuvia con Paride Peloso, i comaschi col capostipite Berto Vassena, i bergamaschi come Maria Gamba, i camuni come Martini delle Frise.
La montagna che vive
In montagna (e nelle zone di alta collina interessate da processi di abbandono) il significato sociale ed ambientale dell'insediamento di nuove aziende di giovani caprai è massimo. Vi sono borgate che sono rimaste vive, o che sono tornate a vivere, grazie alla capre. Nel sud della Francia questo fenomeno risale ad ancora prima del '68; da noi (Piemonte e Lombardia) agli anni '70. Una borgata ormai famosa tornata a vivere grazie alle capre è Lo Puy (Poggio) in valle Maira. Qui, grazie a due torinesi: Giorgio Alifredi (laureato in filosofia) e la moglie Marta Canuto (medico) e alla loro azienda caprina, Lo Chabrocanto, quello che era ormai un agglomerato di case destinate a divenire ruderi, è diventato un sito interessante, dove c'è gente che torna ad abitare anche se solo per le vacanze. C'è una tappa dei percorsi occitani e si organizzano eventi culturali, tanto che Lo Puy è diventato un centro cultural-tecnico-politico di riferimento per attività e iniziative ispirate alle Alte Terre (oltre che alle capre). A Lo Puy sono nati 4 dei 5 figli della coppia (il maggiore era giù nato). Paolo Cassani, con la moglie Silvia (lui nato a Torino ma di famiglia del posto, lei avvocato di origine romana) sono, per gran parte dell'anno gli unici abitante di Jelmala, una splendida frazione (sotto) di Calasca Castiglione in valle Anzasca (VB).
In provincia di Varese, nella val Veddasca i neocaprai hanno una ormai lunga tradizione. Sono della "prima ondata", quella immediatamente successiva al '68. Grazie a diverse aziende che si sono insediate nella valle la frazione Piero di Curiglia è tornata abitata. A Monteviasco (foto sotto), paesino dove i arriva solo con la funivia o a piedi la famiglia di Giordano Tosi, capraio autoctono, è l'unica con bambini a risiedere permanentemente. In val Grande (Verbania) nel piccolo paesino di Cicogna, lo stesso ruolo è svolto da Rolando e Rosalba Gaiazzi. Dal varesotto (Rolando aveva un garden) si sono trasferiti in montagna e lì sono nate le loro figlie. Quelli citati sono solo alcuni casi conosciuti personalmente. Ve ne sono molti altri.
Perché capre?
Quando ho iniziato ad occuparmi di capre avevo già abbastanza chiari i motivi per i quali il "ritorno all'agricoltura di montagna" si concretizzasse spesso nell'allevamento caprino. Alcune ragioni erano state già individuate da altri prima di me: l'abbandono della nontagna che consente alle capre di alimentarsi su terreni un tempo accuratamente coltivati o in ex boschi cedui o selve castanili altrattanto accuratamente oggetto di intense cure. La "rinaturalizzazione" (termine molto improprio) della montagna faceva anche si che - pur nell'assurda permanenza delle leggi forestali di impronta ottocentesca - la polizia forestale chiudesse gli occhi sulle violazioni dei divieti di pascolo. A queste ragioni si aggiungevano altre di ordine propriamente tecnico-economico: l'allevamento caprino implica un investimento in capitale bestiame, attrezzature, fabbricati molto più modesto rispetto a quello bovino. La chiusura dei piccoli allevamenti bovini (sotto la spinta di una politica per molti versi insenzata di "gigantismo allevatoriale") metteva a disposizione dei neocaprai strutture già ampiamente ammortizzate ma del tutto ideonee al ricovero di un gregge piccolo o medio. Era anche possibile disporre a costi molto bassi di attrezzature che le aziende bovine in fase di chiusura o ingrandimento lasciavano inutilizzate (serbatoi di refrigerazione del latte, macchine agricole). Le capre poi sono molto più precoci e prolifiche delle vacche e un gregge aumenta rapidamente per "crescita naturale". Nell'allevamento caprino da latte la produzione di carne (capretti e capre da macello) se può fruire di filiere corte è tutt'ora remunerativa. Se il mercato dei capretti è stato messo in crisi dall'indebolirsi della tradizione del consumo rituale pasquale e dall'afflusso di merce estera c'è una buona e crescente domanda di prodotti a base di carne trasformata che valorizza le capre a fine carriera. Un allevamento caprino, però, è finalizzato alla produzione del latte che - nella stragrande maggioranza di casi - implica anche la trasformazione artigianale in azienda.
