(15.08.13) Da quando ci sono meno risorse per il business dell'anti-incendio i media fanno meno grancassa... e gli incendi diminuiscono. Ma si profilano nuove speculazioni che impediscono la prevenzione vera
Incendi boschivi: le verità scomode
(sgonfiato il business dell'anti-incendio
ci sono nuovi sciacalli in agguato)
di Michele Corti
La vera prevenzione degli incendi boschivi si fa recuperando le superfici incolte all'agricoltura e alla pastorizia. Ma gli interessi coalizzati dell'ambientalismo, del business delle aree protette (e "crediti di carbonio") e della la burocrazia forestale delle regioni lo impediscono. L'amaro sfogo di Giancarlo Moioli, tecnico della Comunità Montana Valle Seriana (Bg) con trentennale esperienza nella lotta agli incendi boschivi (e nella vera prevenzione) che abbiamo intervistato dopo gli incendi delle scorse settimane
La prima cosa che Moioli ci dice appare sconcertante per chi non è addetto ai lavori, ma serve a inquadrare subito il problema:
"Nel
corso di tanti anni, durante i quali mi sono confrontato con il
problena degli incendi boschivi, ho subito una profonda metamorfosi: ho
capito come la guerra (in questo caso agli incendi) prima o poi la
perdi. Non dobbiamo aver timore a riconoscere pubblicamente che ci sono
in gioco grossi interessi economici e fattori di prestigio personale
dietro l'audience mediatica suscitata dalle notizie sugli incendi
boschivi".
Il nesso tra interessi economici e audience mediatica da una parte e numero degli incendi dall'altra appare immediato solo che si consideri che, dopo gli anni '90, il fenomeno degli incendi boschivi appare in netto calo. In Italia gli incendi boschivi hanno raggiunto l'apice tra gli anni '80 e '90.
Fonte: Lovreglio R., Marciano A., Patrone A., Leone V. (2012) Forest fire motives in Italy: preliminary results of a pilot survey in the most fire-affected Provinces, Forest@ 9 (4): 137-147 .
Nel decennio1971-1980 gli incendi boschivi sono stati 6.964, nel 1981-1990 erano saliti a 11.348, nel 1991-2000 erano ancora 10.576, mentre nel 2001-2010 sono scesi a 6.857 (Lovreglio et al., 2012) . Il caso della Lombardia, che dispone di un data-base sugli incendi boschivi che risale all'inizio degli anni '60, consente di mettere in evidenza come in quei tempi (quando la società rurale ancora "si teneva") il fenomeno fosse di dimensioni estremamente meno rilevanti di quelle assunte in seguito.
Che
cosa è successo tra il 1960 e gli anni '90? Due cose: da una parte
l'abbandono dell'agricoltura di montagna, dall'altra l'aumento dei fondi
per la "lotta" agli incendi boschivi e l'aumento della diffusione dei
media.
Piano AIA Regione Lombardia 2010-2012
Più incendi in Tv = più nuovi incendi
Perché
gli incendi calano? Semplice: si spende di meno e se ne parla di meno.
Gli incendi boschivi sono stati per molti anni la notizia martellante
dell'estate. Perché non vi erano altre notizie da dare? No. Perché
parlare molto di incendi faceva scattare in soggetti psicologicamente
disturbati la spinta emulativa. Chi guadagnava dal lucroso business dei
sistemi di rilevamento terrestri, aerei satellitari, della fornitura
dei mezzi e attrezzature alle squadre AIB (anti incendi boschivi) si
fregava le mani.
Meno soldi a disposizione per la lotta agli incendi boschivi, meno business, meno interesse dei media e meno incendi. Quest'anno il catastrofico incendio (innescato peraltro dai fulmini) che ha interessato il Friuli dal 14 luglio al 12 agosto, non ha ricevuto molta attenzione. Anche se è stato forse il peggiore mai divampato in Italia, sia per la durata che per l'estensione (superiore a 1.000 ettari). Sono dovuti intervenire anche mezzi aerei dalla Carinzia. Grossi incendi, anche in Sardegna, dove sono stati chiesti rinforzi di uomini e di mezzi dal Continente. Incendi anche in Sicilia. Ma sui TG imperversa la cronaca nera, il "femminicidio" e agli incendi si dedica poca o nulla attenzione.
Meglio
così. Meglio che si parli poco di incendi boschivi. Da quando non si
parla più di pietre scagliate dai cavalcavia e di traversine sui binari
dei treni ("per vedere l'effetto che fa") il fenomeno è quasi cessato
(purtroppo non del tutto ma i media, saggiamente, tacciono).
