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L'imbroglio ecologico


ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali


di Michele Corti


(Prima parte)


 

Premessa

L'imbroglio ecologico (1) dopo quarant'anni torna di attualità. Non già nell'ambito di contese intellettuali e delle rivendicazioni di fedeltà ideologica ad un fossile chiamato "materialismo storico" ma nel vivo del conflitto sociale, dove vengono presentate come "ecologiche" (e quindi non contestabili) aggressive strategie di compressione del reddito, di controllo delle risorse locali, di sterilizzazione delle, sia pur striminzite espressioni di partecipazione ai processi decisionali. In sintesi un programma di estensione del controllo biopolitico capitalistico e tecnocratico su territori,  comunità e vite, legato ad un nuovo ciclo di sfruttamento delle risorse che deve fare i conti con i crescenti costi dell'energia e che non esclude alcun ambito del vivente.

La fase del ciclo capitalistico contraddistinta dalla green economy vede la trasformazione dell'associazionismo ambientalista in un sistema di vasi comunicanti che "articola", sotto la stessa regia, una filiera di organizzazioni formalmente no profit, imprese e coalizioni di imprese gestendo in prima persona attività manageriali, commerciali, imprenditoriali e operando un attivo lobbying a favore delle stesse. Parallelamente l'ambientalismo istituzionalizzato opera sul fronte del controllo sociale, della manipolazione dell'informazione, sino ad esercitare ad un ruolo di monitoraggio, interdizione, repressisone dei movimenti spontanei di protesta e resistenza popolare (comitati spontanei e loro aggregazioni).

Così nel discorso pubblico l'"imbroglio ecologico" e il rigetto "antiambientalista" sono divenuti moneta corrente sia pure in forme di espressione più dirette e popolari (no alle "ecoballe", "bioballe", "ecotruffe"). L'imbroglio, in ogni caso, non è più ideologico, è molto più concreto.


La parabola dell' Imbroglio ecologico

L' "imbroglio ecologico" ha conosciuto una parabola che appare alquanto istruttiva. Divulgato da un marxista ortodosso lo slogan è stato sfruttato vent'anni dopo  dai "talebani della crescita infinita", quelli che negano ogni rischio per il pianeta di uno sviluppo senza limiti, che ritengono che le risorse naturali siano inesauribili. Che considerano (si professano cattolici tradizionalisti) ogni "limite" quasi una bestemmia contro Dio, il quale – secondo un'intepretazione distorta che ha prodotto danni a non finire, avrebbe ordinato all'uomo di dominare la Terra, di moltiplicarsi e di, per l'appunto, crescere, crescere (2). Oggi, dopo altri vent'anni, sono nuovi movimenti sociali allo stato nascente che contestano la razionalizzazione ecologica capitalista in nome di una gestione delle risorse partecipata, di una "sobrietà felice", di una messa in discussione radicale dei sistemi economici, politici, di conoscenza incapaci di prevenire rischi sempre più gravi per la salute umana e per gli ecosistemi. Sistemi focalizzati su soluzioni che affrontano unilateralmente i problemi, intervenendo solo dove c'è l'opportunità di ottenere profitto e di aumentare controllo e potere e ottenendo, nel caso migliore, di rinviare le emergenze (ma forse accellerando l'avvicinarsi di un punto di crisi verticale, ecologica e sociale).

Le "soluzioni ecologiche e sostenibili" predisposte dall'establishment scientifico e tecnocratico (fatte proprie da un ambientalismo perfettamente integrato e dalle istituzioni politiche)  sono quelle che consentono di mantenere il tasso di profitto attraverso nuovi cicli di investimenti (largamente finanziati dalla spesa pubblica). Tali "soluzioni" sono molto spesso inefficienti nel fronteggiare le conseguenze degli impatti pregressi di due secoli di industrializzazione e di mezzo secolo di "società dei consumi", ma appaiono efficienti nel trasferire risorse dalla massa degli utenti, consumatori, contribuenti a quella dei gruppi dominanti e delle caste accucciate ai loro piedi contribuendo ad accellerare la tendenza all'aumento delle disparità sociali (in termini di reddito, potere, risorse cognitive, tutto). Dividere questioni ecologiche e sociali, oggi più che mai, è profondamente sbagliato ma anche socialmente iniquo.

Quanto ai "mandarini del sapere" i vari calcoli e congetture su fonti di emissioni, sink e bilanci di carbonio (periodicamente oggetto di revisioni e ribaltamenti: "ci eravamo dimenticati qualcosa"), i vari metodi (tutti "scientifici", per carità) per valutare, o meglio occultare, la contabilità di impatti, avvelenamenti e morti premature, di vite mai nate, appaiono affidati ad una "scienza incerta" che appare sempre di più quale legittimazione e santificazione, a posteriori, di scelte dettate dalla convenienza di un potere rispetto al quale la componente scientifica appare sempre più intrinseca. Essa fa rimpiangere quella  che, in un'epoca in cui non si era ancora imposto il politically correct, un parte almeno della sinistra vecchio stile definiva "la scienza del capitale". Oggi la scienza non è più un'ancella ma siede nel consiglio di amministrazione (dove uno strapuntino c'è anche per gli ambientalisti) e le differenze di ruolo tra scienziati, imprenditori (e ambientalisti) sono molto sfumate.