Il latte e i latticini di capra si prestano alla piccola scala e incontrano il gusto del consumatore "tardomoderno"
la "rivincita" della capra è in larga misura legata alla qualità dei prodotti che si ottengono dal suo latte. La ricotta di capra dall'antichità ad oggi è unanimamente considerata qualla più prelibata. I fini globuli di grasso che sfuggono alla coagulazione per la produzione di formaggio rendono la tessitura della ricotta particolarmente apprezzata. Quanto ai latticini abbiamo compreso da non molto che alcune lavorazioni di formaggi freschi e molli sono nate con latte caprino o misto e solo dal tardo medioevo e con la modernità sono diventate produzioni di latte vaccino. Robiole, tomini, scimudin ecc. nascono "caprini" e con il latte di capra (poco adatto alla lavorazione di formaggi a pasta cotta, duri) "vengono" particolarmente bene. L'industria in tempi recenti (metà secolo scorso) ha persino trasformato in vaccini i "caprini" per antonomasia: i cilindretti di formaggio molle a coagulazione lenta (acida). Purtroppo la legge consente di chiamare "Caprini" anche questi formaggi (anche se oggi deve essere indicato con buona evidenza grafica in etichetta che trattasi di "vaccini"). Piccole tome e "crescenze" si prestano anch'esse particolarmente bene alla preparazione con latte caprino.
Gradualmente, negli ultimi decenni, il consumatore è tornato ad apprezzare i formaggi caprini e anche a richiedere una sempre più ampia varietà di essi (oltre alla ricotta e persino ai gelati, allo yogurt e ai budini di latte capra). Latte e formaggi di capra in passato erano considerati pregiati. Poi con l'era delle centrali del latte, delle grandi industrie casearie, della pastorizzazione, delle confezioni plasticose, la capra e i suoi prodotti, che ancora alla fine del XIX secolo i medici consigliavano anche a bambini e ammalati, sono stati colpiti dalla stigmatizzazione di una civiltà contadina da mettere in soffitta con le sue miserie, le sue disuniformità, la sua mancanza di igiene.
Poi ancora, con l'era degli scandali alimentari, dell'incubo dei residui di sostanze chimiche, delle tossinfezioni causate da prodotti superindustriali e super pastorizzati (Lysteriosi docet) la ruota della storia ha fatto un altro giro... e la capra è tornata in auge.
La lavorazione di formaggi molli e freschi (ma al tempo stesso ricchi di gusto) si associa bene a procedimenti artigianali, alla lavorazione di pochi litri di latte per volta. Si associa bene anche alla produzione di formaggi di piccola pezzatura (un altro aspetto che si incontra con le esigenze del consumatore di oggi). Per lavorare il classico "caprino" (coagulazione latica) basta lasciar raffreddare il latte in un secchio e aggiungere pochissimo caglio e del sieroinnesto naturale (il siero spurgato dalla pasta della lavorazione precedente). Non serve scaldare il latte, basta lavorare in un ambiente ad almeno 18°C. Di solito oggi si usa mettere la pasta coagulata (trasferita dal secchio con un mestolo) in bicchierino di plastica forati. Ma un tempo (molti lo fanno ancora oggi) si sgrondava la pasta estratta dai secchi in teli appesi. Poi, una volta asciugata, la forma alla pasta veniva data con le mani (comprimendo una porzione di pasta con il palmo della mano e facendola rotolare su una superficie piana). Anche quando si producono formaggini e formaggette a coagulazione presamica (che richidere di riportare a 37-38°C la temperatura del latte) basta una normale pentola e, ancora una volta, semplici arnesi. Alcuni, purtroppo, si fanno infinocchiare ancora oggi da venditori e tecnici mercenari che consigliano costosi, quanto inutili e inadatti, "minicaseifici".
Un binomio indissolubile tra capra e allevamento famigliare e contadino
Che la capra sia adatta ai piccoli allevamenti è fatto legato sia alla natura dei suoi prodotti che alla sua etologia. Il latte di pecora non si beve perché è troppo ricco di grasso, quello di capra è il più digeribile tra quelli dei ruminanti domestici (di meglio c'è solo quello degli equidi) ed è sempre stato utilizzato per lo svezzamento dei cuccioli d'uomo. La coevoluzione di animali e uomini procede per linee parallele. Ad un latte adatto ai neonati umani si associa un comportamento "da balia" della capra. La capra allatta cuccioli di ogni altra specie di mammiferi senza problemi. Se un neonato piange per la fame la capra di casa si piazza delicatamente sopra il piccolo e gli offre la tetta. Dopo il cane la capra è l'animale che si adatta meglio a una convivenza molto stretta con l'uomo.
