di Michele
Corti
ll
movimento
contro le
biomasse
all'interno
del nuovo
panorama dei
movimenti per
la difesa
della salute e
del territorio
ha molti
connotati del
nuovo
movimento per
l'ecologia
sociale.
Supera
divisioni
ideologiche e
unisce
trasversalmente
gruppi sociali
e territori.
Sposta al di
fuori dei
tradizionali
ambiti urbani
la scena dei
movimenti e
costringe
l'ambientalismo
istituzionalizzato
a smascherare
il suo ruolo a
supporto del
sistema.
La
valutazione
delle
implicazioni
ambientali
delle scelte
socioeconomiche
ha assunto un
ruolo sempre
più
importante,
sempre più
condizionante
nei confronti
dei decisori
politici ma
anche
dell'opinione
pubblica,
indotta ad
esprimere il
proprio
consenso nei
confronti di
politiche,
tecnologie,
prodotti
“ecologicamente
corretti”. Con
il rischio che
le patenti
green
diventino
nuovi
strumenti di
manipolazione
e di inganno.
I
gruppi
industriali e
finanziari
hanno appreso
precocemente
ad utilizzare
il "green
washing”,
concesso da un
ambientalismo
compiacente,
per
legittimare
scelte in
grado di
rafforzare il
proprio
potere. Ne è
discesa anche
una
teorizzazione
sofisticata
che indica nel
paradigma
della
“modernizzazione
ecologica” le
possibilità di
ristrutturazione
del sistema
tecnoindustriale
coniugando
tutela
ambientale e
profitto.
Tutto
ciò non serve
solo la
smorzare la
carica di
critica
sociale ma
spinge anche
all'adozione
di soluzioni
per evitare la
“catastrofe
climatica” che
a spesso non
consentono
reali vantaggi
ambientali ma
rilanciano
settori
industriali
bolsi, aprono
nuovi lucrosi
mercati
sostenendo il
tasso di
profitto e
creando nuovi
equilibri
economici a
svantaggio di
gruppi con
meno
potere.
Inutile
sottolineare
come altre
emergenze
ambientali -
altrattanto
gravi rispetto
al cambiamento
climatico -
non siano
contrastate
con
altrettanta
determinazione.
L'estensione
delle "acque
morte" a causa
dell'inquinamento
trasportato
agli estuari
di grandi
fiumi, la
perdita sempre
più rapida di
specie animali
e vegetali,
l'inquinamento
sempre più
pervasivo
degli esseri
viventi e
delle catene
alimentari con
composti
tossici
persistenti ad
azione tossica
e di
interferenti
endocrini, la
perdita di
fertilità dei
suoli sono
emergenze
altrettanto
gravi del
riscaldamento
globale ma il
loro contrasto
metterebbe in
discussione i
fondamenti del
sistema
industriale e
consumista.
Meglio
concentrarsi
sui bilanci di
CO2, spesso
dei veri e
propri giochi
di prestigio e
imbrogli
"scientifici"
ma tali da
consentire di
benedire come
"ecologiche"
soluzioni che
sono
pesantemente
impattanti
sulle matrici
ambientali e
sugli esseri
viventi.
Bilanci che il
sistema ha
imparato a
mercificare
disinvoltamente
(vedi il
traffico dei
"crediti di
carbonio" che
copre la
distruzione di
habitat ricchi
di diversità
in ambienti
tropicali -
ricchi ma
fragili - con
"compensazioni"
ridicole
rappresentate
da neoboschi
di zone
temperate
poveri di
biodiversità).
Il modello dei
"crediti di
carbonio" è
perfetto per
il business
verde: incassi
dove
distruggi,
incassi dove
"compensi".
Crediti
per la perdita
della salute,
la perdita
della
biodiversità ,
la perdita
della
fertilità
della terra
non sono
previsti.
La
logica dei
"bilanci dei
gas serra" si
spinge anbche
ad aggravare
l'inquinamento.