Appare palese come le "soluzioni ecologiche" prospettate nell'ambito della green economy, con la benedizione (e la partecipazione diretta agli utili) dei movimenti ambientalisti rafforzino il controllo e l'accaparramento delle risorse naturali da parte di un potere economico che punta al land grabbing a carico di immense superfici con il fine produrre energia da fonti idriche e da biomasse. Il controllo dell'acqua e della terra (dei campi, delle foreste) conseguito per fini energetici diventa inevitabilmente anche il controllo delle risorse di acqua potabile e di terra per la produzione di cibo nella prospettiva di un monopolio spietato. In parallelo al controllo di grandi spazi prosegue anche quello del dominio dell'infinitamente piccolo.


 

 

C'era una volta in un'epoca lontana di cui si è quasi persa la memoria ... Quando il WWF (e l'orso) erano "di destra" e neocolonialisti

Come sono lontani i tempi in cui la sinistra "tutta di un pezzo" respingeva come ideologia borghese l'ecologismo. Gli intelletuali veteromarxisti erano prossimi a dover pentirsi degli impietosi giudizi sul WWF (presto avrebbero dovuto invocare la sua protezione in qualità di specie in via di estinzione) e,  in nome della difesa del materialismo storico, dichiaravano: "vade retro satana" nei confronti dell'ecologismo.

In questo contesto Dario Paccino nel 1972 pubblicò con Einaudi, nella collana "Nuovo Politecnico" (quella in cui i sessantottini leggevano Marcuse e tanti altri libri di culto), L'imbroglio ecologico. L'ideologia della natura. Fu un vero best-seller, non tanto per lo spessore delle analisi contenute quanto per la forza (e l'eco) della polemica (oltre che, ovviamente, per il prestigio della collana). Nel 1973 uscì la terza edizione, poi ci fu la quarta (e ultima) nel 1979, proprio nell'anno fatidico min cui (come vedremo oltre) nasceva nell'ambito dell' ARCI la "Lega per l'ambiente" .

Al di la del titolo del volumetto, che rimandava a un programma ideologico e politico che Pacino lasciò solo abbozzato, quello che colpisce immediatamente rileggendo il testo a quarant'anni di distanza, è il constatare come le "cose di sinistra" sostenute da Paccino oggi siano considerate un vero oltraggio al politically correct (per non parlare del "cattivo gusto" di chiamare "padroni" gli illuminati imprenditori progressisti). Si tratta solo di una questione di stile? Dell'uso di linguaggi anacronistici? Non proprio.

Nelle considerazioni di Paccino c'è, con tutta evidenza, una componente anacronistica. È quella che riguarda la difesa del consumo di massa. Ma quarant'anni fa l'accesso a forme di benessere materiale appariva come una conquista molto recente. La transizione dalla società rurale a quella dei consumi è ancora in atto in ampie aree rurali del paese e le conquiste della modernità (acqua corrente nelle case, la prima motorizzazione) apparivano ancora come una specie di sogno e si voleva esorcizzare tutti i costi la possibilità che esso potesse svanire all'improvviso, così come quasi all'improvviso esse erano apparse.

La percezione dei valori che il consumismo stava distruggendo era ancora limitata agli intellettuali, così come erano limitata alle avanguardie del movimento sessantottino le considerazioni circa il ruolo dei consumi quale nuova forma di controllo sociale e di sfruttamento che diventerà, nei decenni successivi, oggetto di una diffusa consapevolezza sociale. Però la percezione che "il padrone", con quei discorsi a favore dell'ambiente, stesse preparando colossali fregature non era sbagliata.

Pur con le remore in tema di consumismo e di crescita va pur detto che Paccino denunciava l'imbroglio ecologico non certo dal punto di vista strumentale di coloro che negano l'esistenza e la gravità di un problema di compromissione degli ecosistemi (come nel caso di coloro che fecero il verso al suo libro). Lo testimonia suo impegno in campo ecologico fu coerente e duraturo. Ricoprì la carica di segretario della Federazione Pro Natura (associazione "antesignana" dell'ambientalismo) e diede vita, insieme al botanico Giacomini, alla rivista “Natura e Società” che, pur in un contesto eclettico, era improntata a posizioni di critica sociale e politica radicali. La critica di Paccino all'ambientalismo non venne meno anche quando, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 (come vedremo oltre), esso ricevette l'innesto di ampie componenti della sinistra (vecchia e nuova) e la benedizione ideologica e culturale dell'establishment progressista. Da bravo "giapponese", con la coerenza di chi non è "moderato", tra il 1979 e il 1985 - grazie al l'appoggio dei comitati antinucleari (contro l'Enel) - pubblicò "Rosso vivo". Una rivista che, oltre che di antinuclearismo, si occupava della critica al mainstream dell'ambientalismo (Legambiente in testa).