In realtà qualche polemica c'è stata. Si è sottolineato che fino allo scorso anno la flotta di Canadair della protezione civile era costituita da 30 velivoli.
La polemica sulla dismissione della flotta aerea sarebbe apparentemente
sacrosanta ma Moioli osserva: "è inutile avere aerei sulla carta quando
per mancanza di risorse per la manutenzione li si deve tenere a terra".
In passato, però, il costo della flotta anti-incendio della protezione civile era esorbitante. C'erano parecchi bimotori Chinnock e i grossi aerei da trasporto G222, entrambi pochissimo utilizzati. Un'ora di servizio di un Chinoock costava 220 milioni delle vecchie lirette (contro 25 mila di un Canadair).
Erano enormi anche le spese delle Regioni che affittavano mezzi aere anti-incendio a go go.
Oggi le regioni, pur spendendo ancora milioni e milioni per i servizi di elicotteri anti incendio, hanno adottato dei sistemi di appalti che garantiscono la disponibilità (variabile in funzione dei mesi) di un certo numero di elicotteri assicurando comunque un numero minimo di ore di volo alle ditte anche se non vengono effettuate. Le ore eventuali in più sono riconosciute ma a tariffe scontate. In questo modo le ditte guadagnano di più se non ci sono incendi. Certo se proprio non ce ne fossero più ... non ci sarebbero nemmeno gli appalti.
In passato più i boschi bruciavano e più venivano affittati elicotteri a tariffe elevate. In questo modo più c'erano incendi e più i servizi aerei fatturavano. Un incentivo pericoloso.
Motivazioni vere e mitiche
Intorno
agli incendi boschivi si era sviluppata tutta una mitologia, spesso
alimentata dai media e dagli ambientalisti. Lo stesso Piano AIB della
Regione Lombardia 2010-2012 insiste nel ritenere che:
"Spesso
gli incendi dolosi derivano dall’erroneo convincimento che le aree
boscate percorse e/o distrutte dal fuoco possano successivamente essere
utilmente utilizzate a vantaggio di interessi specifici, connessi alla
speculazione edilizia, all’esercizio della caccia ed al bracconaggio,
all’ampliamento ed al rinnovamento delle coltivazioni agrarie".
Si tratta di motivazioni che potevano forse valere in passato. Da decenni sono in vigore norme sin troppo restrittive sull'utilizzo dei terreni percorsi dal fuoco. La Legge quadro n 353 del 200 in materia di incendi boschivi ha generalizzato e rafforzato queste misure.
Ma sono sempre sagge? Il divieto di pascolo sui terreni percorsi dal fuoco risulta spesso del tutto controproducente. Nelle condizioni della montagna alpina (e prealpina), ben diverse da quelle mediterrane, il mancato utilizzo delle superfici percorse dal fuoco determina un forte sviluppo di una vegetazione arbustiva e di erbe alte che rappresenta la condizioni migliori per l'innesco degli incendi (qui concentrati nel periodo febbraio-marzo in presenza di Föhn ein assenza di copertura nevosa). Sono le stesse statistiche riportate dal Piano AIB della regione che dicono che il 70% degli incendi si sviluppa entro 10 anni dall'ultimo episodio. Di fatto gli incendi interessano le stesse aree. Quelle prese di mira dai piromani e quelle dove l'innesco è agevole grazia all'abbondanza del materiale combustibile a terra e negli strati bassi della vegetazione (biomassa vegetale necrotizzata).
Quanto alla speculazione edilizia viene da ridere al solo pensiero che si continui a sostenere questa "motivazione". La stragrande maggioranza degli incendi interessa superfici impervie, dove nessuno andrebbe mai ad edificare. Più credibile la motivazione che attribuisce ai piromani volontà di "ritorsione" contro le aree protette e i vincoli imposti. Essa comunque spiega solo gli incendi in ben determinate aree ed appare marginale.
Lo stesso Piano regionale deve riconoscere, però, tra le motivazioni degli incendi boschivi: "la prospettiva di creare occupazione nell’ambito delle attività di vigilanza antincendio, di spegnimento e di ricostituzione boschiva". All'occupazione bisognerebbe aggiungere il profitto (o quantomeno il fatturato). Su questo punto ci pensa Moioli a fa capire che gli interessi economici sono tutt'ora molto forti:
"Quanti dispositivi (costosissimi) di protezione individuale (DPI) vengono venduti ogni anno da ditte private alle organizzazioni antincendio? Vestire un volontario con dispositivi idonei oggi comporta una spesa minima di 2.000 €; se un solo Ente ha un centinaio di volontari da gestire, ben si comprende quale business ruoti intorno.Come ho già segnalato più volte, è abnorme l'investimento di risorse pubbliche per vestire e tutelare migliaia di persone che, spesso, non intervengono per anni e anni".
