(10.10.13) Staccato da ritmi che lo ricollegavano a quelli della terra l'uomo della realtà contemporanea manifesta sempre più frequentemente patologie organiche ma anche atrofia spirituale e morale. Salvare la terra non è solo per il cibo
Ritorno alla terra: non solo cibo
Il distacco dalla terra non si esprime solo nell'indifferenza per l'origine del cibo che mangiamo, è anche privazione di stimoli conoscitivi, emotici, psichici. Ma, nel mentre ci si rende conto del rischio che corre un umanità sempre più estranea alla madre terra e se ne riscopra il valore, una folle corsa alla distruzione dei suoli agricoli e alla industrializzazione agricola procede per forza di inerzia e di meccanismi economici e tecnologici fuori controllo
di Fausto Gusmeroli
Larivoluzione industriale segna, in occidente, la fine di quella civiltà rurale nata nel Neolitico e che ha caratterizzato gli ultimi diecimila anni di storia dell’umanità. L’industrializzazione è resa possibile dall’utilizzazione di una nuova e immensa fonte energetica, i combustibili fossili, che attraverso i motori e le macchine potenziano a dismisura la capacità di lavoro dell’uomo. Questa, nella civiltà rurale, era assai più modesta, potendo contare solo sull’energia fornita dagli agroecosistemi e su una forza lavoro di tipo biologico (animali e uomo).
L’uomo viene “strappato” alla terra, fisicamente e metafisicamente. Le industrie richiamano braccia dalle campagne, che si spopolano. L’economia agricola e il mondo contadino, con tutto il corredo di credenze, valori e tradizioni, divengono marginali, sovrastati da modelli produttivi, sociali e culturali totalmente altri. Il legame ancestrale con la terra si spezza e con l’era dell’informatica s’impone addirittura l’idea di una realtà virtuale, immateriale, affrancata dalla natura stessa. La potenza dell’energia fossile consente in effetti all’uomo di manipolare ogni ambiente di vita, di “crearsi” un mondo del tutto artificiale.
Un grande rischio, tuttavia, perché l’uomo rimane entità biologica, oltretutto geneticamente non diversa da quei primi uomini selezionatisi entro gli ecosistemi naturali attraverso processi coevolutivi di rete. Porsi completamente al di fuori delle reti ecosistemiche, senza relazioni con le altre specie, svincolati dai ritmi e cicli naturali, non può non comportare effetti negativi per la nostra specie. Vi è, ad esempio, chi intravvede nella genesi di certe malattie degenerative una sorta di disadattamento genetico, una difficoltà del nostro organismo a vivere in ambienti troppo alterati, troppo diversi da quelli naturali. Ancor più nei disturbi del comportamento e nelle patologie neuro-psichiatriche si riconosce una matrice ambientale e ai pazienti si suggerisce, in molti casi, una qualche forma di ritorno alla natura e all’attività fisica. Le stesse terapie farmacologiche spesso non fanno altro che cercare (invero non sempre con buon esito) di ricostruire equilibri che una vita più naturale garantirebbe di per sé. Assistere al sorgere del sole, per citare un esempio, sembra stimolare la produzione organica di serotonina, un neurostrasmettitore in grado di agire sull’umore, mentre l’osservare il tramonto favorirebbe la produzione di melatonina, un ormone che regola il sonno.
Un ritorno alla terra, dunque, avrebbe un significato che va oltre la semplice produzione di cibo, coinvolgendo direttamente il benessere delle persone. Aiuterebbe a comprendere il senso della vita, il divenire, le sue fasi e i suoi momenti, la nascita e la morte, il limite e la provvisorietà quali condizioni imprescindibili dell’esistenza. Aiuterebbe a restituire significato all’attesa, alla pazienza, al rispetto delle regole, alla solidarietà e ad altre esperienze e valori che una società parossisticamente in corsa, competitiva e individualista sembra avere smarrito. La terra che accoglie e custodisce la vita, la terra madre delle antiche culture, riassume davvero in sé un simbolismo spirituale ed etico ricco e profondo, che rimanda ad una sacralità.
Come, allora, giudicare il nostro paese che, nonostante sia ben lontano dall’autosufficienza alimentare e possieda un paesaggio agrario di straordinaria varietà e bellezza, non difende con determinazione l’agricoltura e non pone un freno al consumo di suolo? Nella sola Regione Lombardia, uno dei territori più ricchi e densamente abitati d’Europa, il consumo giornaliero è di 13 ettari, una superficie pari a 17 campi di calcio inghiottita quotidianamente da una cementificazione oggi priva di qualsiasi ragione! Viene in proposito alla mente un noto aforisma attribuito al capo pellerossa Setting Bull: Quando sarà avvelenato l'ultimo fiume, abbattuto l'ultimo albero, ucciso l'ultimo bisonte, pescato l'ultimo pesce, solo allora capirete che il denaro non si mangia! Forse noi, uomini tecnologicamente molto più avanzati, pensiamo davvero di poterci nutrire col denaro, o con i bit.
Tornare alla terra, dunque, ma come? O meglio: con quale tipo di agricoltura? Si, perché oggi ci sono tanti modi per coltivare la terra, con differenti impatti sul suolo, la sua fertilità e la sua vitalità biologica. Si tratta, evidentemente, di un’altra storia, molto lunga e complessa, da raccontare in altro momento. Qui ci si accontenta di rimarcare come non basti un generico ritorno alla terra. Occorre accompagnarlo con un atteggiamento di massimo rispetto, il rispetto dovuto al bene pubblico più importante, con l’acqua e l’aria, per il mantenimento della vita stessa sul pianeta. Sembra proprio di poter dire che questo rispetto non appartiene a quell’agricoltura intensiva e industrializzata affermatasi negli ultimi decenni. Ma, appunto, questa è un’altra storia.