L'impegno di Paccino in campo ecologico ha rappresentato la dimostrazione che la critica all'ambientalismo e della sua ideologia non sono in antitesi con la difesa concreta della salute e delle stesse risorse naturali (anche nelle forme del "protezionismo" di vecchio stampo). È vero semmai il contrario: al di fuori di una critica che mette in chiaro la natura del conflitto sociale non c'è molto spazio per operare quella "svolta ecologica" che un sistema economico guidato dalla ricerca del massimo profitto non riuscirà mai a realizzare. Esso, infatti, come dimostra la storia degli ultimi decenni, si limita a rincorrere le emergenze (quelle più facilmente gestibili senza rimettere in discussione le fondamenta del sistema) e a metterci una pezza (sempre che ci sia una prospettiva di profitto). In attesa che un'altra energenza si palesi come potenzialmente catasftrofica.

Non ci vuole molto a convincersene: basta vedere come la ricerca dell' "energia pulita" si trasformi in un' incentivazione alle combustioni e alla distruzione di ecosistemi forestali tropicali e basta aprire gli occhi sui mille altri "imbrogli ecologici" che il sistema tecnoindustriale, con i suoi apparati scientifici e mediatici, cerca di propinarci.

L'ambientalismo istituzionale ha scelto di operare all'interno del sistema, legittimando gli "imbrogli ecologici". Gli ambientalisti vogliono far credere di essere sinceramente convinti che il sistema industriale capitalistico possieda gli strumenti e l'interesse ad una "modernizzazione ecologica" (3) in grado di superare l'insostenibilità del modello di sviluppo. Ma più che da una convinzione la loro posizione "riformista" dipende dai concreti vantaggi di partecipazione all'illusione del potere. "I razionalizzatori dell'ecologia vogliono le condizioni di vita della società moderna. Vogliono questa società senza togliere di mezzo il padrone che vive di predazione. Vogliono il padrone senza la ecocatastrofe che egli prepara" (4).

Sinistra, ambientalismo, industrialismo (ma va aggiunta la tecnocrazia) hanno operato una gaudiosa e armoniosa convergenza e, dopo quarant'anni, tutto si è ribaltato. Il movimento ecologico è passato attraverso due ulteriori fasi dopo quella pionieristica: la prima è coincisa con l'innesco della sinistra orfana del '68 sul filone delle associazioni protezionistiche (Pro Natura, Lipu, WWF) e con l'assunzione di una dimensione di massa del movimento (con tanto di proiezione politica con la nascita dei partiti/liste Verdi all'inizio degli anni '80), la seconda, dagli anni '90 in poi, con l'apertura operata nei confronti dell'ideologia ecologica anche da parte delle forze politiche tradizionali. A questo punto, anche sulla scorta dell'elaborazione di quell'ossimoro di successo che è stato lo "sviluppo sostenibile" (una "trovata" che ha spinto anche il main stream del fronte capitalistico ad aderire alla nuova buona novella ecologica), l'ideologia ecologica è diventata patrimonio diffuso e oggetto di consenso generale (tanto da sgonfiare, almeno in Italia, un verdismo politico peraltro mai realmente differenziatosi dalla sinistra e parso obsoleto quando tutti si sono proclamati attenti ai problemi ecologici). Così si è verificata l'entrata a pieno titolo dell'ideologia ecologica nel "sancta sanctorum", come preconizzato da Paccino. Ne è seguita la trasformazione in un nuovo conformismo sociale, un pilastro del politically correct che non si può contraddire impunemente.

Torniamo un attimo al best seller di Paccino. Egli ricostruisce tre tappe della formazione del moderno movimento ecologico a partire dal dopoguerra ma va precisato che in precedenza non era mancato un protoambientalismo. Esso era più influente negli Stati Uniti (dove il conservazionismo  affonda le radici nell'ideologia, tipicamente statunitense, della wilderness elaborata in tempi successivi da Henry David Thoreau, John Muir e Aldo Leopold) e dove esso ebbe una prima espressione organizzata sin dal 1892 con la fondazione del Sierra Club, un'organizzazione tutt'ora esistente. Non ancavano, però, organizzazioni protoambientaliste anche in Europa, segnatamente in Inghilterra, Germania e Svizzera.

La prima tappa di un movimento internazionale "conservazionista" fu, in ogni caso, rappresentata dalla costituzione, nel 1948, della Unione internazionale per la protezione della natura (UIPN), che, di li a otto anni, mutò la propria ragione sociale in UICN, sostituendo la "protezione" con il termine - reputato "più scientifico" - di conservazione. Va precisato che l'UINC resava ristretta quasi esclusivamente all'ambito accademico. La seconda fu rappresentata dalla fondazione del WWF.