La grande "esposizione mediatica" goduta anni fa dagli incendi boschivi non induceva solo l'emulazione. Vi era anche un meccanismo ancora peggiore. Nelle squadre di volontari si inserivano personaggi con la "sindrome di Rambo", assetati di adrenalina o convinti di poter conquistarsi un ruolo da eroi, da pompieri di NY l'11 settembre. Una minoranza deviante, ma in grado di fare danni. Gente che desidera apparire in TV o rilasciare interviste ai giornali locali bardata di tutto punto. Per loro la mancanza di incendi è una privazione.
Moioli
racconta che, nella sua lunga esperienza, ha imparato a inquadrare gli
elementi psicologicamente sofferenti, sempre in aspettativa
dell'emergenza, che quando non scoppiano incendi dichiarano apertamente
di essere preoccupati di di rimanerre "disoccupati". Quanto dice Moioli
trova conferma nella decisione assunta quest'anno dalla Regione Liguria:
d'ora in poi le Dotazioni di Protezione Individuale e le assicurazioni
se le dovranno pagare di tasca loro i volontari .
Pare un assurdo ma questo è
un modo per ridurre lo spreco di costose attrezzature (usate, a volte,
per farne sfoggio) e per evitare che, chi nutre ambigue intenzioni e
propensioni, entri nelle squadre AIB. Moioli ricorda anche che:
"
(...) ancora più abnorme è la densita di automezzi ad uso speciale che
ormai pullulano in tali associazioni, finanziati attraverso i fondi
regionali ed in alcuni casi direttamente dal Dipartimento Protezione
civile; ci sono squadre che dispongono fino a 3 automezzi fuoristrada
attrezzati con moduli antincendio, pompe ad altissima pressione ecc, del
costo di parecchie decine di migliaia di euro. L''ammortamento ed il
deperimento di tali macchine (inevitabile) supera per costi i benefici
derivanti dallo sfruttamento degli automezzi. Scandalosa è la periodica
messa fuori omologazione delle migliaia di apparati radio in dotazione,
complice la pressione delle aziende che fabbricano tali prodotti, che
spingono sul ministero delle Poste e Telecomunicazioni per far cio',
con la conseguenza che Regione ed enti devono periodicamente predisporre
gare per nuovi acquisti e rottamare apparati perfettamente funzionanti e
poco utilizzati".
La prevenzione è la strada da seguire, ma non crea business
Quando
Moioli dice che la guerra agli incendi è persa in partenza non lo fa
per disfattismo, ma perché ha constatato come, invece che combatterli,
sia meglio prevenirli. Le risorse distolte da una inutile lotta agli
incendi (divampano nello stesso posto dopo pochi anni) potrebbero essere
utilizzate per la prevenzione. Per la lotta agli incendi che non si può
fare a meno di combattere (perché minacciano centri abitati,
infrastrutture, formazioni forestali di importanza protettiva, habitat
di pregio naturalistico) va mantenuta una struttura limitata ma
altamente efficiente.
Ma
su cosa si intende per prevenzione è bene capirsi. Per "prevenzione" le
istituzioni intendono l'avvistamento dei focolai di incendio grazie a
sistemi costosi di rilevamento a terra o satellitare. Quasto tipo di
"prevenzione" che crea business è perfettamente analoga alla
"prevenzione" del cancro di cui parla Veronesi. Veronesi (ma non solo)
scambia "prevenzione" per diagnosi precoce. Ma non dice che la vera
prevenzione si fa spegnendo i camini (e non solo le sigarette),
eliminando completamente l'uso di pesticidi in agricoltura ecc.
Veronesi, al contrario, dice che gli inceneritori non rappresentano un
rischio per la salute. Nel caso degli incendi boschivi la prevenzione si
fa impedendo che gli incendi possano essere facilmente innescati. La
benzina e il vento aiutano i piromani ma se non c'è materiale vegetale
combustibile non servirebbero a nulla.