Nella Pianura
padana la
priorità
dovrebbe
essere quella
di ridurre le
combustioni,
le emissioni
di
particolato,
ossidi di
azoto e di
zolfo,
composti
organici
volatili.
Invece con la
scusa di
presunti
"risparmi" di
CO2 i
cittadini
pagano in
bolletta gli
incentivi per
l'energia
elettrica
prodotta in
modo
inefficiente e
inquinante con
le biomasse,
pagano con la
loro salute (e
con i tiket
sanitari),
pagano con le
tasse le multe
che la UE
impone
all'Italia per
la violazione
delle norme
anti smog. Se
c'è
un'ecologia
antisociale è
proprio questa
che isola
strumentalmente
un problema
dal contesto
locale e
dall'insieme
del danno
complessivo
che il sistema
tecnoindustriale
causa agli
ecosistemi del
pianeta e
avvelena e
impoverisce
gli strati
sociali deboli
con la green
economy.
Le
"rinnovabili"
come modello
di convergenza
tra
ambientalismo
e gruppi
industriali e
finanziari
Su
questo terreno
si è
realizzata la
convergenza
tra il
movimento
ambientalista
istituzionalizzato
(Legambiente
in primo luogo
ma anche WWF e
Green Peace) e
gli apparati
finanziari,
scientifici e
industriali
all'insegna
della greed
economy.
Un
terreno
specifico, che
ha consentito
ampie
convergenze di
interessi, è
senz'altro
quello delle
cosiddette
“energie
rinnovabili”.
Presentate
come una
stringente
necessità, ai
fini del
raggiungimento
dei target
previsti dal
protocollo di
Kyoto per la
riduzione
delle
emissioni di
gas
climalteranti,
le
“rinnovabili”
sono diventate
un vero far
west per la
speculazione
finanziaria
(dai vecchi
gruppi del
capitalismo
relazionale,
ormai
allontanatosi
dalla
dimensione
manifatturiera,
alle coop, a
giocatori di
borsa e
magliari
improvvisati
di ogni
estrazione)
facendo
dell'Italia un
terreno di
conquista
dell'industria
estera
(tedesca ma
anche cinese)
senza una
precisa
strategia che
sincronizzasse
l'erogazione
di incentivi
per la
produzione si
energia
rinnovabile (o
presunta tale)
e dinamiche di
ricerca e
sviluppo con
il risultato
di
compromettere
anche quei
settori
tecnologicamente
avanzati (nel
campo dello
sfruttamento
dlel'energia
solare)
.
Grazie
ad incentivi
enormemente
superiori alla
media europea
e a procedure
autorizzative
super
semplificate e
velocizzate
degli impianti
(si tratta di
opere che - se
approvate -
vengono
spregiudicatamente
classificate
“di pubblica
utilità,
urgenti e
indifferibili”).
Il risultato è
uno scandaloso
squilibrio tra
super-profitti
privati e
costi sociali,
scaricati
sulle comunità
locali e
sull'insieme
degli utenti
elettrici a
fronte di
risparmi
scarsi, se non
nulli, di
energia
fossile e di
emissioni. Ciò
mentre sul
fronte del
risparmio e
dell'efficienza
energetica si
fa molto poco
per il solo
fatto che si
dovrebbero
incentivare
famiglie,
piccole
imprese,
operatori
diffusi.
L'ambientalismo
L'ideologia
ambientalista
impegnata a
supporto della
“modernizzazione
ecologica”
continua a
riciclare il
proto-conservazionismo
ottocentesco,
l'ideologia
nord-americana
della wilderness,
perseguendo la
tutela di
singoli siti
(“santuari”
della natura)
e di singole
specie
“carismatiche”.
Ne
discendono
politiche che
incidono
negativamente
sulle comunità
rurali di ogni
continente e
che
favoriscono lo
spopolamento e
la
concentrazione
nelle aree
urbanizzate,
che minano
economie
autosufficienti
e realmente
sostenibili in
nome di una
ideologia
antiumanista
che arriva
spesso a una
vera idolatria
per la “natura
selvaggia”.