"[…] non erano più i tempi in cui il re di Polonia Boleslao l'Ardito (secolo XI) vietava la caccia del castoro per avere lui il monopolio delle pellicce, e del re Ladislao, vincitore dei cavalieri teutoni a Grunwald (secolo XV), vietava il taglio del tasso per riservarne il legno ai suoi arcieri. I razionalizzatori dell'UICN non potevano far altro che redigere soluzioni autorevoli, destinate a rimanere tali. Così, sperando di poter fare di più, i nipotini di Bolesalao e Ladislao fondarono nel '61 il WWF (World Wildlife Fund, fondo internazionale per la vita selvaggia), presieduto prima dal duca di Edimburgo, poi da Bernardo d'Olanda" (5)

Paccino, condizionato dal suo marxismo schematico, tendeva ad attribuire un ruolo socialmente egemone ai soli industriali, controllori dei "mezzi di produzione". Così sorvola su alcune circostanze decisive che spiegano i collegamenti e la continuità tra le diverse "anime" del movimento ecologico e tende a far apparire i fondatori del WWF come degli eccentrici aristocratici.

La realtà è che, dietro la fondazione del WWF, c'era un disegno abbastanza chiaro degli strati più elevati della società occidentale. L'epoca dell'ecologismo degli eccentrici aristocratici si era conclusa nei paesi più avanzati a cavallo tra ottocento e nocecento e con il nuovo secolo in anche in alcuni paesi europei si affermarono forti associazioni con efficace capacità di lobbying mentre in Italia vari tentativi in questo senso furono destinati al fallimento (6). L'ecologismo atistocratico aveva peraltro interessato anche l'Italia e aveva visto come protagonisti fior di patrizi come il milanese conte Gian Giacomo Gallarati Scotti, autore della legge di tutela dell’orso del 1939, promotore dell’Ordine di S. Romedio per la protezione dell’orso nel 1957 ed autore, sin dagli anni '20 di una proposta di legge per l'istituzione, in parallello a quello d'Abruzzo, di un parco nazionale dell'orso alpino nel gruppo Adamello-Brenta (7).

Anche se il disegno sotteso al programma ecologico era già stato concepito da tempo dai circoli più influenti del capitalismo fu solo a cavallo tra gli anni '60 e '70, che apparve chiaro come il sistema industriale capitalistico stesse per abbracciare con slancio le possibilità di socializzare - attraverso la leva fiscale - i costi delle attività di disinquinamento, ormai indispensabili per non compromettere lo stesso sistema produttivo e il profitto stesso. Secondo Paccino ciò si poteva fare solo:

"[…] ponendo nel pubblico Sancta Santorum, accanto agli altri idoli paganti, anche quello ecologico, che male in ogni caso non fa, e dal quale potrebbe anche venire una riforma ambientale, auspicabile per i guadagni che il padrone si ripromette con la nuova industria ecologica, per combattere gli inquinamenti" (8).

All'inizio degli anni '70 si intravedeva già quello che sarebbe stato il percorso dello "sviluppo sostenibile" degli anni '80 e la successiva affermazione del paradigma, tuttora in voga, della "modernizzazione ecologica". La sinistra marxista si limitava, però, a stare sulla difensiva e a esorcizzare la "discesa in campo" in tema di ecologia di quelli che Paccino non si vergognava di chiamare ancora ostentatamente "i padroni" e che descrisse nei seguenti termini:

"Con la costituzione del WWF, all'internazionale dei razionalizzatori (l'UICN) usciti dalle accademie, s'è aggiunta l'internazionale dei razionalizzatori per diritto divino, e tutte continuato come prima fino a quando alle assise della conservazione non sono apparsi gli industriali. Fu a Strasburgo, nel '70, in occasione dell'anno europeo della conservazione, proclamato dal consiglio d'Europa. Il Corriere della Sera, che vanta nella proprietà donna Giulia Maria Mozzoni Crespi, membro del comitato d'onore del WWF italiano, presentò ai propri lettori la conferenza come un avvenimento «di portata storica». come in effetti era, ma non per le ragioni indicate dal giornale, e cioè la presenza di «cinque teste coronate» e per le parole ammonitrici e fumose uscite dalle loro bocche, ma per l'attiva presenza del padrone di oggi, caratterizzato dalla dominante industriale. Mai prima d'allora il padrone s'era mostrato così partecipe del problema ecologico. Cosa tanto più rimarchevole (questa sua attiva presenza), in quanto i mandarini dell UICN e del WWF avevano rinunciato, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, a privilegiare l'orso rispetto all'uomo, e dicevano invece che l'orso va salvato a vantaggio dell'uomo, che appare privo, all'interno della società dei consumi, del bene supremo, che sarebbe appunto l'orso, o, se si vuole, la natura spontanea". (9)

In realtà il potere finanziario, ben rappresentato dalle "teste coronate", ovvero l'oligarchia d'alto bordo, la sua "opzione strategica" a favore dell'ideologia ecologica l'aveva già fatta. Ora arrivava anche la borghesia industriale "periferica" in procinto di finanziarizzarsi e globalizzarsi. Paccino però non sapeva cogliere la complessiva strategia ecologica e considerava una vera e propria fissazione degli "aristocratici del WWF" la passione per l'orso e per la creazione delle riserve naturali, dirette discendenti di quelle feudali e reali di altre epoche. Nella sua "tassonomia" dell'incipiente movimento ambientalista considerava le posizioni di WWF e UICN un retaggio del passato, qualcosa di destra, di reazionario.