Nel corso della storia, marinai imbarcati, soldati e minatori in postazioni lontane dagli abitati, viaggiatori, si sono spesso tenute con sé delle capre come fonte di preziose vitamine. Non a caso dopo il cane (addomesticato da almeno 15mila anni) è la capra l'animale di più antica domesticazione (almeno 10 mila anni). Che poi la capra sia anche indipendente e "selvatica" non va visto come una stranezza o un risvolto negativo. La pecora è super gregaria e fornisce prodotti di massa (la lana è una delle prime materie prime commerciate, il latte di pecora - per molto versi più facile da trasformare in formaggio - è adatto ad essere lavorato anche in grandi quantità). Alla capra spesso si chiede di "arrangiarsi da sola". Un fatto che consentiva alle famiglie povere senza terra di sopravvivere con il prodotto delle loro capre mandate a pascolare su magri pascoli comunali (di qui lo stigma di "vacca del povero"). Animale indipendente, che tende a aggregarsi in piccoli gruppi (i greggi numerosi al pascolo si "sbrancano" facilmente in più sotto greggi), curioso ma docile, la capra è ideale per l'allevamento famigliare di sussistenza o, oggi, per l'allevamento artigianale in cui - a fronte si un modesto investimento di capitale - si valorizzano le capacità individuali, sia in caseificio che in sede di commercializzazioni. Un allevamento dove si investe molto in "passione". Passione per gli animali ma anche per i formaggi, creazioni "vive" e personali: da quando il latte sgorga dal petto delle capre a quando affinano in cantina o in un locale a clima controllato (purtroppo non tutti hanno cantine adatte).
Non si arresta la nascita di nuove aziende
Da una parte c'è n mercato dei prodotti di capra che non è certo in crisi, ma che cresce e che premia la qualità (anche nel campo caprino c'è il prodotto industriale ma la concorrenza non è diretta). Dall'altra parte ci sono una situazione generale di perdita di capacità produttiva nel settore industriale e un mercato del lavoro che - per motivi strutturali oltre che congiunturali - ai giovani offre ben poco. Non solo, c'è anche un crescente riconoscimento sociale per la figura del produttore agricolo, specie per quello che "ci mette la faccia", che è capace di entrare in relazioni con i consumatori, mostra di essere in sintonia con quei valori e quelle preoccupazioni che sono anche quelle di chi vive in città, dei consumatori.
Logico che il movimento di ritorno alla capra stia riprendendo vogore (in realtà non si è mai arrestato). Come abbiamo visto, d'altra parte, l'allevamento della capra in montagna è una delle prospettive più concrete per chi voglia iniziare una nuova attività agricola. Peccato che la società non agevoli molto la creazione di posti di lavoro che hanno un costo infinitamente inferiore a quello dell'industria e checontribuiscono - attraverso benefici ambientali e sociali - a ripagare ampiamente il sostegno ricevuto.
Casi concreti
Vediamo dei casi concreti. Sotto la nuova stalla (in fase di completamento) di Walter Pozzoli a Bannio (valle Anzasca). Walter è un ragazzo ventenne molto volenteroso. Alleva capre sia in vecchie stallette a Barzona che nel fondovalle ossolano (in una stalla nuova in società con un altro giovane) e in più lavora come giardiniere per una ditta di manutenzione del verde. Alla buona volontà, però, non si fa credito - almeno non lo fanno gli istituti di credito - e se Walter sta realizzando la stalla è grazie al sostegno di gente del paese. Le banche ai giovani chiedono le stesse garanzie degli altri; preferiscono investire in Btp (quello che la Bce da loro a tassi irrisori) o finanziare gli impianti speculativi delle biomasse (e ci si mette anche la Banca Etica in questo business immondo). Però dallo stato (ovvero dai contribuenti) vogliono aiuti, eccome se li vogliono (vedasi MPS e C).
Quanto alle sovvenzioni regionali (Psr) è vero che c'è una priorità per i giovani, ma è anche vero che la quota di finanziamento in conto capitale è ampiamente compensata (in negativo) dal fatto che il tuo lavoro tuo, quello dei tuoi parenti, dei tuoi amici non lo puoi fatturare. E, dal momento che in montagna sono un po' tutti muratori, piastrellisti, idraulici, falegnami ecc., ci si rende facilmente conto di cosa significhi impedire l'esecuzioni di lavori in economia. Per fortuna se la decantata Società moderna è fallimentare, la vituperata, arcaica Comunità (le cerchie famigliari, parentali, vicinali, comunitarie in senso tradizionale e nuovo) riesce a supplire ciò che la miopia, la sclerosi dello Stato e della Società non possono o non vogliono fare: finanziare i giovani che vogliono investire in agricoltura. Come molti sanno, però, gli ostacoli non vengono solo dal lato del finanziamento.