Un'ideologia
dove il
carattere
egoistico,
autoritario,
tecnocratico
delle
“politiche
della natura”
rimane però
celato e chi
contesta che
viene
stigmatizzato
come
“oscurantista”
e
“antiscientifico”.
In questo
ambientalismo
la matrice
sociale ed
ideologica è
sempre quella
del privilegio
sociale (basti
ricordare il
ruolo di
spicco nel WWF
dei principi
Bernardo
d'Olanda e
Filippo
d'Inghilterra
e di
personaggi
legati
all''establishment
e desiderosi
di mantenere
attraverso i
"Parchi" una
forma di
controllo sui
paesi
ex-coloniali).
Ma essa è ora
ben
mimetizzata
anche perché,
con
l'obiettivo di
coprire ogni
ambito
dell'ambientalismo
Legambiente ha
in qualche
modo fatto
concorrenza al
WWF sullo
terreno stesso
del
"conservazionismo",
della gestione
delle "oasi" e
delle
"riserve" e la
partecipazione
del WWF al
movimento
antinucleare
ha in qualche
modo
"sgodanata"
come
"democratica e
progressista"
un'associazione
nata tra
l'èlite
dell'alta
borghesia e
dell'aristocrazia
e che i primi
"ecologisti
politici"
degli anni '70
bollavano come
"di destra".
In realtà la
matrice
antidemocratica
dell'ambientalismo
è sempre
presente. Il
trucco per
svolgere il
suo ruolo di
supporto al
sistema
sociale
dominante
senza
apertamente
mostrare il
carattere
antipopolare
consiste
nell'aver
inventato e
poi
istituzionalizzato
un ruolo di
“rappresentanza
dell'ambiente”,
ovvero di un
concetto
astratto e al
di fuori della
sfera sociale.
Ma siccome
l'azione
dell'ambientalismo
si svolge sul
piano sociale
alla fine è
impossibile
che possa
agire al di
fuori degli
interessi di
una parte o
dell'altra
della società.
In
ogni caso
l'ambiente è
un soggetto
che non esiste
e che comunque
è del tutto
muto, incapace
di contraddire
i suoi
“rappresentanti”.
Agire in nome
dell'ambiente
è come agire
in nome della
"giustizia
sociale". Dal
momento che
cosa è buono o
cattivo per la
"giustizia
sociale" o
l'"ambiente"
lo decidono
gli
autonominati
rappresentanti
(che diventano
autoreferenziali)
diventa ovvia
la
contraddizione
tra questi
movimnti e la
democrazia. In
realtà
l'ambientalismo
è autentico
erede del
giacobinismo
(che
interpretava
"la volontà
della
nazione").
Basti
osservare
l'atteggiamento
di sospetto
per tutto ciò
che è lasciato
alla decisione
delle comunità
locali, la
palese
predilezione
dell'ambientalismo
per i
meccanismi
deliberativi
affidati alle
valutazioni
dell'expertise
scientifico,
l'empatia con
le
amministrazioni
e gli organi
centrali dello
stato e degli
organismi
sovranazionali.
L'ambientalismo
“di regime”
rappresenta un
alibi per il
sistema
tecnoindustriale
(che raggiunge
il vertice
dell'ipocrisia
quando grandi
gruppi
industriali
sponsorizzano
le “oasi” del
WWF”), un
fattore di
stabilizzazione
sociale
fornendo
legittimazione
al potere
economico, un
grimaldello
ideologico
utile a
giustificare
l'attacco alle
comunità
locali, alle
comunità
rurali
tradizionali e
- in generale
– a
ridimensionare
e
relativizzare
il valore
etico della
persona umana
e a ridurre i
bisogni umani
a variabile
dipendente. E'
anche un
potente
fattore di
controllo
sociale dal
momento che
solo le azioni
o le proteste
riconosciute
"a valenza
ambientale"
dall'ambientalismo
istituzionale
hanno una
legittimità,
un imprimatur
che evita loro
lo stigma di
Nimby.
