(15.02.14) Nel comasco, in Valle Intelvi lo scorso anno è nato un Comitato per la difesa dai danni degli ungulati. Inutile urlare e insultare i dipendenti delle provincie. Bisogna organizzarsi, conoscere le normative, incalzare le istituzioni
Gli ungulati sono una piaga
comitati per contrastarla
di Michele Corti
Non c'è regione italiana dove i danni da ungulati non rappresentino un elemento di grave sofferenza per l'agricoltura (quello che rimane) delle aree montane e della collina "povera". Le organizzazioni agricole, preoccupate della "polpa", ovvero dell'agricoltura intensiva e specializzata poco si curano del problema (altrimenti avrebbero spinto da tempo per interventi legislativi). Tocca ai contadini, ai montanari agli abitanti assediati da una fauna sempre più invadente organizzarsi e far valere i propri diritti e spingere i sindaci a schierarsi dalla loro parte
Come osservato già in precedenti occasioni la legislazione vigente in materia di gestione della fauna selvatica e prelievo venatorio è largamente datata. Emanata nel 1992 la legge 157 riflette una realtà storica del tutto superata e una mentalità protoambientalista formatisi negli anni '70-'80. Oggi i cacciatori italiani non superano le 600.000 unità. e sono quasi una specie in via di estinzione visto che oltre l'80% di essi ha più di 50 anni e, di questi, quasi il 30% ha oltre 70 anni, mentre appena il 3% ha meno di 30 anni. Negli anni '70 il numero dei cacciatori superava i due milioni ed erano ancora 1,5 milioni nel 1990.
Con l'abbandono delle aree rurali e montane (che non è un fenomeno "naturale" ma la conseguenza di scelte di politica agricola, demografica, sociale ecc.) la fauna selvatica si è moltiplicata, spesso in modo disordinato creando evidenti squilibri ecologici.
Da "orde" di cacciatori a orde di ungulati
Quello che rimane delle attività agricole (ma anche dei boschi coltivati) deve essere protetto da orde di ungulati che, con immensa gioia degli ambientalisti da salotto, hanno "calamitato" anche la presenza di predatori (comprese specie estinte che sono state reintrodotte artificialmente).
Il fatto è che le popolazioni rurali e di montagna, oltre a ridotte di consistenza, non hanno mai avuto molto peso politico. E lo hanno perso ancora di più da quando i politici, alla ricerca di facile consenso, tendono a lasciarsi influenzare sempre di più dalle tendenze più o meno effimere che riescono a trovare eco nei media e sempre meno da considerazioni di lungo periodo sul bene comune e l'equilibrio degli interessi sociali.
Così dopo 24 anni non è stato possibile mettere mano alla 157 nonostante che in ogni legislatura siano state avanzate proposte di riforma. Il mondo venatorio temendo la crescente presa dell'ideologia animal-ambientalista preferisce tenersi un ferro vecchio piuttosto che rischiare di far passare norme ancora più restrittive.
L'Italia è l'unico paese in cui gli ambientalisti (o comunque una consistente quota di essi) continua a sostenere la necessità di abolire a caccia o, comunque, di restringere ulteriormentel'ambito dell'attività venatoria. È l'unico paese dove, nonostante la crescita della popolazione e dei danni che essa provoca, non viene consentito il sia pur minimo controllo legale del lupo.
Il risultato è che la caccia illegale (o i lacci e i veleni) provocano l'abbattimento di centinaia di lupi all'anno. Ma il protezionismo ideologico è contento così.
Solo ideologia
Non c'è nulla di ecologico nelle posizioni che impediscono un più efficace controllo della fauna, c'è solo ideologia, c'è solo quella demagogia pseudoambientalista che cattura il consenso degli ambientalisti in pantofole condizionati dai documentari naturalistici "buonisti" sulla fauna propinati da decenni su tutte le reti. Una situazione da cui è difficile uscire perché rende bene essere imprenditori politici ed economici della demagogia ambiental-animalista. Rende in termini di finanziamenti milionari, consulemze, reti di Parchi, centri di educazione ambientale, centri di recupero della fauna selvatica, cadreghe in organi dove si è pagati per non lavorare. Una rete di centri di potere e di spesa che - in epoca di crisi e di tagli sociali - alimenta cerchie di parassitismo e clientelismo, torme di "esperti" e personale tecnoburocratico dedito a ri-produrre l'industria culturale della demagogia verde, ad espandere e consolidare un'influenza ideologica che assicura loro il mantenimento dei privilegi.
Il controllo è "un'eccezione"
La legge 157, che ha abolito la nozione politicamente scorretta di "specie nociva" (riservandola senza usare la scomoda etichetta a ratti e arvicole), considera il ricorso ai Piani di controllo come extrema ratio. Una corretta applicazione dei principi ideali della caccia programmata, basata sui censimenti, i piani di abbattimento, dovrebbe - nel mondo ideale - consentire di raggiungere sempre e comunque l'obiettivo di popolazioni faunistiche equilibrate.
L'ISPRA ha recentemente ribadito questo principio nelle Linee guida per la gestione degli ungulati (cervidi e bovidi), settembre 2013:
Il controllo si configura dunque come un intervento con requisiti di straordinarietà e di urgenza che lo rendono inadatto ad essere inserito fra gli strumenti contemplati nella pianificazione faunistico-venatoria ordinaria. Conseguentemente, nel territorio cacciabile, il mancato completamento dei piani di prelievo venatorio approvati non può essere considerato una valida motivazione per il ricorso al controllo numerico A supporto di quest’ultimo punto, si può citare la sentenza della Corte Costituzionale n. 387 del 4 novembre 2008 che, in risposta ad un ricorso mosso contro la legge sulla caccia della Provincia di Bolzano, dichiara illegittimo il ricorso al controllo in caso di mancato completamento dei piani di abbattimento degli Ungulati al di fuori delle procedure stabilite dall’art. 19 della legge 157/92.
