|
|||
Ti potrebbe interessare anche
(28.06.16) Una
cultura che si mette lo zaino in spalla Cirillo Ruffoni ci ha segnalato nuovi
documenti storici
che consacrano già nel Cinquecento il formaggio delle Valli del
Bitto.
Già allora riconoscibile rispetto ai formaggi prodotti in
altre zone,
tanto da costituire per loro anche un termine di paragone. Scusate se è
poco. leggi tutto
(03.06.15) Minima ruralia leggi tutto (02.07.15)
Inaugurazione della Biblioteca Costantino Locatelli
|
(08.08.16)
La festa del fieno di Monno si conferma quale evento più significativo
e capace di continuità tra quelli legati alla celebrazione del taglio
del fieno nella montagna lombarda
Una
festa per la montagna viva
testo
e foto di Michele Corti
(riprese
fotografiche eseguite a Monno il pomeriggio del 7 agosto 2016)
Chi si
prendesse la briga di andare a Monno constaterebbe non solo come
la vallata che sale al Mortirolo (il passo che collega l'alta
Valcamonica alla Valtellina) sia disseminata di cascine site nel mezzo di ampie superfici
prative e dotate di ampi
fienili, ma anche che - in un paese di meno di seicento abitanti - vi
sono
ancora una trentina di famiglie che allevano animali (di cui duecento
capi bovini). Non tutte di "imprenditori agricoli" ma comunque
coinvolte nelle pratiche dell'alpeggio e della fienagione. La realtà
agropastorale rappresenta un elemento tutt'ora vitale per la vita
sociale della comunità. Essa è impegnata su vari fronti, e in modo
consapevole, a favorire la continuità delle attività agrozootecniche la
cui importanza è riconosciuta anche da chi non è più direttamente
impegnato nelle attività tradizionali agricole quale elemento in grado
di garantire coesione, identità ma anche quel presupposto vitale
rappresentato dalla fruibilità, riconoscibilità, vitalità dello spazio
fisico, della dimensione coltivata (i prati, i boschi, i pascoli),
minacciato anche qui dall'avanzata della wilderness tenacemente
sostenuta dal nichilismo (e colonialismo) urbano camuffato da
ecologismo.
Oltre a
diversi
musicisti che suonano la fisarmonica e il sassofono Monno
può vantare anche un cantastorie, Germano Melotti, noto anche oltre i
confini della Valcamonica che oltre ad animare il gruppo dei Gàlber
e varie iniziative locali (è stato lui ha dare il la nel 2008 alla
FenFesta dopo aver partecipato a Piatta - in alta Valtellina - alla
Sagra
del Pradeir). Di recente è stato costituito anche un coro.
Nel
solco della vitalità delle tradizioni musicali (o comunque a base
sonora) si registra a Monno la continuità del rito del suono dei corni
durante la settimana santa e il canto dei "coscritti" eseguito dalla
cima del campanile. La FenFesta del 2008 ebbe un successo inatteso. La
curiosità era molta e l'organizzazione fu al livello delle attese
suscitate. Oltre alla gara di sfalcio venne realizzata una splendida
rievocazione del carico della "priala", il trasporto a due ruote -
trainato un tempo dalle vacche, in tempi più recenti da un cavallo -
utilizzato per trasferire in cascina il fieno essiccato in campo. L'eco
di quella festa fu notevole e da allora diverse località (e aziende
agricole) si sono cimentate in feste del fieno. Questo
sito colse nello
spirito di quella festa l'espressione di quel programma
consapevole di rilancio della ruralità alpina non come nostalgia ma
come "azione proattiva" atta a contrastare quelle minacce che negli
ultimi anni sono diventate sempre più concrete (la burocrazia, il
perdurante produttivismo agricolo che premia solo le grandi aziende
agrozootecniche e i grandi complessi di trasformazione industriale,
l'animalismo
anticontadino, la reintroduzione degli orsi e dei lupi oltre alla
proliferazione di altra fauna oggettivamente nociva). Dove,
nei paesi, non c'è una vita culturale e sociale, dove non c'è
aggregazione, produzione di nuova cultura, rielaborazione di quella
tradizionale cosa succede? Succede che le persone sono risucchiate
nella subalternità alla cultura urbana dominante veicolata dai media e
dalle relazioni (scuola, lavoro) che - inevitabilmente - spostano
altrove rispetto al paese gli interessi personali. Così non è difficile
trovare anche in paesini di montagna gente che "tifa" per l'orso (sino
a quando non arriva sul serio). In ogni caso quelle realtà sono
diventate "periferia" e la sottocultura che si è imposta agisce da
corrosivo di quello che rimane di senso di appartenenza, orgoglio
locale. Fortunatamente il prestigio della cultura urbana, industriale,
globale, dei miti del progresso e dell'universalismo è in caduta
libera. Ma se non è rimasto nulla degli antichi valori, delle
tradizioni, delle pratiche sociali a cosa ci si aggrappa?