"A destra troviamo l'UICN [Unione Internazionale per la conservazione della natura]e WWF con relative teste coronate e intellettuali cosmopoliti (...). Loro punti di forza: la necessità di costruire dappertutto dei «santuari»; ostentato disprezzo per liberalismo e marxismo, nei quali andrebbe ricercata l'origine dell'odiato consumismo che consente alla plebe di andare in automobile dove un tempo andavano solo Boleslao e Ladislao e i loro fidi; priorità dell'orso sull'uomo, essendo il primo naturalmente ecologico, mentre il secondo è un dannato distruttore". (10)

Che un certo ambientalismo non si faccia cura di imporre alle popolazioni locali in modo autoritario le scelte "protezionistiche" si è poi rivelato tutt'altro che un'espressione nostalgica quanto un modernissimo strumento tecnocratico di controllo sociale e territoriale. Il povero Pacino si rivolterebbe nella tomba, però, se sapesse che oggi sarebbero le sue esternazioni sull'orso ad essere bollate di essere "di destra" e "oscurantiste". Nel mentre WWF e Legambiente fanno a gara a chi gestisce più "oasi" e più progetti finalizzati a favorire la diffusione dell'orso e del lupo.


Per capire questa realtà apparentemente sconcertante è bene fare un passo indietro e riflettere sul fatto che a fondare il WWF non c'erano solo le "teste coronate" (peraltro tutt'altro che decorative considerato che Bernardo è stato un personaggio chiave del Bilderberg). C'era anche il biologo inglese Julian Huxley (foto soptra), ricordato riduttivamente da Paccino quale "intellettuale cosmopolita" (in realtà esponente di punta dell'èlite globale del tempo). Sir Huxley era un personaggio di primo piano, divenuto membro a soli 26 anni della Royal Society. Fondatore nel 1931 di un influente think tank (Political economic planning, PEP) che indirizzò diversi aspetti della politica economica e sociale governativa britannica, egli ebbe, sia prima che dopo la guerra, rapporti importanti con il governo sovietico. Politicamente su posizioni di sinistra fece dell'evoluzionismo e dell' "umanesimo scientifico" una religione, coerentemente con l'affiliazione massonica (il fratello Aldous, famoso romanziere, era su posizioni apertamente anti-cristiane).

Fu un ardente sostenitore del controllo delle nascite tanto da essere identificato come il Malthus del XX secolo (più controversa la sua posizione sull'eugenetica). Nel dopoguerra diventò direttore generale dell'Unesco (carica che ricoprì per un periodo di soli due anni perché, nel frattempo, i suoi rapporti con il Foreign Office si erano deteriorati). Come direttore dell'Unesco promosse la fondazione dell'UICN. Huxley rappresenta quindi l'anello di congiunzione tra UIPN e il WWF a sottolineare un "filo rosso" che segna l'interesse dei circoli più influenti del capitalismo per il movimento ecologico. Insieme ad alcuni "conservazionisti", per lo più di matrice accademica, Huxley redasse il Manifesto di Morges (11) che rappresentò la pietra di fondazione del WWF.

Le motivazioni immediate per la creazione dell'organizzazione, che in seguito verrà associata al Panda, erano chiare: bisognava raccogliere fondi per far si che i Parchi nazionali africani fossero sottratti ai governi locali e rimanessero anche dopo la decolonizzazione sotto il controllo britannico. In ciò non era difficile intravedere una forma di neo-colonialismo. Sintomatico il riferimento ai Parchi del Congo, ricchissimi di preziose risorse naturali, contenuto nello stesso manifesto di Morges. Oligarchia finanziaria, personaggi in introdotti nei circoli governativi e transnazionali rappresentavano il milieu, tutt'altro che "eccentrico" del WWF. A ben guardare anche le clamorose gaffes del Principe di Edimburgo non erano così lontane dalla linea dell'associazione. Filippo passerà alla storia per la celebre frase: "se mi dovesse capitare di reincarnarmi vorrei diventare un virus letale in modo da risolvere il problema della sovrapopolazione". La boutade, in stile con il personaggio, riflette il neo-malthusianesimo che ha accompagnato l'associazione del Panda dalla sua fondazione.

Così come era improprio parlare di un ambientalismo prima maniera "di destra", ispirato da eccentrici aristocratici (abbiamo visto che le cose non sono propro così) è altrettanto ingenuo accreditare l'ambientalismo attuale di sensibilità sociale. L'ambientalismo riflette gli interessi del capitalismo e quindi si presenta con una veste ideologica che evolve in sintonia con i tempi.

La differenza è che oggi il WWF, oltre che di "santuari" e singole specie a rischio (che rimangono comunque al centro della sua mission), parla anche di "biodiversità" (ma chi non lo fa?) mentre ha stemperano gli allarmi catastrofisti (lanciati insieme al World Watch Institute) circa gli effetti disastrosi della "super-popolazione" mitigandoli con le condiderazioni sull'impronta ecologica dei "paesi ricchi".