Nel
citato Piano della Regione Lombardia si ricorda che: il 40% degli
eventi straordinari della serie storica sia stato innescato su terreni
incolti, in stato di abbandono colturale, caratterizzati dall’accumulo
di combustibile fine (erbe, arbusti di piccole dimensioni, foglie
secche…). Il paesaggio dell'abbandono con un "mosaico" di erbe alte,
cespugli alti e bassi, fronde degli alberi a contatto con i cespugli,
rovi e liane è l'ideale per lo sviluppo degli incendi devastanti. Se c'è
solo erba secca a terra il fuoco serpeggia, le fiammelle lambiscono gli
alberi ma la loro corteccia suberosa difende efficacemente il tessuto
vivo. Le cose cambiano drasticamente quando l'erba trasmette il fuoco ai
cespugli e questi ai rami bassi degli alberi. Allora le fiamme
avvolgono gli alberi e si levano alte sino alla sommità delle chiome
trasformando grandi alberi in fiammiferi. Moioli fa riferimento alle
sue esperienze:
"Togliendo materiale vegetale (che diventerà secco col tempo e dunque facile preda per le fiamme) con l’intervento di greggi pascolanti o di bestiame adeguato, limitando la cronaca di incendi sui mass media, pian piano il fenomeno si riduce sin quasi a scomparire. Anno dopo anno (non lo dico io, lo affermano le due tesi di laurea in scienze agrarie prodotte presso l’Università di Milano) gli incendi nelle aree pascolate scompaiono; nelle zone vicine, in una sorta di “mancato tam tam degli indiani” anche altri versanti abbandonati e non pascolati non vengono più attaccati dal fuoco. Insomma i piromani si “dimenticano” di bruciare!"
Eresie
Purtroppo
in Italia (a differenza di paesi meno burocratizzati e meno corrotti)
la valorizzazione degli animali, dei greggi e delle mandrie in funzione
anti-incendio è considerata un'eresia. Una bizzarria.
L'uomo, nella valorizzazione delle ampie distese di superfici montane a altocollinari si è sempre avvalso dei suoi più fedeli e utili amici: gli animali domestici. I quali hanno però un grande difetto agli occhi dell'economia del profitto: sono molto economici, si pagano da soli.
Pascolando mantengono spontaneamente le fasce tagliafuoco, riducono la quantità di materia vegetale secca che si accumula a terra, contengono lo sviluppo dei cespugli, "potano" i rami bassi degli alberi che possono essere facilmente incendiati. Mantenendo praticabili con i loro spostamenti sentieri e passaggi consentono l'accessibilità - in caso di necessità - delle squadre anti incendio che operano a terra. Chi lucra sulla "lotta agli incendi" ha troppo da perdere.
Sulla carta negli ultimi anni c'è stata qualche timida modifica alle leggi forestali improntate al forestalismo ideologico spinto, al paradigma della specializzazione ("qui è bosco produttivo o protettivo, là è pascolo") , ma con limiti ancora evidenti. Così, mentre a parole - dopo tante sollecitazioni da parte di non pochi sindaci e tecnici - si è iniziato ad aprire all'idea di un uso multifunzionale del bosco, all'idea stessa del pascolo in funzione di prevenzione degli incendi boschivi , dall'altra la stessa Regione Lombardia (Direzione Sistemi Verdi e Paesaggio) frena .
Sclerosi tecnoburocratica
Non aiutano a cambiare le cose il fatto che le modalità di concessione dei contributi previsti dal Piano di sviluppo rurale per il pascolo escludano le superfici boscate e cespugliate. Questo disincentiva i pastori dal mantenere le aree marginali degli alpeggi e causa la graduale perdita di superfici per espansione dei cespuglieti e neoformazioni. Di recente a causa del "Refresh", ovvero del controllo satellitare delle superfici ammesse a premio PAC, gli allevatori si sono visti decurtare di molto i contributi, quando non sono stati chiamati a restituire quelli già incassati.
Non va poi dimenticato che la mentalità vincolistica, quella ispirata dal conservazionismo ambientalista, ha posto sotto tutela con la Rete Natura 2000 tutta una serie di formazioni vegetali; ciò in aggiunta alle previsioni normative precedenti (del tipo rododendro = "pianta protetta") e rende impossibile intervenire con il taglio o il pascolo.
La legge forestale regionale (L.R. 31/2008) all'art 51, comma 4 consente il pascolo in bosco con la finalità di "prevenzione di incendi boschivi e di conservazione del paesaggio rurale" (l'idea che gli animali pascolino in bosco per alimentarsi - come avviene da millenni - è evidentemente considerata sempre grave eresia) ma lo condiziona ai piani di indirizzo forestale e, in mancanza di essi, ad apposita autorizzazione dell'ente competente in materia forestale e, in ogni caso al rispetto delle norme forestali. Come dire: si può ma non si può. Ricordiamoci che nel vigente regime burocratico ottenere autorizzazioni significa pagare un tecnico progessionista, produrre mappe, citare parcelle catastali ecc.
