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(08.08.16) La festa del fieno di Monno si conferma quale evento più significativo e capace di continuità tra quelli legati alla celebrazione del taglio del fieno nella montagna lombarda

 


 

Una festa per la montagna viva

 

 

 testo e foto di Michele Corti


(riprese fotografiche eseguite a Monno il pomeriggio del 7 agosto 2016)



La Festa del fieno a Monno è tutto tranne che  un'occasione per offrire folklore di facile consumo ai turisti agostani. Resterebbero delusi i soliti intellettuali (o atteggiantisi tali) pronti a liquidare qualsiasi espressione legata alla rievocazione della vita rurale  come  "tradizione inventata".   Le  Alpi sono piene, in realtà,  di  baracconate, di "costumi tradizionali" da sartoria, di improbabili feste senza relazione con il ciclo agropastorale ma provvidenzialmente cadenzate sul ciclo turistico. Ma non c'è solo questo.  Dovrebbe competere a chi si occupa di fatti sociali e culturali saper distinguere tra espressioni di valenza totalmente diversa.  Invece l'intellettuale progressista trova più tranquillizzante rubricare anche le espressioni più lontane da strumentalizzazioni nella stessa categoria delle baracconate.  I suoi schemi illuministici non riescono a spiegare perché la tradizione (di per sé una parolaccia da esorcizzare) resista, si carichi di nuove valenze, risponda a nuove esigenze delle comunità (altra brutta parolaccia per lorsignori).






Chi si prendesse la briga di andare a Monno constaterebbe non solo come la vallata che sale al Mortirolo (il passo che collega l'alta Valcamonica alla Valtellina)  sia  disseminata di cascine site nel mezzo di ampie superfici prative e dotate di ampi fienili, ma anche che - in un paese di meno di seicento abitanti - vi sono ancora una trentina di famiglie che allevano animali (di cui duecento capi bovini). Non tutte di "imprenditori agricoli" ma comunque coinvolte nelle pratiche dell'alpeggio e della fienagione. La realtà agropastorale rappresenta un elemento tutt'ora vitale per la vita sociale della comunità. Essa è impegnata su vari fronti, e in modo consapevole, a favorire la continuità delle attività agrozootecniche la cui importanza è riconosciuta anche da chi non è più direttamente impegnato nelle attività tradizionali agricole quale elemento in grado di garantire coesione, identità ma anche quel presupposto vitale rappresentato dalla fruibilità, riconoscibilità, vitalità dello spazio fisico, della dimensione coltivata (i prati, i boschi, i pascoli), minacciato anche qui dall'avanzata della wilderness tenacemente sostenuta dal nichilismo (e colonialismo) urbano camuffato da ecologismo.
La dissociazione viziosa, presente nella maggior parte delle nostre comunità rurali alpine (e non solo), tra una cultura che spesso cade nel folklorismo o nell'eruditismo e una dimensione produttiva agricola "modernista", drogata dal miraggio modernista e industrialista a Monno è stata scongiurata. Qui c'è una circolazione di idee, iniziative, persone tra chi fa ricerca (sulla storia locale), chi rinnova e valorizza le tradizioni musicali, le pratiche rituali, chi organizza attività di aggregazione e promuove attività artistiche e artigianali. Tutti hanno chiaro, pur operando anche su fronti diversi come l'obiettivo trasversale di questi interventi debba essere la conservazione dinamica dei valori e delle tradizioni ereditate dalla civiltà rurale. I frutti di questo agire consapevole e coordinato si vedono.
Nel 1982 nasce il gruppo tradizionale dei Gàlber (dal nome di una tipica calzatura camuna) che, da cinque elementi, è arrivato a contarne ben ventiquattro e che oggi si appresta ad attuare un ricambio generazionale già avvenuto con successo nella Pro Loco, motore organizzativo di numerosi eventi tra cui la FenFesta che vede impegnati  giovani (come lo stesso presidente Stefano Ferrari) e giovanissimi. La musica rappresenta l'elemento che ha fatto da collante dell'identità e dell'iniziativa culturale locale grazie ad un repertorio non solo di canti ma anche di danze. I monnesi ci tengono a far sapere che da loro le danze non sono state"ricostruite" ma che sono sempre state praticate in occasione del carnevale e dei matrimoni.  Il repertorio comprende balli diffusi in area alpina di antichissima origine ma altrove ormai dimenticati.