Tra
le
partecipanti di quella prima edizione della FenFesta vi era una
monnese, Nadia Ghemsi - vincitrice di ben quattro edizioni nella
categoria femmilile - che, in forza dell'abilità nel manovrare in modo
deciso e preciso la ranza e dell' abbigliamento tradizionale (ma
senza concessioni al folklore), è divenuta l'icona di Ruralpini. Un
fatto che ha contribuito a far (meritatamente) conoscere la FenFesta.
Quest'anno anche se la partecipazione femminile alla gara vera e
propria è risultata scarsa (solo quattro donne a fronte di sedici
uomini divisi in quattro batterie), si segnala la partecipazione della
giovanissima (18 anni) Iris Pietroboni (foto sopra in azione con piglio
sicuro). Non è comunque facile riuscire a tenere alto l'interesse per
un evento "sui generis". Eppure alla settima edizione (due sono saltate
per cattive condizioni meteo) non è mancato l'interesse del pubblico.
Il merito è degli organizzatori che riescono a costruire un evento che
si protrae dal primo pomeriggio a sera coinvolgendo vari segmenti di
popolazione. Molto opportunamente la Pro Loco con l'appoggio
dell'amministrazione ha anche compreso che il fieno deve rappresentare
un elemento che richiama, celebra e valorizza il sistema agropastorale
nella sua interezza. Il fieno è solo un "segmento", sia pure essenziale.
Chi
mangia il fieno?
Pare
una domanda banale ma oggi in città si pensa che il latte si
produca nelle fabbriche e in realtà nelle "fabbriche zootecniche" alle
mucche si somministrano diete ben poco naturale. Dunque il fieno si fa
per le "bestie" (termine
pieno di rispetto e affetto ).
Quanta fatica
e sacrifici per le "bestie". Ma hanno mai pensato gli animalisti vegani
alle fatiche che
sostenevano contadini e contadine, veri animali da soma,
per alimentare le "bestie"? Chi era lo "sfruttatore" (termine con il
quale gli ambientalisti apostrofano gli allevatori mostrando
un'ignoranza inferiore solo alla loro arroganza)? Chi stava
placido in stalla a mangiare e ruminare o chi si caricava
all'inverosimile per trasportare il fieno? Chi segava, rastrellava
(sotto le velocissime donne monnesi che spargono in un battibaleno il
fieno segato), spargeva il letame, "pettinava" i prati o chi
mangiava per lunghi anni il frutto di tanta fatica?
Vero che
ogni tanto la mucca era sottoposta al giuuf
(il giogo) e doveva
lavorare, ma, spesso era per trasportare il cibo che avrebbe essa
stessa consumato. Non a caso ancora nell'Ottocento negli scritti
agrari si parla di "vacche oziose" per indicare quelle lattifere. Per
le "bestie" il contadino aveva
grande considerazione. Nella società agropastorale il numero e la
bellezza delle "bestie" erano alla base del prestigio sociale. Grande
era il significato delle Mostre di un tempo (quando non esistevano
cataloghi dei tori e "fiale"), non solo perché attraverso il confronto
emulativo l'allevatore era incitato a migliorare il proprio bestiame ma
anche perché i premi e tutto il rituale della Mostra (occasione anche
di compravendite) rappresentavano un momento fondamentale della vita
locale, rilevante come rappresentazione e per i valori simbolici in
gioco, oltre
che per i contenuti "tecnici" ed economici.
Ritorno
al passato
Così quest'anno, dopo mezzo secolo di assenza è tornata la Mostra zootecnica, con una sfilata che ha coinvolto e appassionato il paese. Un "ritorno al passato" di cui nessuno si vergogna. Se il "progresso" porta a quelle tristi notizie che ci prendono alla gola ogni giorno ben venga un "ritorno al passato" fatto di dignità e di frugalità, ma anche di solidarietà non pelosa, spontanea, capacità di risolvere da sé i problemi. Oggi,
non solo a Monno per fortuna, la simpatia per chi continua
l'attività agricola è in crescita. Difficilmente la gente si lamenta
più della "puzza" o di altri fastidi. Sono retaggi di un passato quando
chi aveva appena fatto il salto verso la civiltà della fabbrica doveva
a tutti costi atteggiarsi a "urbano" disprezzando e attività svolte
sino al giorno prima. Va detto che la reincorporazione della realtà
agricola nella comunità locale dipende anche dagli "agricoli". Troppo
spesso si sono "tirati fuori" dalla realtà locale inseguendo modelli
"da pianura", all'americana, drogati dai miraggi della tecnologia e
della quantità, gettando in blocco alle ortiche la saggezza e le
conoscenze dei vecchi per pendere dalle labbra di organizzazioni,
burocrati, esperti che non conoscono i contesti locali e la realtà
montana. La ricerca della coesione, basata su
elementi
materiali e simbolici, tra chi svolge l'attività agricola a titolo
professionale, chi la pratica ancora (o torna a praticarla) per
passione e per autoproduzione e chi
se ne è distaccato è - in un paese di montagna a più di 1000 m come
Monno - una condizione essenziale di "sostenibilità sociale". A Monno
l'hanno capito e le feste del fieno e la resuscitata Mostra zootecnica
hanno questo profondo significato. Ma la coesione necessaria oggi è
anche quella tra generazioni. La disgregazione dell preesistente trama
di relazioni sociali che consentiva di prestare aiuto reciproco, di
unire le forze in caso di necessità, di sostenere i più deboli è in
larga misura frutto di scollamento generazionale.