Ancora
peggio la ancor più recente legge forestale piemontese che ribadisce
impavidamente il divieto assoluto di pascolo delle capre nel bosco
("salvo una fascia di 10 m dai tracciati utilizzati per transumanza e
trasferimento all'alpeggio").
Moioli
sintetizza con parole molto amare l'esito della politica agricola e per
la montagna della Regione Lombardia (e non solo di quella).
"(...)
se giriamo in questi giorni anche sulla montagna bergamasca vediamo con
gli occhi lo sfascio che l'agricoltura di rapina (quella scopiazzata e
male dalla pianura) ci restituisce.
Sull'altopiano di Clusone (ma non solo
lì ovviamente), laddove i grossi trattori (da 150 e più cavalli, magari
da sfoggiare al bar, acquistati forse con il contributo del PSR) e le
macchine agricole trainate son riusciti a destreggiarsi, hanno falciato e
raccolto. Tutti i perimetri ove gli spini (rovi) avanzano, i contorni
delle servitù (pali della luce e simili) hanno le stoppie secche in
piedi. Nessuno, dico nessuno, si è preso in spalla il decespugliatore, o
il falcetto o la falce per contenere l'avanzamento spontaneo della
flora arbustiva ed arborea.
Certo che poi la regione Lombardia fa diventare
boschi anche i roveti, con tutte le conseguenze vincolistiche del caso!
E guai a metterci le capre! Distruggi la rinnovazione!"
Moioli
non parla a vanvera, parla per esperienza, sulla base di
progetti sperimentali eseguiti tra mille difficoltà (per via della
burocrazia). A personaggi come il Dr. Roberto Tonetti, responsabile
Unità Operativa Sistemi Verdi e Foreste della Direzione Generale Sistemi
Verdi e Paesaggio della Regione Lombardia, fischieranno le orecchie.
Niente di nuovo
Oggi
l'ambientalismo inneggia alla "naturalizzazione" dei boschi, vorrebbe
limitare le attività tradizionali della montagna che non possono o non
vogliono adattarsi alla "convivenza" (imposta dagli ambientalisti) con i
Grandi Predatori. Sono i "nipotini di Boleslao e Ladislao" come li
definiva Dario Paccino un "ecologo politico" di altri tempi (con
riferimento alle imposizioni di questi re sull'uso delle foreste a danno
delle popolazioni e a loro vantaggio monopolistico). Niente di nuovo:
signori feudali, re, Stato moderno sono stati sempre ambientalisti.
Lo Stato e i forestali del XIX secolo hanno imposto rigidi divieti di pascolo dopo che gli speculatori e le nuove manifatture avevano depauperato i boschi. Lo avevano fatto per alimentare con l'energia del legno la prima fase dello sviluppo industriale (prima dell'era del carbon fossile). Per gli esperti di allora bisognava evitare che il volgo avido e ignorante distruggesse i boschi (già distrutti). In realtà, privando i montanari - specie i più poveri - di ampe superfici di pascoli comuni, li si costringeva ad abbandonare qualsiasi forma di allevamento e ad emigrare in modo permanente, a diventare braccia a basso costo per lo sviluppo industriale capitalistico.
Oggi c'è un blocco sociale, costituito da interessi economici speculativi e di ampie fasce di ceto medio burocratico, che vuole imporre l'ambientalismo dei Parchi, le speculazioni sui "crediti di carbonio", sulle "biomasse" a spese delle Terre Alte, dei contadini, allevatori, pastori, taglialegna., Tutti soggetti sociali (e politici) irrimediabilmente deboli. Orsi e lupi fanno da foglia di fico distogliendo l'attenzione dei benpensanti affascinati dal "ritorno della natura selvaggia".
Un paese ricco di boschi mal gestiti e inaccessibili, ma il business si è messo in movimento: "tagliare lì, piantare là"
Improvvisamente, da quando è balenato il miraggio del "petrolio verde", ambientalisti, Uncem. Coldiretti paiono aver scoperto che l'Italia è un paese ricco di boschi. I boschi in effetti sono aumentati di 1,7 milioni di ettari negli ultimi trent'anni e ogni anno si perdono 100 mila ettari di superfici agricole a favore del bosco. Prima dell'era delle biomasse (o meglio degli incentivi per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili più generosi d'Europa), però, il bosco e la "filiera legno" erano una Cenerentola. Non interessavano più a nessuno.