Oltre a diversi musicisti che suonano la fisarmonica e il sassofono Monno può vantare anche un cantastorie, Germano Melotti, noto anche oltre i confini della Valcamonica che oltre ad animare il gruppo dei Gàlber e varie iniziative locali (è stato lui ha dare il la nel 2008 alla FenFesta dopo aver partecipato a Piatta - in alta Valtellina - alla Sagra del Pradeir). Di recente è stato costituito anche un coro.






Nel solco della vitalità delle tradizioni musicali (o comunque a base sonora) si registra a Monno la continuità del rito del suono dei corni durante la settimana santa e il canto dei "coscritti" eseguito dalla cima del campanile. La FenFesta del 2008 ebbe un successo inatteso. La curiosità era molta e l'organizzazione fu al livello delle attese suscitate. Oltre alla gara di sfalcio venne realizzata una splendida rievocazione del carico della "priala", il trasporto a due ruote - trainato un tempo dalle vacche, in tempi più recenti da un cavallo - utilizzato per trasferire in cascina il fieno essiccato in campo. L'eco di quella festa fu notevole e da allora diverse località (e aziende agricole) si sono cimentate in feste del fieno.

Questo sito colse nello spirito di quella festa  l'espressione di quel programma consapevole di rilancio della ruralità alpina non come nostalgia ma come "azione proattiva" atta a contrastare quelle minacce che negli ultimi anni sono diventate sempre più concrete (la burocrazia, il perdurante produttivismo agricolo che premia solo le grandi aziende agrozootecniche e i grandi complessi di trasformazione industriale, l'animalismo anticontadino, la reintroduzione degli orsi e dei lupi oltre alla proliferazione di altra fauna oggettivamente nociva).

Dove, nei paesi, non c'è una vita culturale e sociale, dove non c'è aggregazione, produzione di nuova cultura, rielaborazione di quella tradizionale cosa succede? Succede che le persone sono risucchiate nella subalternità alla cultura urbana dominante veicolata dai media e dalle relazioni (scuola, lavoro) che - inevitabilmente - spostano altrove rispetto al paese gli interessi personali. Così non è difficile trovare anche in paesini di montagna gente che "tifa" per l'orso (sino a quando non arriva sul serio). In ogni caso quelle realtà sono diventate "periferia" e la sottocultura che si è imposta agisce da corrosivo di quello che rimane di senso di appartenenza, orgoglio locale. Fortunatamente il prestigio della cultura urbana, industriale, globale, dei miti del progresso e dell'universalismo è in caduta libera. Ma se non è rimasto nulla degli antichi valori, delle tradizioni, delle pratiche sociali a cosa ci si aggrappa?





Tra le partecipanti di quella prima edizione della FenFesta vi era una monnese, Nadia Ghemsi - vincitrice di ben quattro edizioni nella categoria femmilile - che, in forza dell'abilità nel manovrare in modo deciso e preciso la ranza e  dell' abbigliamento tradizionale (ma senza concessioni al folklore), è divenuta l'icona di Ruralpini. Un fatto che ha contribuito a far (meritatamente) conoscere la FenFesta. Quest'anno anche se la partecipazione femminile alla gara vera e propria è risultata scarsa (solo quattro donne a fronte di sedici uomini divisi in quattro batterie), si segnala la partecipazione della giovanissima (18 anni) Iris Pietroboni (foto sopra in azione con piglio sicuro). Non è comunque facile riuscire a tenere alto l'interesse per un evento "sui generis". Eppure alla settima edizione (due sono saltate per cattive condizioni meteo) non è mancato l'interesse del pubblico. Il merito è degli organizzatori che riescono a costruire un evento che si protrae dal primo pomeriggio a sera coinvolgendo vari segmenti di popolazione.  Molto opportunamente la Pro Loco con l'appoggio dell'amministrazione ha anche compreso che il fieno deve rappresentare un elemento che richiama, celebra e valorizza il sistema agropastorale nella sua interezza. Il fieno è solo un "segmento", sia pure essenziale.



Chi mangia il fieno?


Pare una domanda banale ma oggi  in città si pensa che il latte si produca nelle fabbriche e in realtà nelle "fabbriche zootecniche" alle mucche si somministrano diete ben poco naturale. Dunque il fieno si fa per le "bestie" (termine pieno di rispetto e affetto ). Quanta fatica e sacrifici per le "bestie". Ma hanno mai pensato gli animalisti vegani alle fatiche che sostenevano  contadini e contadine, veri animali da soma,  per alimentare le "bestie"? Chi era lo "sfruttatore" (termine con il quale gli ambientalisti apostrofano gli allevatori mostrando un'ignoranza inferiore solo alla loro arroganza)?  Chi stava placido in stalla a mangiare e ruminare o chi si caricava all'inverosimile per trasportare il fieno? Chi segava, rastrellava (sotto le velocissime donne monnesi che spargono in un battibaleno il fieno segato), spargeva il letame, "pettinava" i prati  o chi mangiava per lunghi anni  il frutto di tanta fatica?