Ma la burocrazia si rende conto che c'è la crisi?
C'è la burocrazia a mettere mille bastoni nelle ruote ai giovani, ai neorurali. Pare assurdo ma neppure la crisi smuove le rididità burocratiche. Si rendono conto che aggravare i costi per la creazione dei posti di lavoro oggi ha conseguenze sociali molto più gravi che in tempi di vacche grasse? Che le spese per cetrificazioni, progettazioni, autocontrolli, adeguamenti oggi gravano su bilancia già tirati?
Restando in valle Anzasca torniamo da Paolo Cassani. Nella foto sotto potete vedere il fabbricato, una dimora rurale storica, di cui è entrato in disponibilità grazie ad una "usucapione amichevole". Si tratta di un tipico fabbricato dei paesi dove di aree in piano non ce ne sono, sviluppato in altezza con tre livelli (uno interrato, uno parzialmente interrato). Opera meritoria sarebbe salvare dal suo immancabile tristo destino di rudere questo manufatto. Paolo e Silvia vorrebbero farlo ed abitare qui e tenere le caprea livello terra e realizzare un piccolo caseificio (più cantina, ideale con la roccia viva). Il concetto di azienda famigliare è anche questo: tuytto sotto controllo, tutto vicino.
Lo "scoglio" è rappresentato dalle altezze minime per i "laboratori di trasformazione" che, per l'ASL, devono essere superiori a 2,7 m. Qui ciascun piano è altro 2 m ma, con la ristrutturazione (nuove solette) e sacrificando un po' il fienile si arriva a 2,3. Però a 2,7 non ci si arriverà mai.
Ovviamente il problema non riguarda solo Paolo ma tanti altri che potrebbero ristrutturare vecchi edifici rurali. L'ASL dell'Ossola ha posto un quesito alla Regione Piemonte e speriamo che si possa - almeno nel caso di fabbricati rurali storici - superare questa prescrizione che, in montagna, è causa di grandi problemi.
Una volta superato il problema delle altezze del caseificio, però, ci sarebbe quello della concimaia. Qui (a differenza di Jelmala-centroche è un po' più in su e dove Paolo e Silvia abitano attualmente) abita solo un cugino di Paolo. Tranne una casa messa in ordine le altre sono abbandonate. Eppure il piano urbanistico classifica il nucleo quale "residenziale saturo". C'è l'illuminazione pubblica e arriva la strada comunale. Così la concimaia dovrebbe essere realizzata ad almeno 150 m dalle abitazioni. Non facile trovare un terreno adatto. Se la zona fosse "aricola" allora non ci sarebbero problemi ma allora ... niente illuminazione. Mah. Non paiono regole fatte per favorire il ritorno di attività agricole.
I caprai si parlano
Non sono pochi i problemi di chi vuole intraprendere una nuova attività, ma neppure quelli di chi il capraio lo fa già da anni, da decenni. In un mondo agricolo che non è certo fatto "a misura di capra e di caprai" dove, anzi, essi sono visti ancora come un fenomeno di folklore, lo statuto degli allevamenti caprini e dei caprai non ha ancora avuto - tranne casi isolati - un meritato riconoscimento, non ha ottenuto adeguata attenzione ai suoi problemi specifici. E questo non ha aiutato.
Ultimamente, però, qualcosa si muove. Passata l'epoca delle scelte individuali basate su sensibilità e interessi, un po' "all'avanguardia", oggi il "ritorno alla capra" è in sintonia con una trasformazione del costume, di una nuova sensibiltà al cibo "locale", ai valori del territorio intesi come insieme di gestioni ecologiche, agroalimentari e relativi saperi, tradizioni, risorse peculiari.
Consapevoli di tutto ciò i caprai stanno cercando forme di aggregazione. A novembre un gruppo di caprai della provincia di Verbania dell'associazioe Crava si sono recati all'azienda Lo Puy di Cuneo. In quella occasione si è parlato prevalentemete di aspetti tecnici ma anche di lupo, di norme forestali, di rapporti con la sanità veterinaria pubblica. Domani 21 gennaio un gruppo di caprai del Consorzio della Formaggella del luinese si recherà a Roccaverano per incontrare colleghi che producono la Robiola di Roccaverano (quella di solo latte di capra) presso la già citata coop La Masca. Un primo significatvo contatto tra produttori delle due uniche Dop casearie a base di latte di capra in Italia. Una serie di contatti all'interno dell'ambiente dell'allevamento caprino piemontese e lombardo che indicano di per sé la maturità di un settore che forse è pronto per nuovi legittimi traguardi.