(28.12.13) Robi Ronza non risparmia critiche all'Expo. Un Expo che potrebbe essere realizzata ovunque, che con il territorio ha relazioni solo simboliche. Ma quello che è più grave passa l'idea che l'alimentazione sia legata solo all'agricoltura vegetale di pianura (meglio se esotica)
Expo 2015: uno show tra
Club Med, New Age e
e Barilla Foundation
(un'agricoltura piatta, vegetale ed esotica dove
gli animali e le Terre Alte non esistono)
di Michele Corti
Lega e sinistra al caviale unite nell'ignorare le Terre Alte. Duro attacco di Robi Ronza contro un Expo che umilia la Lombardia, specie quella delle Terre Alte e della zootecnia, parlando solo di isole, mari e deserti in mome di un globalismo esotico e cosmopolita da subalterni ai poteri mondialisti
Che la Lega Nord esprima una totale inconsistenza politico-culturale lo si sapeva già da tempo, ma quando si va a vedere quali sono i temi dei padiglioni tematici dell'Expo "casca il latte alle ginocchia" (per usare una locuzione lombarda che - non a caso - rende l'idea di quanto la dimensione casearia sia presente nell'immaginario della nostra gente).
Un presidente leghista e un assessore all'agricoltura leghista cosa ci stanno a fare se l'Expo rispecchia una cultura da Pisapia (esponente della Milano bene - rossa per carità - con villa a Santa Margherita ligure)? Boh. Ma forse l'expo esprime anche qualcosa di peggio della cultura del mondo di Pisapia, un esotismo decisamente snobistico ed edonostico (Bellezza, Mondo delle Spezie) appena temperato da un po' di filantropismo terzomondista peloso ("abbondanza, sicurerezza" e... cornucopia per tutti). Roba vagamente New Age, da far impazzire le madamazze attempate della Milano bene che negli anni '80 trafficavano in macrobiotica.
Cosa ci stanno a fare queste marionette della politica se l'Expo della Lombardia parla di mare, di isole e di deserti nel cuore di una regione (non solo la Lombardia) fatta di montagne e di fiumi da esse alimentati? Tolto il riso (introdotto come coltivazione su larga scala dagli Sforza) l'agricoltura di cui parla l'Expo è esotica e rigidamente vegetale. Le Terre Alte semplicemente non esistono. E dov'è la terra del burro, della panna, del mascarpone, degli stracchini, dei formaggi, la celebrata (sia pure spregiativamente) Milano-Paneropoli del Foscolo (pànera = panna in lombardo)?
Non legare un'esposizione mondiale al territorio (se non per vaghi richiami simbolici ai corsi d'acqua pretesto di esercizi di archistar) è la manifestazione del provincialismo in cui è caduta (da tempo peraltro) la cultura delle pseudo classi dirigenti di Milano e Lombardia. Ferme ad una cultura che rinnega il più possibile sè stessa e insegue i miti dell'ipermodernismo senza radici mentre in tutto il mondo ci si riposiziona nel gioco globale valorizzando al massimo anche quelle risorse "localizzate" di capitale culturale e sociale (legate in larga misura all'identità). Così si conferma un destino da "provincia dell'impero" commissariata (da Roma, Bruxelles, Berlino, Washington e chi più ne ha ne metta).
In altri tempi (anni '60-'70) censurare l'identità e la cultura popolare (che in Lombardia sono ampiamente influenzate da una rimossa, ma fortemente presente, dimensione montana) poteva forse fruttare in termini di ambiguo ruolo nazionale della "capitale morale" nonché di proiezione internazionale. Oggi è solo autolesionismo. Ma i "politici" sono lì a fare gli zerbini dei poteri forti e non capiscono o fanno finta di non capire. Viene però da chiedersi anche cosa siano lì a fare (oltre a incassare consulenze) accademici ed esperti e cosa ne pensano Slow Food e Petrini (rientrato abbastanza curiosamente alla grande nel meccanismo Expo dopo la sdegnosa uscita). Al di là dell'entusiasmo per qualche spruzzata rituale di biodiversità e per il tema del "nutrire l'Africa" (che dovrebbe andare oltre l'assistenzialismo peloso neocolonialista) il resto dell'impostazione va bene a Slow Food?