Alcuni più grandicelli (10-12 anni), mentre i loro coetanei si limitavano a giocare con il fieno già essicato in precedenza (per la dimostrazione del trasporto) si sono cimentati nel taglio vero e proprio rinunciando alla ranza di misura ridotta e impugnando coraggiosamente quella da adulti.
Per
altri bambini e ragazzini c'è l'aspetto ludico, tanto più divertente
quanto più un'attività come giocare con il fieno, manipolarlo,
annusarlo spezza la monotonia del videogioco.
Una
festa è
tale se coinvolge il più possibile la gente. La prova è in un
"allestimento" del paese che coinvolge non solo il "campo di gara" e la
piazza della cena in comune e delle premiazioni (componenti essenziali
della festa) ma anche le vie, le case private, i balconi, gli androni,
le piazzette. Ogni oggetto esposto è carico di valori affettivi e
simbolici, è un segno - consapevole o meno - dell'esigenza di
riallaciarsi al passato e agli altri, a quello che accomunava.
Molte solo le famiglie che hanno esposto i cimeli legati ad una vita rurale di generazioni: i campanacci più pregevoli, i contenitori del latte, le funi di cuoio, le spighe di segale (che, al rientro dei falciatori in piazza, dopo la merenda, è stata trebbiata con i correggiati dalle donne). Nelle vie si incontrano anche "opere d'arte" di fieno (ispirate forse ad altre feste del fieno organizzate in Europa ma interpretate con ironia).
Sempre
in tema di ampio coinvolgimento va segnalata, ad arricchimento del
format della festa, la "staffetta del fieno", una gara-gioco per tutti.
Attraverso il gioco e una dimensione a metà tra lo sport e la
rievocazione della tradizione i ragazzi vivono la realtà della cultura
rurale come qualcosa di non-morto, di divertente, di attuale. Con uno
statuto di realtà almeno pari a quello di altri dimensioni di una
complessiva differenziata realtà individuale e collettiva. I
videogiochi e facebook accomunano i ragazzi di montagna quelli di città
ma chi sa impugnare una ranza o anche trasportare il fieno col campacc' e ha appreso da genitori
e nonni alcune conoscenze tradizionali, ha
qualcosa in più.
Ma non è un gioco
Consapevoli di questo gli organizzatori
hanno
invitato uno dei falciatori a dare dimostrazione del "battere la
falce". Il ritmico battere del martello sull'incudine fissata nel
terreno qui si confonde con i commenti dello speaker, con le grida dei
bimbi. Ma gli anziani ricordano quando questo suono martellante
era la nota dominante del paesaggio sonoro nei giorni di bel tempo e di
bella stagione quando vi erano all'opera numerosi falciatori e dai
prati intorno al paese echeggiava dalla battitura contemporaneo di più
falci. Quel ritmico battito significava tanti carri di fieno, tante
bestie sfamate, latte, burro, formaggio, carne e un po' di soldi. Era
un battito di vita. L'uomo al (duro) lavoro in simbiosi con gli
animali, assecondando la natura benefica. Oggi il prezzo della comodità
è un pianeta-pattumiera dall'incerto futuro.
Il
taglio è veloce perché i falciatori hanno alle spalle lunghi anni di
esercizio. La tecnica non si dimentica anche se qualcuno oggi lavora in
ufficio. Alle cinque (in realtà alle quattro e mezza) arriva la merenda
distribuita dai Gàlber. Vino, salumi (non del supermercato), pane
di segale (che in alta Valcamonica e in alta Valtellina è ancora
normalmente consumato ed è buonissimo perché non si è persa la tecnica
di panificazione), dolci tipici.