Il che può apparire più "democratico", ma, imputando l'utilizzo non sostenibile delle risorse al generale consumismo "interclassista" delle "società affluenti" (oltre che alla solita irresponsabile crescita demografica dei paesi poveri) non si contribuisce molto di più alla comprensione delle determinanti sociali della crisi ecologica. Specie se si consideri che, proprio nel cuore dell'occidente, la disparità della distribuzione della ricchezza (e del potere) è andata accentuandosi grandemente nell'era della crisi. Il potere delle multinazionali è cresciuto. La libertà di comportamento del consumatore è diminuita. Ma l'ambientalismo pare non essersene accorto.

In una società che è sempre più polarizzata, dove il controllo delle risorse essenziali per la vita è sempre più oggetto di mercificazione e concentrato in poche mani, l'ambientalismo istituzionalizzato, che distoglie l'attenzione sul fatto che questi processi sociali sono alla base di ulterori problemi ecologici, si palesa per un ruolo di supporto ideologico al sistema. Un ruolo condiviso con la sinistra


La trasformazioni della sinistra

Nel mentre la sinistra conquistava un'indiscussa egemonia ideologica e culturale non era difficile accorgersi che la sua prospettiva ideologica era tornata a coincidere, senza più distinguo, con quella borghese. In precedenza la condivisione della fede nel progresso tecnoscientifico e industriale, nella bontà delle grandi organizzazioni produttive (destinate a soppiantare ovunque la "piccola produzione"), l'adesione all'immaginario della modernità, del progresso lineare, del dominio sulla natura, dell'infinita possibilità delle forse produttive di costruire un mondo artificiale migliore. non impedivano alla sinistra di rappresentare anche uno strumento di resistenza popolare, sia pure intrecciato con un ruolo di razionalizzazione e di stimolo allo sviluppo capitalistico.

Una parabola durata due secoli, sino a quando il capitalismo, trionfante su tutta la linea, ha messo il turbo e non ne ha voluto più sapere di controlli politici. La parabola della sinistra è stata caratterizzata da immani tragedie ma anche da tante speranze, accese e poi deluse. Nessun "tradimento", nessun "revisionismo" (come denunciava la retorica sessantottina), semplicemente il portato di trasformazioni sociali. 

In ogni caso, quando la "nuova sinistra" si arrovellava nel dubbio amletico se il PCI rappresentasse la "destra del proletariato" o la "sinistra della borghesia" (e quindi una sponda del "capitale avanzato") essa intuiva quella che era la trasformazione all'orizzonte, il passaggio dalla società fordista (della produzione di massa in grandi fabbriche) a quella post-fordista in cui il consumo e non la produzione assumeva centralità sociale, la fabbrica si decentrava e si smantellava. Nel frattempo declinavano anche le illusioni di coniugare stabilmente il capitalismo con solidi modelli di "economia sociale di mercato" incarnati dal "modello renano". Si affermava la modernità definita con grande efficacia "liquida" da Bauman (12).

Nel nuovo ciclo post fordista del capitalismo la sinistra trovava modo di adattarsi. Anzi, in qualche caso, trovava porte spalancate. Al capitalismo, nella nuova fase di differenziazione e di assolutizzazione del consumo, servivano forme di controllo sociale meno dirette, meno gerarchiche, meno localizzate, più "smart". La spinta ai consumi esigeva l'affermazione dell' individualismo, la tensione frenetica al cambiamento, alla novità, alla trasgressione, alla risoluzione di ogni "rigidità" dettata dalla morale, dalle appartenenze a gruppi, storie, luoghi.  Uno sviluppo in sintonia con l'ideologia progressista della sinistra ormai rassegnata all'idea che la "rivoluzione permanente" è il capitalismo a farla, e non certo per superare sé stesso come si illudevano i marxisti. Tanto vale limitarsi al piano del costume e dell'amministrazione alla meno peggio (peraltro sempre più difficile) di quei dettagli di cui il capitalismo non si cura e che lascia volentieri alle istituzioni pubbliche.

Sino ad allora la borghesia aveva predicato la libertà degli affari e per sé ma aveva imposta una rigida disciplina sociale alle classi subalterne, irrigidimentandole nelle nuove strutture della modernità (esercito di leva, scuola, ospedali, manicomi) (13). Ora non servivano più né disciplina né rididità morale. L'acido solforico marxista, che aveva liquidato ogni valore religioso, famigliare, di vincolo personale non legato al "nudo interesse" (e che la stessa sinistra aveva messo tra parentesi per una lunga epoca storica), ridiveniva un ottimo supporto ideologico per il turbocapitalismo tanto più che esso potevano essere veicolati in modo quasi "naturale" attraverso il duplice canale della comunicazione commerciale (e il linguaggio delle stesse merci) e quello delle oliate "macchine egemoniche" della sinistra. Un meccanismo tanto più efficace quanto più fondato sul miraggio di uno sdoppiamento, sull'illusione che la sinistra rappresenti, in forza del suo passato, della sua simbologia, della sua retorica (tutte peraltro abilmente coltivate) e del clima di contrapposizione (quasi da guerra civile) con la “destra” qualcosa, di non del tutto omologato rispetto alla direzione presa dal capitalismo neoliberista  (mentre, invece, è stata proprio la sinistra al potere, proprio in forza di questo bonus, ad adottare politiche più ferocemente liberiste). In questa ambigua duplicità-omogeneità dai diversi risvolti consiste il "mistero della sinistra” in un contesto in cui:

Qualsiasi forza politica che abbia una speranza fondata di arrivare al governo di un paese europeo accetta il primato dell’impresa, il dogma dello sviluppo economico e dell’aumento del PIL, la priorità del profitto. Detto brevemente, tutte le forze politiche significative, di destra e di sinistra, accettano le regole dell’economia capitalistica. Questa sostanziale accettazione dell’essenza economica e sociale del capitalismo lascia naturalmente poco spazio per autentiche contrapposizioni di principio fra i vari partiti (14) .