Il
movimento dal
basso
A
fronte di
questo
ambientalismo
si registra
l'emergenza
nei paesi
ricchi, in
quelli
emergenti e in
quelli poveri
di movimenti
ecologici grass
roots,
legati alla
difesa delle
sementi
locali, contro
il land
grabbing,
il dominio
delle
multinazionali,
le monocolture
insostenibili
(specie quelle
energetiche),
la creazione
di circuiti
"alternativi"
di produzione
e
distribuzione
dei prodotti
alimentari.
Si
tratta di
un'ecologia
democratica
(in senso
etimologico) e
sociale che
emerge anche
nei movimenti
locali contro
la nocività
ambientale, la
gestione
affaristica
dei rifiuti
che alimenta
cicli di
combustione e
di
allargamento
della
produzione dei
rifiuti
stessi, la
realizzazione
di grandi
opere a forte
impatto
(infrastrutture
di trasporto
com la Tav,
centrali
energetiche)
ma anche
contro l'uso
massivo di
pesticidi in
comprensori di
agricoltura
specializzata
e intensiva
(melo, vite).
Un'ecologia
sociale che si
riallaccia -
ma solo per
certi versi -
all'ecologia
politica degli
anni '80 nata
sull'onda del
movimento
antnuclearista
e delle lotte
in fabbrica
contro la
nocività
(imposte al
sindacato,
spesso
attardato alla
monetizzazione
in busta paga
della salute,
dalla base
operaia).
Nella grande
svolta degli
anni '80 con
la perdita di
centralità
della fabbrica
e l'avvento
della tarda
modernità i
condizionamenti
ideologici
dell'ecologia
politica ne
misero a nudo
la debolezza
tanto che i
protagonisti
di quella
stagione si
ritrovarono
dopo pochi
anni inseriti
nei consigli
di
amministrazione
di grandi
società
responsabili
di
sfruttamento e
di
inquinamento.
I
nuovi
movimenti
dell'ecologia
sociale
sviluppano la
loro critica
radicale al
modello di
sviluppo
dominante al
di fuori di
schemi
ideologici,
attraverso la
loro azione.
Si tratta di
movimenti che
solo la
malafede può
definire
“egoistici”
(NIMBY) dal
momento che
l'opposizione
si accompagna
a motivazioni
che riguardano
scelte
complessive
delle
politiche di
gestione dei
rifiuti e
dell'energia
che rimandano
a modelli di
consumo
improntati
alla sobrietà,
alla riduzione
dell'usa e
getta, degli
inutili
imballaggi,
degli inutili
trasporti
(acqua
minerale
lombarda in
centro Italia
e
viceversa).
Che
contestano la
scelta della
combustione
dei rifiuti
(con il
recupero
lucroso di
energia
elettrica
incentivata).
Che pongono il
problema dei
costi umani di
una crescita
fine a sé
stessa
sostenuta
dall'ideologia
liberista.
Questi
movimenti –
spesso
contrastati
proprio
dell'ambientalismo
istituzionale
- pongono il
problema
ambientale in
modo concreto
e a partire
dalle comunità
locali, della
qualità
dell'aria
respirata,
dell'acqua,
del cibo,
della
ricostituzione
di relazioni
socioeconomiche
locali
virtuose quali
premessa di
una realtà
locale vitale
in grado di
ridurre
dipendenza
economica e
imposizione di
impatti
ambientali. Il
rapporto tra
tutela
dell'ambiente,
democrazia
(partecipazione)
e autonomia è
quindi
ribaltato
rispetto al
giacobinismo,
al
dirigismo,
al
tecnocratismo
verde.