L'operazione termina con l'attacco del cavallo (poco ben disposto al servizio) che si è fatto un po' pregare a sistemarsi tra le stanghe.
Il
carico si mette in marcia verso la cascina. Il pubblico è già tornato
in piazza per i giuochi. Alla sera ci sarà la cena in piazza, ancora
musica dell'infaticabile Germano (bravissimo a conservare il sorriso
anche dopo ore di musica). Quanti mesi di lavoro dietro una festa
così complessa? Non pochi. Ma se c'è chi si continua ad impegnare
studiando nuove formule (c'è l'ipotesi di organizzare ad anni alternati
la Mostra zootecnica e la FenFesta) è perché la FenFesta non è né
folklore, né nostalgia, né "intrattenimento" o semplice
"socializzazione" ma è un collante, un generatore di senso, di
motivazioni a stare insieme e a tenere insieme la comunità umana con
gli animali, le piante, lo spazio fisico in relazione con essa.
Qualcosa di ben diverso della Natura estranea all'uomo che gli
intelligenti di città vorrebbero contrapporre alla gente di montagna e
che alla fine è una mal dissimulata proiezione delle loro pretese di
affermazione di superiorità,
controllo e dominio (nascoste dietro la foglia di fico della tutela
del "loro" fiorellino raro e dei "loro" orsi e lupi dagli "ignoranti
montanari").
E
altrove? Rivincita contadina: la rivolta contro il
decespugliatore e il fascino della falce
Non
meraviglia che in Tirolo, Svizzera (ma anche Paesi Baschi) la
tradizione delle gare di fienagione sia oggetto di grande interesse.
Quello che che fa ritenere che le Feste del fieno non siano folklore
"residuale" ma l'avanguardia di una nuovo ecologismo che dai salotti si
sposta nello spazio rurale è il successo dei festival del fieno, dei
corsi di falciatura a mano nei paesi anglosassoni dove i contadini non
ci sono più da secoli (sostituiti dai farmer). Il 25 aprile 2015 il
quotidiano inglese The Teleghraph intitolava un pezzo sulla "voglia di
falce" e di eventi sul tema "The
great scything renaissance".
Negli
Usa, dove la continuità generazionale dell'uso della falce fienaia si è
interrotta, si moltiplicano corsi di falciatura per neocontadini. È
significativo che dopo mezzo secolo in Inghilterra è ripresa la
produzione di falci fienaie che era stata interrotta nel 1982. I
falciatori dovettero ricorrere alla produzione austriaca. Ma oggi
l'artigiano che ha ripreso la produzione medita di riprendere la
produzione della storica falce inglese. In Italia l'unico produttore di falci
fienaie è la ditta FALCI di Dronero (Cn), nata dalla fusione di diverse
officine di fabbri locali, che realizza un ampio assortimento di
lame per uso professionale e amatoriale (vedi
catalogo). Perché questa
"rinascita". Perché c'è voglia di autosufficienza, di ritornare a
rapportarsi un po' più direttamente con le comunità delle piante e
degli animali domestici e selvatici superando il diaframma
dell'agroindustria, dell'agrochimica, degli Ogm, della tecnoscienza
riduzionista, delle multinazionali delle sementi del commercio, della
trasformazione e della distribuzione. nel concreto è la "rivolta contro
il decespugliato", simbolo della stupidità di una meccanizzazone che va
oltre i limiti della ragione, del buon senso, dell'ecologia. Se con il
taglio manuale si ottiene un buon fieno, un ottimo cibo per i
nostri compagni ruminanti, con il despugliatore si ottiene una poltigia
da discarica (o al massimo da mediocre compost). Gli animali la
rifiutano perché la sua ingestione provocherebbe gravissimi disturbi
digestivi senza contare che i tessuti sfibrati e surriscaldati
determinano la rapida fermentazione della sostanza organica con perdita
di valore nutritivo e possibile proliferazione di batteri pericolosi.
Come trasformare una ricchezza in rifiuto. Una specialità della società
industriale "avanzata". Ma poi come la mettiamo con l'inquinamento
sonoro? Con quel ronzio da tafanone che "allieta" le giornate (e le
serate) estive privando della quiete bucolica i tapini in fuga
temporanea dalle metropoli (nel periodo in cui in città si sta benone).
Il decespugliatore non va ad olio di gomito, consuma combustibile
fossile.. e inquina l'aria. Quanto al Pil di certo lo aiuta: 1)
carburante; 2) invio in discarica); 3) abbonamento alla palestra per
compensare il mancato esercizio di falce; 4) consumo di ansiolitici da
parte di chi non sopporta il fastidioso rumore.
Per informazioni e comunicazioni: ruralpini@gmail.com
Creazione/Webmaster Michele Corti |