Al di là del gioco delle ombre della contrapposizione politica artificiale e della reale assenza di scelta politica, anche il controllo sociale ha assunto nuove forme, ma è aumentato non diminuito, è divenuto più pervasivo estendosi ben fuori la fabbrica e i luoghi della tradizionale disciplina sociale per raggiungere ogni ambito della vita sociale (e individuale), per conseguire forme di "autorepressione", economiche ed efficaci, per plasmare un consumatore (ma anche un cittadino-elettore) eterodiretto che si identifica con i vuoti valori di facciata proclamati dalle agenzie di formazione del consenso: sostenibilità, solidarietà, partecipazione, democrazia.

Da questo punto di vista era acuta l'osservazione di Pasolini (15) che parlava del ruolo della scuola, con il suo nozionismo, il suo moralismo (oggi ammantato di politically correct) come educazione ad una vita piccolo borghese, come strumento di trasformazione di "proletari liberi" in "piccolo borghesi schiavi", schiavi della propria ignoranza e subalternità spolverata di "acculturazione" (in altri termini il sistema fornisce i "recettori" per veicolare i suoi messaggi). In questo la sinistra non ha svolto solo un ruolo passivo (come dimostra il suo ruolo nella scuola e nei media) e ciò le ha assicurato, almeno sino ad oggi, il mantenimento di una certa quota influenza e potere.

Non c'è stata trovata migliore per trasformare ogni cittadino-consumatore nel docile auto-controllore sociale di sè stesso che diffondere l'illusione di una società dalle infinite potenzialità, dall'illimitata libertà di scelta, di trasgressione, con la possibilità di vivere (apparentemente) a proprio piacimento, a proprio capriccio (la sinistra e la destra contribuendo ad assecondare - con qualche distinguo - il miraggio di questi o quegli ambiti di libertà/licenza, pur in una comune prospettiva di edonismo).

In realtà, così come l'infinita varietà di scelta di prodotti in un supermercato nasconde una ben misera gamma di alternative (dal momento che nei prodotti si trovano variamente assemblate le un numero ridotto di materie prime e additivi) così ogni aspetto della vita, di per sé  largamente condizionata dalle scelte di consumo, è in larga misura controllato grazie alla disponibilità di una massa sterminata di informazioni su quello che compriamo, che diciamo, che scriviamo, su dove siamo.

Ognuno è incapsulato in un vissuto solo in parte sovrapponibile e condivisibile e le possibilità di azione collettiva sono diventate più difficili. Minate o del tutto dissolte le identità collettive (politiche, locali, etniche, sociali), con grande compiacimento dei progressisti, viene offerto un conveniente surrogato in termini di "stili di vita" costruiti intorno ai brand, di "tribù" di fan di un prodotto in un contesto in cui per larghi strati sociali è comunque il consumo a definire l'identità (16).

Vengono anche offerte forme di "impegno sociale" soft che si costruiscono intorno a programmi in cui è difficile distinguere se l'impegno sociale (e "ambientale") sia solo l'appendice (volta a soddisfare un residuo moralistico) di un nucleo ludico-edonistica o viceversa (vedi oltre il ruolo di Legambiente ma anche Slow Food).

Dall'altra parte della barricata, ovvero sul versante di quella che era la "classe operaia organizzata" non c'era più a fare da collante l'etica del lavoro, il mito delle "forze produttive", dell'industrialismo apportatore di redenzione sociale (solo che venisse "liberato" da quel piccolo dettaglio rappresentato dai capitalisti).

Guardando le cose ora quando ci si inoltra nel XXI secolo, ovvero da una prospettiva che si fortemente distanziata dalle temperie del XIX e XX secolo, quella che è stata l'ideologia della sinistra, dalla fine del XVIII a quella del XX secolo appare una variante dell'ideologia della modernità, dello sviluppo, della borghesia, caratterizzata da modesti dettagli (in una prospettiva storica di lungo periodo).



Nell'era delle fabbriche e della classe operaia la sinistra, il movimento operaio, il "sindacato di classe" offrivano, però, risorse simboliche e materiali a chi si riconosceva in essi. Lo spirito della solidarietà di classe, un' identità sociale e politica "solida", a tutto tondo, che durava per tutta la vita e persino per più generazioni. In realtà queste identità surrogavano quelle che il capitalismo aveva disgregato costringendo i contadini ad emigrare da valli alpine e da campagne del Sud. verso le peiferie industriali. Nella società precapitalistica le identità solide connotavano in modo univoco e conseguente le sfere del personale, del politico, del sociale. Erano “prigioni”, come dicevano (e dicomo) la sinistra e la borghesia liberal, o strutture di senso che fornivano un un orientamento, una capacità di interpretare la realtà da una collocazione precisa? A giudicare dal disorientamento attuale, dal senso di smarrimento dell'individuo definitivamente atomizzato della tarda modernità viene da dire che smantellando le identità "solide" lo squilibrio del potere si è accentuato.