Rompere il conformismo
Per
fortuna ci
sono
intellettuali
come Robi
Ronza che,
rispolverando
i connotati
anticonformisti
e antiborghesi
della
Comunione e
Liberazione
delle origini
(oggi
sopravvissuti
quasi solo
nell'attività
indipendente
di Jaca Book),
rompono le
convenzioni di
ossequio al
politicamente
corretto e
dicono in
faccia alle
marionette del
potere cosa
pensano.
Sui temi dell'Expo Ronza ha avanzato critiche corrosive con un articolo apparso sul quotidiano online "ilsussidiario.net" del 24 dicembre- L'intervento di Ronza è un po' fuori del coro rispetto al ben altro modo di porsi rispetto all'Expo de Il Sussidiario (dove abbondano le leccate a Letta) e di una Compagnia delle Opere che ambisce sempre ad avere il suo spazio nell'evento anche se sa bene che non sono più i tempi che avevano portato alla sua egemonia in Fiera Milano. In ogni caso Ronza, che è voce libera, non le ha mandate a dire (e che si rivolgesse a Maroni e alla Lega, però, è lampante...). Così ha parlato di Expo dalla:
forte dipendenza dall'aristocratico esotismo del National Geographic Magazine nonché dai raffinati supplementi in carta opaca di Repubblica e del Corriere della Sera, peraltro così vicini ai depliant in carta patinata delle agenzie specializzate in esclusivi e costosi viaggi di turismo intercontinentale«intelligente»
Possiamo
vederci anche
un riflesso di
una cultura da
Forum (e del
Center) su
Food and
Nutrition
della Barilla
foundation: ovattati
consessi con
location
bocconiana
(anche se a
Milano c'è una
Facoltà di
Agraria e
Alimentazione
che è la più
importante in
Italia).
Consessi dove
si dice ogni
bene della
"dierta
mediterranea",
che la carne
fa male e
contribuisce
all'effetto
serra (mettendo
sullo stesso
piano carne da
allevamenti
industriali e
quella da
allevamenti
estensivi
sostenibili).
Ma poi si
lasciano nel
vago i nessi
concreti tra
industria
alimentare
global e i
sistemi
agricoli di
approvvigionamento
(forse per non
dire anche che
la materia
prima - semola
e semolati di
grano duro
- dell'industria
pastaia
nazionale
viene da paesi
dove si
trattano i
campi con
pesticidi
vietati in
Italia).
In ogni caso è la cultura del world food system quella espressa dall'Expo, sia pure con tutti i belletti socioecologici con cui il progressismo è capace di presentare il peggior volto del turbocapitalismo. È il carro del world food system a cui quale siamo costretti (o meglio ci costringono) ad attaccarci. Un'occasione in più per organizzare in occasione dell'Expo 2015 eventi alternativi approfittando dei riflettori del circo mediatico. Ma intanto vediamo cosa ha scritto Ronza.
Expo Milano: ovvero il pianeta che non c'è (http://robironza.wordpress.com/2013/12/27/expo-milano-2015-ovvero-il-pianeta-che-non-ce/).