Un
movimento che
non dice solo
no
A
smentire le
comode
interpretazione
di una
“esclusiva
dimensione
oppositiva”
vale la pena
ricordare come
queste
esperienze
(anche in
Italia) si
fanno
protagoniste,
a proprie
spese, di un
monitoraggio
ambientale
capillare che
supplisce le
colpevoli
carenze del
sistema di
controllo
ambientale
degli enti
istituzionali
e la sempre
più palese
crisi dei
sistemi di
conoscenza
“esperti” e
scientifici
(vedasi caso
Taranto dove
solo dopo le
analisi
eseguite
autonomamente
e l'accumulo
di dati da
parte delle
associazioni
le istituzioni
preposte hanno
riconosciuto
la gravità
della
situazione).
Le
conoscenze
“popolari”
legate alla
capacità di
percezione
delle
relazioni
ambientali che
si instaurano
in un
territorio a
seguito di
interventi
dall'esterno
hanno poi
dimostrato di
essere in
grado di
individuare i
rischi più
precocemente
delle
strutture
scientifiche.
In un mondo in
rapida
trasformazione,
fortemente
interconnesso
e sempre più
complesso la
scienza nata
con la
modernità ha
oggi bisogno
di troppo
tempo per
accumulare
evidenze
empiriche dei
nessi tra
cause ed
effetti.
Questa
dimensione
conoscitiva
può dialogare
costruttivamente
con la scienza
solo che
quest'ultima
scenda da un
piedistallo
sul quale non
ha ragione si
stare. Il
tutto nel
quadro di un
più estesa
applicazione
del principio
di precauzione
e di una
gestione
partecipata,
democratica e
comunitaria
dei controlli
ambientali,
della
valutazione
dei rischi e
nella
elaborazione
delle
soluzioni ai
problemi
ambientali.
Il
rafforzamanento
di queste
esperienze di
ecologia
sociale è
condizionato
alla loro
capacità di
reagire alla
crisi
ecologica a
quella
economica a
quella di
caduta
verticale
della capacità
della politica
di
rappresentare
il bene comune
e delle
istituzioni di
mediare tra
gli interessi
sociali. Una
reazione che
per essere
efficace deve
fornire
risposte su
tutti e tre i
piani:
ecologico,
economico-produttivo,
politico-istituzionale.
Nella
Grecia ridotta
alla miseria è
con l'economia
informale e
con la
crescita di
reti di
solidarietà e
di assistenza
al di fuori
delle
istituzioni,
sottratte ai
diktat delle
politiche
europee che la
società trova
opportunità di
sopravvivenza.
Ma è anche
sottraendo le
istituzioni di
base (i
comuni) alla
dipendenza
gerarchica e
accenduandone
il ruolo di
istituzioni
comunitarie
permeabili
alle istanze
dal basso di
partecipazione
attiva
rispetto a
quello
burocratico-amministrativo,
di propaggine
dello stato
(quello
svuotato di
sovranità e il
super stato
europeo).
Risolvere
in ambito
locale
problemi di
produzione e
distruzione
dell'energia,
del cibo, di
gestione del
rifiuto
nell'ottica di
valorizzazione
delle risorse
endogene e del
capitale umano
staccandosi
dalle mega
reti e dai
sistemi
planetari
significa
creare
occupazione e
ridurre
dipendenza e
impatti
ambientali. Lo
stesso nel
campo dei
servizi
sociali,
educativi,
culturali dove
l'autogestione
e la
flessibilità
di una
gestione
comunitaria
consentono di
scongelare
risorse umane
e materiali
fuori dalla
rigidità degli
schemi
burocratici.
Senza
incrementare
il PIL ma
migliorando il
grado di
benessere
reale.
Il
servizio di
commenti cui
ci affidavamo
è cessato
improvvisamente.
Ci scusiamo
con i lettori
per
l'inconveniente
che non
dipende da
noi. Presto
avvieremo un
nuovo sistema.