Vero che ogni tanto la mucca era sottoposta al giuuf (il giogo) e doveva lavorare, ma, spesso era per trasportare il cibo che avrebbe essa stessa consumato.  Non a caso ancora nell'Ottocento negli scritti agrari si parla di "vacche oziose" per indicare quelle lattifere. Per le "bestie"  il contadino aveva grande considerazione. Nella società agropastorale il numero e la bellezza delle "bestie" erano alla base del prestigio sociale. Grande era il significato delle Mostre di un tempo (quando non esistevano cataloghi dei tori e "fiale"), non solo perché attraverso il confronto emulativo l'allevatore era incitato a migliorare il proprio bestiame ma anche perché i premi e tutto il rituale della Mostra (occasione anche di compravendite) rappresentavano un momento fondamentale della vita locale, rilevante come rappresentazione e per i valori simbolici in gioco, oltre che per i contenuti "tecnici" ed economici.


Ritorno al passato


Così quest'anno, dopo mezzo secolo di assenza è tornata la Mostra zootecnica, con una sfilata che ha coinvolto e appassionato il paese. Un "ritorno al passato" di cui nessuno si vergogna. Se il "progresso" porta a quelle tristi notizie che ci prendono alla gola ogni giorno ben venga un "ritorno al passato" fatto di dignità e di frugalità, ma anche di solidarietà non pelosa, spontanea, capacità di risolvere da sé i problemi.

Oggi, non solo a Monno per fortuna, la simpatia per chi continua l'attività agricola è in crescita. Difficilmente la gente si lamenta più della "puzza" o di altri fastidi. Sono retaggi di un passato quando chi aveva appena fatto il salto verso la civiltà della fabbrica doveva a tutti costi atteggiarsi a "urbano" disprezzando e attività svolte sino al giorno prima. Va detto che la reincorporazione della realtà agricola nella comunità locale dipende anche dagli "agricoli". Troppo spesso si sono "tirati fuori" dalla realtà locale inseguendo modelli "da pianura", all'americana, drogati dai miraggi della tecnologia e della quantità, gettando in blocco alle ortiche la saggezza e le conoscenze dei vecchi per pendere dalle labbra di organizzazioni, burocrati, esperti che non conoscono i contesti locali e la realtà montana.

La ricerca della coesione, basata su elementi materiali e simbolici, tra chi svolge l'attività agricola a titolo professionale, chi la pratica ancora (o torna a praticarla) per passione e per autoproduzione e chi se ne è distaccato è - in un paese di montagna a più di 1000 m come Monno - una condizione essenziale di "sostenibilità sociale". A Monno l'hanno capito e le feste del fieno e la resuscitata Mostra zootecnica hanno questo profondo significato. Ma la coesione necessaria oggi è anche quella tra generazioni. La disgregazione dell preesistente trama di relazioni sociali che consentiva di prestare aiuto reciproco, di unire le forze in caso di necessità, di sostenere i più deboli è in larga misura frutto di scollamento generazionale.
La FenFesta coinvolge uomini e donne, giovani, adulti, anziani, bambini . Il bimbetto sotto è evidentemente un figlio d'arte iniziato in tenerissima età all'arte della fienagione. 




Alcuni più grandicelli (10-12 anni), mentre i loro coetanei si limitavano a giocare con il fieno già essicato in precedenza (per la dimostrazione del trasporto) si sono cimentati nel taglio vero e proprio rinunciando alla ranza di misura ridotta e impugnando coraggiosamente quella da adulti.





Per altri bambini e ragazzini c'è l'aspetto ludico, tanto più divertente quanto più un'attività come giocare con il fieno, manipolarlo, annusarlo spezza la monotonia del videogioco.





Una festa è tale se coinvolge il più possibile la gente. La prova è in un "allestimento" del paese che coinvolge non solo il "campo di gara" e la piazza della cena in comune e delle premiazioni (componenti essenziali della festa) ma anche le vie, le case private, i balconi, gli androni, le piazzette.  Ogni oggetto esposto è carico di valori affettivi e simbolici, è un segno - consapevole o meno - dell'esigenza di riallaciarsi al passato e agli altri, a quello che accomunava.