Il WWF poteva dire che "la miglior gestione del bosco è la non gestione". Altri tempi. Ora tutti parlano dei boschi italiani come se, sino all'ultimo ettaro, potessero essere inseriti nella filiera legno ed energetica. Dimenticano che, sia le Alpi che gli Appennini, sono caratterizzati da scarsa accessibilità e forti pendenze. Che per operare con cantieri industriali per la cippatura bisogna arrivare sul posto, in foresta, con mezzi pesanti che non transitano sulla gran parte delle nostre "piste forestali" (quando ci sono).
Ma allora perché dicono che "abbiamo il petrolio verde"? Perché, con la scusa della "filiera corta", dei posti di lavoro, della manutenzione e pulizia dei boschi (che prevverrà gli incendi boschivi...) i signori speculatori si fanno autorizzare (e finanziare) la realizzazione di inceneritori (che chiamano "caldaie"). Essi bruceranno solo in parte, o per nulla, "biomasse a filiera corta" ma, prevalentemente, cippato di lontana origine, materiale riciclato (magari trattato con prodotti chimici), potature stradali (fortemente contaminate), rifiuti toutcourt.
In qualche caso, dove le condizioni di accessibilità e di pendenza lo consentono, dopo aver tracciato strade dal forte impatto sui versanti, si procederà a tagli quasi-a-raso. Così, mentre dove c'è una qualche convenienza economica, si sta procedendo - e si procederà sempre più - a tagli che il WWF potrebbe, finalmente con qualche ragione, definire "selvaggi", gli speculatori verdi di Legambiente all'interno dei Parchi (Fererparchi) stanno promuovendo l'operazione "Parchi per Kyoto" , promossa da loro e Kyoto club (ex vice presidente l'onnipresente Ermete Realacci e adesso Francesco Ferrante già Direttore Generale di Legambiente) con l'immancabile supporto tecnico di AzzeroCO2 (società fondata da Legambiente, con soci e amministratori i soliti esponenti del Cigno). E c'è da scommettere che nel business c'è di mezzo la Gica, la prima società italiana "private capital pool in the carbon market" (ma con sede a Lugano) promossa da De Benedetti, Intesa, Lucchini ecc. per l' acquisto, la vendita, il commercio dei titoli Carbon Assets.
"Peccato lasciar bruciare i boschi inutilmente, quanta biomassa sprecata!"
Mano a mano che il business delle biomasse si diffonde si fanno più insistenti le voci di personaggi (che mai sino ad oggi, si erano preoccupati dei boschi) che pare non abbiano altra preoccupazione che la loro pulizia, la loro gestione "sostenibile" (per la produzione di biomasse). Quando venne realizzata nel 1997 la centrale di Sellero in Valle Camonica (che in mezzo ad una valle boscosa funziona con cippato importato e che, a suo tempo, è stata protagonista dello scandalo della combustone di rifiuti contenenti plastica) si disse che vi era l'opportunità di utilizzare una grande quantità di materiale legnoso proveniente dalla bonifica di estese superfci boschive devastate da un un grande incendio.
Sorge a questo punto il dubbio che la recrudescenza degli incendi boschivi possa diventare interessante per la speculazione sulle biomasse legnose (almeno finché dura il bengodi degli incentivi statosferici per l'energia elettrica "da impianti a biomasse"). Questo sarebbe un nuovo atroce capitolo nella storia degli incendi boschivi in Italia. Quello che abbiamo conosciuto sino ad oggi non è stato, in ogni caso, molto edificante.
Giancarlo Moioli, che da anni cerca di sensibilizzare sul tema della (vera) prevenzione degli incendi boschivi i politici bergamaschi e lombardi, a dimostrazione della loro "sensibilità" ci ha riferito quanto segue:
" Recentemente, ho scritto su queste questioni, agli onorevoli di fresca nomina (Maurizio Martina, bergamasco e perito agrario, come il sottoscritto, ex studente dell'ITIS di Bergamo. Antonio Misiani, bergamasco come me, apprezzato tesoriere del Partito democratico, persona che comunque stimo), un promemoria in merito perchè ritengo che se imparassero ad ascoltare un po' di piu chi vive sul territorio e ci opera da anni ( e di tecnici con esperienze trentennali come me da ascoltare in Italia ritengo ce ne siano parecchi) andremmo tutti meglio".