originariamente pubblicato su ilsussidiario.net La colossale svista di un show ripreso dal National Geographic |
di Robi Ronza
È da un pianeta piatto ed esclusivamente vegetale, insomma da un pianeta che non c’è, e da un’agricoltura senza zootecnia, insomma da un’agricoltura che non esiste, che l’Esposizione Universale di Milano 2015 si attende energia per la vita. I 15 padiglioni tematici dell’Esposizione, strumento-chiave della sua proposta culturale, sono infatti rispettivamente dedicati a: Frutta e Legumi; il Mondo delle Spezie; Bio-Mediterraneo: Salute, Bellezza e Armonia; Isole, Mare e Cibo; Agricoltura e Nutrizione in Zone Aride; Riso: Abbondanza e Sicurezza; Cacao: il Cibo degli Dei; Caffè: il Motore delle Idee; Cereali e Tuberi: Antiche e Nuove Colture. Sia la sequenza dei temi che la loro immaginosa formulazione si raccomandano all’analisi di psicologi sociali eventualmente interessati allo studio del proverbiale “immaginario collettivo” di coloro che li hanno formulati. Vi si intravede una forte dipendenza dall’aristocratico esotismo del National Geografic Magazine nonché dai raffinati supplementi in carta opaca di Repubblica e del Corriere della Sera, peraltro così vicini ai dépliant in carta patinata delle agenzie specializzate in esclusivi e costosi viaggi di turismo intercontinentale “intelligente”.
Non è però questo che qui ci interessa approfondire, quanto la sorprendente distanza tra il pianeta dell’Expo Milano 2015 e il pianeta della realtà: un divario che peraltro, qualora lo si voglia, si farebbe ancora in tempo a colmare. Le aree montane ricoprono circa un quarto della superficie terrestre, sono abitate da un quinto della popolazione mondiale e da esse dipende il rifornimento idrico di oltre la metà degliabitanti del globo. Venendo più vicino a noi, è montuoso o di alta collina il 72 per cento del territorio italiano e il 40 per cento di quello lombardo. Oggi più che mai, in un’epoca in cui l’urgenza del riequilibrio dell’insediamento umano sul territorio fa diventare di grande attualità la riscoperta delle “terre alte” come risorsa e non più come problema, che Expo Milano 2015 le abbia ignorate è davvero increscioso. Non meno incresciosa, se fosse possibile, è l’altra colossale distrazione di Expo, quella relativa appunto alla zootecnia. È una distrazione già sorprendente per così dire a corto raggio, considerato che la Lombardia, con oltre un milione e mezzo di capi di bovini e oltre 4 milioni di suini, è di gran lunga il maggior produttore di latte e di carne d’Italia; ma tanto più lo diventa se lo sguardo si allarga al resto del mondo. Molte delle maggiori agricolture e agro-industrie del globo, dall’Australia agli Stati Uniti, dal Brasile all’Argentina e all’Uruguay, sono largamente e spesso prevalentemente basate sull’allevamento, che comunque ha grande tradizione e presenza anche altrove. Tra l’altro sin dal Medioevo in Europa, e particolarmente in Italia, partendo dalla valorizzazione delle carni e del latte si avviarono delle maestrìe che – scavalcate ma non travolte dalla moderna industria alimentare – oggi riemergono con successo, trovando spazi in un mondo di consumatori nuovamente interessati ad alimenti di qualità e di valore anche identitario. Con buona pace del cacao “cibo degli Dei” o del pur affascinante “Mondo delle Spezie”, che dire allora del mondo – forse meno affascinante agli occhi dell’intellighenzia urbana, ma non per questo irrilevante – dei 205 milioni di bovini del Brasile, degli oltre 94 milioni degli Stati Uniti, dei quasi 50 milioni dell’Argentina? Oppure dei quasi 73 milioni di ovini dell’Australia e degli oltre 32 milioni della Nuova Zelanda? Lo sviluppo della capacità di procurarsi carne con l’allevamento e non più solo con la caccia, e la scoperta della possibilità di trasformare un alimento importante ma non conservabile come il latte in un cibo a lunga conservazione come il formaggio, furono tappe fondamentali dello sviluppo umano. E lo stesso dicasi, con particolare riguardo alla civiltà occidentale, per quanto concerne la geniale valorizzazione e conservazione della carne suina, grazie a cui già sin dal primo Medioevo l’uomo europeo poté superare senza sfinirsi i rigori dell’inverno: un’invenzione di importanza decisiva, non a caso subito celebrata nel ciclo dei “Mesi dell’Anno” di cui l’Antelami ci lasciò testimonianza esemplare nel battistero di Parma.
Auguriamoci dunque che Expo Milano 2015 rimedi al più presto a queste sue due colossali distrazioni.