Molte solo le famiglie che hanno esposto i cimeli  legati ad una vita rurale di generazioni: i campanacci più pregevoli, i contenitori del latte, le funi di cuoio, le spighe di segale (che, al rientro dei falciatori in piazza, dopo la merenda, è stata trebbiata con i correggiati dalle donne). Nelle vie si incontrano anche "opere d'arte" di fieno (ispirate forse ad altre feste del fieno organizzate in Europa ma interpretate con ironia).





Sempre in tema di ampio coinvolgimento va segnalata, ad arricchimento del format della festa, la "staffetta del fieno", una gara-gioco per tutti. Attraverso il gioco e una dimensione a metà tra lo sport e la rievocazione della tradizione i ragazzi vivono la realtà della cultura rurale come qualcosa di non-morto, di divertente, di attuale. Con uno statuto di realtà almeno pari a quello di altri dimensioni di una complessiva differenziata realtà individuale e collettiva. I videogiochi e facebook accomunano i ragazzi di montagna quelli di città ma chi sa impugnare una ranza o anche trasportare il fieno col campacc' e ha appreso da genitori e nonni alcune conoscenze tradizionali, ha qualcosa in più. 





Ma non è un gioco


L'attenzione alla dimensione ludica non fa dimenticare agli organizzatori della FenFesta che il fieno è una cosa seria. Fatta di particolari, attenzioni, abilità che non possono essere trascurate. Come in tutte le feste e le gare del fieno che si rispettano anche a Monno ai falciatori è richiesta al termine della falciatura la dimostrazione di affilatura della lama. Esercizio molto più difficile è però la martellatura, il pareggiamento del filo. Il venir meno di questa specifica abilità rappresenta la premessa della perdita di tutta l'arte del far fieno.

Consapevoli di questo gli organizzatori hanno invitato uno dei falciatori a dare dimostrazione del "battere la falce". Il ritmico battere del martello sull'incudine fissata nel terreno qui si confonde con i commenti dello speaker, con le grida dei bimbi.  Ma gli anziani ricordano quando questo suono martellante era la nota dominante del paesaggio sonoro nei giorni di bel tempo e di bella stagione quando vi erano all'opera numerosi falciatori e dai prati intorno al paese echeggiava dalla battitura contemporaneo di più falci. Quel ritmico battito significava tanti carri di fieno, tante bestie sfamate, latte, burro, formaggio, carne e un po' di soldi. Era un battito di vita. L'uomo al (duro) lavoro in simbiosi con gli animali, assecondando la natura benefica. Oggi il prezzo della comodità è un pianeta-pattumiera dall'incerto futuro.






Al momento della performance individuale, con tanto di vincitore e di giudici che valutavano alzando le palette con i numeri l'efficacia e il ritmo dell'azione di sfalcio, segue nello script della FenFesta l'azione collettiva. Il prato viene completamente segato dalla squadra dei falciatori. Un chiaro riferimento alla necessità di alternare lo sforzo individuale con l'esigenza di coordinarsi quando le circostanze lo richiedono.









Il taglio è veloce perché i falciatori hanno alle spalle lunghi anni di esercizio. La tecnica non si dimentica anche se qualcuno oggi lavora in ufficio. Alle cinque (in realtà alle quattro e mezza) arriva la merenda distribuita dai Gàlber.  Vino, salumi (non del supermercato), pane di segale (che in alta Valcamonica e in alta Valtellina è ancora normalmente consumato ed è buonissimo perché non si è persa la tecnica di panificazione), dolci tipici.





Ancora più impegnativo della battitura della falce è il rito del carico della priala, il trasporto munito del solo carrello anteriore con il carico appoggiato su due stanghe. Sotto vediamo le prime fasi della preparazione della priala. Il fieno verrà poi adagiato su frasche di ontano alpino (maròss) e accuratamente sovrapposto. Operazione molto lunga che impegna più persone e prevede l'accurato impacchettamento delcarico con funi di cuoio tirate da cavicchi di legno. Per tendere le funi gli operatori si dispongono ai due lati del carro utilizzando tutto il peso del loro corpo per tendere le funi.  Non si poteva scherzare sulla cura del carico, sia in termini di bilanciamento che di impacchettamento perché la priala avrebbe potuto facilmente rovesciarsi nelle manovre sulle ripide stradine acciottolate.