Nella nuova situazione ("postindustriale) del definitivo tramonto delle identità solide sono emerse bisogni e identità "su misura" spesso slegati dalla dimensione economica (e a maggior ragione produttiva), di affermazione individualistica, sino agli estremi del narcisismo, del relativismo etico, del nichilismo. Per mantenere l'influenza sociale la sinistra ha assecondato la deriva individualistica puntando sui "diritti individuali" (orientamenti sessuali, relativismo morale). In netto contrasto con quanto praticato in precedenza quanfdo, al fine di conquistare il consenso di larghi strati popolari ancora profondamente infuenzati dalla cultura rurale (er cattolica), la sinistra si guardava bene dal confondersi con il radicalismo borghese in tema di morale (di fronte a un'Arci gay quanti militanti comunisti non avrebbero stracciato la tessera?).

L'accentuazione della "cultura dei diritti individuali" (che viene spesso anteposta alle tematiche sociali ed economiche tanto da aver fatto allontanare dalla sinistra la base popolare) ha segnato un frattura antropologica di cui è difficile sottovalutare la portata ma è anche elemento di insanabili contraddizioni. Che si cerca di cavalcare, finché possibile, illudendo, sul lato dell'incertezza e dei rischi e delle nuove povertà che fanno da inevitabile contraltare al nuovo assetto economico e sociale, che la nuova illimitata libertà, il nuovo individualismo, la finanziarizzazione e smaterializzazione dell'economia, la globalizzazione pervasiva, possano ancora essere compatibili con "ammortizzatori" e "garanzie", sia pure ridimensionate, del precedente sistema di welfare.

Per ora le palesi contraddizioni (come quelle tra l'asserito "liberalismo" e il sostegno ai monopoli sindacali, il mantenimento del sostituto d'imposta, il mantenimento di un apparato statale costoso e dispotico, tra l'accoglimento entusiastico di alcuni aspetti della globalizzazione e la pretesa di poterne controllare le conseguenze destabilizzanti dello stato sociale)  "si tengono". Gestite dalla posizione di una forte egemonia culturale le contraddizioni diventano anche un momento di forza. sono. Ma non durerà ancora per molto. Il capitalismo neoliberista va per la sua strada.

Stato e istituzioni politiche rappresentative sono svuotati ma la sinistra si aggrappa ad essi perché, chiusa nei suoi dogmi e forte di strutture di potere già ben radicate nella dialettica tra istituzioni e società, non può più concepire che queste forme sono in rapida trasformazione transeunti e che nello spazio lasciato dalla loro implosione possano sorgere nella speranza di reagire agli implacabili sviluppi del capitalismo nuove istituzioni popolari dal basso (anche senza chiamare in causa impossibili rivoluzioni).


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Note

  1. D. Paccino (1972) L'imbroglio ecologico. L'ideologia della natura. Einaudi, Torino, 1972.

  2. Cfr. Gaspari A., Rossi C., Fiocchi H.C. (1991) L'imbroglio ecologico: non ci sono limiti allo sviluppo, Roma, Vita Nova.

  3. M. Corti, Modernizzazione ecologica La teoria e il programma politico di ristrutturazione industrialista da cui nascono Ogm, biomasse, termovalorizzatori. http://www.ruralpini.it/Commenti13.02.12-Modernizzazione-ecologica.htm

  4. Paccino, op. cit., p. 73.

  5. Ivi. p. 78.

  6. Edgar H. Meyer (1995) I pionieri dell'ambiente. L'avventura del movimento ecologista italiano Milano, Carabà edizioni.

  7. M. Corti (2012) Le contraddizioni del rapporto tra uomo, animali e dimensione selvatica nella tarda modernità. La reintroduzione dei grandi predatori nelle Alpi: tra ideologia della wilderness, biopolitica e conflitto sociale, Studi Trent. Sci. Nat. (2012) 91:83-113.

    http://www.ruralpini.it/file/Materiali%20didattici/Orsi_trentini_e_lupi.pdf

  8. Paccino, op. cit., p. 81.

  9. Ivi, p. 79.

  10. Ivi, p. 92-93.

  11. http://awsassets.panda.org/downloads/morgesmanifesto.pdf

  12. Z. Bauman (2002) Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari.

  13. M. Faucault (1976) Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino.

  14. M. Badiale, M. Bontempelli, Il mistero della sinistra, Graphos, Genova 2005, p.11.

  15. P.P. Paolini. Aboliamo la tv e la scuola dell'obbligo Corriere della Sera, 18 ottobre 1975. http://www.corriere.it/speciali/pasolini/scuola.html

  16. V. Codeluppi (2008) Manuale di sociologia dei consumi, Carocci, Roma.



 

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