L'operazione termina con l'attacco del cavallo (poco ben disposto al servizio) che si è fatto un po' pregare a sistemarsi tra le stanghe.




Il carico si mette in marcia verso la cascina. Il pubblico è già tornato in piazza per i giuochi. Alla sera ci sarà la cena in piazza, ancora musica dell'infaticabile Germano (bravissimo a conservare il sorriso anche dopo ore di musica).  Quanti mesi di lavoro dietro una festa così complessa? Non pochi. Ma se c'è chi si continua ad impegnare studiando nuove formule (c'è l'ipotesi di organizzare ad anni alternati la Mostra zootecnica e la FenFesta) è perché la FenFesta non è né folklore, né nostalgia, né "intrattenimento" o semplice "socializzazione" ma è un collante, un generatore di senso, di motivazioni a stare insieme e a tenere insieme la comunità umana con gli animali, le piante, lo spazio fisico in relazione con essa. Qualcosa di ben diverso della Natura estranea all'uomo che gli intelligenti di città vorrebbero contrapporre alla gente di montagna e che alla fine è una mal dissimulata proiezione delle loro pretese di affermazione di superiorità,  controllo e dominio (nascoste dietro la foglia di fico della tutela del "loro" fiorellino raro e dei "loro" orsi e lupi dagli "ignoranti montanari").





E altrove? Rivincita contadina: la rivolta contro il decespugliatore e il fascino della falce


Non meraviglia che in Tirolo, Svizzera (ma anche Paesi Baschi) la tradizione delle gare di fienagione sia oggetto di grande interesse. Quello che che fa ritenere che le Feste del fieno non siano folklore "residuale" ma l'avanguardia di una nuovo ecologismo che dai salotti si sposta nello spazio rurale è il successo dei festival del fieno, dei corsi di falciatura a mano nei paesi anglosassoni dove i contadini non ci sono più da secoli (sostituiti dai farmer). Il 25 aprile 2015 il quotidiano inglese The Teleghraph intitolava un pezzo sulla "voglia di falce" e di eventi sul tema  "The great scything renaissance".



Negli Usa, dove la continuità generazionale dell'uso della falce fienaia si è interrotta, si moltiplicano corsi di falciatura per neocontadini. È significativo che dopo mezzo secolo in Inghilterra è ripresa la produzione di falci fienaie che era stata interrotta nel 1982.  I falciatori dovettero ricorrere alla produzione austriaca. Ma oggi l'artigiano che ha ripreso la produzione medita di riprendere la produzione della storica falce inglese. In Italia l'unico produttore di falci fienaie è la ditta FALCI di Dronero (Cn), nata dalla fusione di diverse officine di fabbri locali,  che realizza un ampio assortimento di lame per uso professionale e amatoriale (vedi catalogo).

Perché questa "rinascita".  Perché c'è voglia di autosufficienza, di ritornare a rapportarsi un po' più direttamente con le comunità delle piante e degli animali domestici e selvatici superando il diaframma dell'agroindustria, dell'agrochimica, degli Ogm, della tecnoscienza riduzionista, delle multinazionali delle sementi del commercio, della trasformazione e della distribuzione. nel concreto è la "rivolta contro il decespugliato", simbolo della stupidità di una meccanizzazone che va oltre i limiti della ragione, del buon senso, dell'ecologia. Se con il taglio manuale si ottiene  un buon fieno, un ottimo cibo per i nostri compagni ruminanti, con il despugliatore si ottiene una poltigia da discarica (o al massimo da mediocre compost). Gli animali la rifiutano perché la sua ingestione provocherebbe gravissimi disturbi digestivi senza contare che i tessuti sfibrati e surriscaldati determinano la rapida fermentazione della sostanza organica con perdita di valore nutritivo e possibile proliferazione di batteri pericolosi. Come trasformare una ricchezza in rifiuto. Una specialità della società industriale "avanzata". Ma poi come la mettiamo con l'inquinamento sonoro? Con quel ronzio da tafanone che "allieta" le giornate (e le serate) estive privando della quiete bucolica i tapini in fuga temporanea dalle metropoli (nel periodo in cui in città si sta benone). Il decespugliatore non va ad olio di gomito, consuma combustibile fossile.. e inquina l'aria. Quanto al Pil di certo lo aiuta: 1) carburante; 2) invio in discarica); 3) abbonamento alla palestra per compensare il mancato esercizio di falce; 4) consumo di ansiolitici da parte di chi non sopporta il fastidioso rumore.






 Per informazioni e comunicazioni: ruralpini@gmail.com

 

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