D'altra parte nelle stesse Linee guida si riconosce che:
L’esperienza fino ad oggi maturata in relazione alla gestione dei Cervidi nelle aree problematiche ha evidenziato come possano sussistere in questi contesti serie difficoltà nell’attuazione dei piani di prelievo, legati principalmente al rapporto tra lo sforzo di caccia e l’effettiva realizzazione del piano programmato e dunque alla possibilità di attuare il prelievo nei tempi stabiliti dal calendario venatorio. In tal caso può essere opportuno introdurre modalità più flessibili di assegnazione dei capi, in grado di consentire una maggior libertà nella selezione del capo da abbattere in ciascuna uscita, pur nel rispetto del piano di prelievo programmato e della sua ripartizione qualitativa. Ad esempio potrebbe essere prevista un’assegnazione “aperta” (a scalare) dei capi da prelevare. L’obiettivo di riduzione della densità dovrebbe essere tuttavia perseguito nei tempi stabiliti per la caccia di selezione, senza ricorrere ad un ampliamento del periodo in cui effettuare il prelievo.
L'impotenza delle provincie
Il Comitato per la difesa dai danni da ungulati che si è costituito in Valle Intelvi in provincia di Como (Comprensorio prealpino di caccia) contesta che la densità agroforestale del cervo è più che doppia rispetto a quella indicata dal Piano faunistico (900 capi contro 400). Contesta anche come inefficace il metodo utilizzato dalla provincia (sulla base dei "suggerimenti" del'ISPRA di cui sopra) di "liberalizzare le femmine" verso la fine della stagione venatoria. Un metodo che non ha aiutato ad avvicinarsi agli obiettivi dei piani di abbattimento e che crea un ulteriore squilibrio di capi abbattuti tra cacciatori di serie A (più "professionisti" e quindi con più tempo a disposizione e maggiori capacità) e cacciatori di serie B. Al Comitato la provincia ha risposto che cul cervo non può essere eseguito il selecontrollo perché non ci sono gli strumenti normativi e l'entità dei danni causati non è trale da consentire di mettere in atto interventi straordinari".
Si tratta di una risposta contradditoria perché, se non vi fossero gli "strumenti normativi", anche di fronte a danni ingenti non si potrebbe comunque mettere in essere un Piano di controllo. In realtà lo strumento normativo c'è ed è bello chiaro è il comma 2, art. 19 della legge 157/92 che recita:
Le regioni, per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia. Tale controllo, esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l'utilizzo di metodi ecologici su parere dell'Istituto nazionale per la fauna selvatica. Qualora l'Istituto verifichi l'inefficacia dei predetti metodi, le regioni possono autorizzare piani di abbattimento. Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle amministrazioni provinciali.
Cervidi e cinghiali possono essere parimenti controllati
Non si fa differenza tra cervi e cinghiali tanto è vero che la Provinvcia di Bologna dal 2006 attua (Delibera della Giunta provinciale n. 267 del 1/8/2006) un Piano straordinario per il controllo degli ungulati (notare lo "straordinario"). Tale piano, approvato dall'ISPRA (è bene ricordarlo alle altre provincie che non vogliono sobbarcarsi l'onere di predisporre piani analoghi e di sostenere il contradditorio con l'ISPRA) prevede:
la possibilità di abbattere o catturare Cervidi (Cervi, Daini, Caprioli) in quattro situazioni: a) per evitare l’espansione e l’insediamento di questi animali a nord della direttrice Via Emilia- Bazzanese; b) per risolvere specifici problemi di sicurezza e di pubblica incolumità, oppure per motivi sanitari; c) per catturare o abbattere cervidi fuggiti da recinti di detenzione o di allevamento; d) per limitare i danni alle produzioni agricole di pregio.
Le motivazioni della provincia di Bologna sono le stesse di molte altre. Vero è che per concedere il suo nulla osta l'ISPRA dovrebbe constatare che i mezzi "ecologici" per contenere la specie di cui si chiede il controllo si sono dimostrati inefficaci e che i danni assumono una significativa entità. Nell'attesa di accumulare dati su monitoraggi, rilievi, danni, inefficacia conclamata dei mezzi di prevenzione del danno, passano gli anni. Le aziende agricole chiudono e sempre più cittadini sfasciano l'autovettura o finiscono all'ospedale per le conseguenze delle collisioni.
Nel caso del cervo i mezzi "ecologici", come vengono ipocritamente definiti i sistemi di protezione passiva delle coltivazioni, per essere efficaci devono prevedere robuste recinzioni alte sino a 2 m (il cervo è un grande saltatore). Non solo tali difese comportano costi ingenti per la posa delle recinzioni ma sono ben poco "ecologici" e non contribuiscono certo alla qualità del paesaggio (vedi foto sotto che ritrae un vigneto "blindato"). Per poter salvare la produzione di fieno i contadini di montagna dovrebbero chiudere in cassaforte (cintare con reti metalliche elettrosaldate) tutti i pezzi di prato. Una soluzione economica ed ecologica? Va anche detto che anche quando i Piani di controllo vengono approvati sono caratterizzati da una serie di limitazioni che li rendono inefficaci. Tanto per cominciare bisognerebbe usare per l'attuazione dei controlli le stesse arme usate per la caccia. Solo di recente, di fronte all'esasperazione del conflitto in materia di danni da cinghiale, si è passati ad affiancare i trappolaggi ai "normali mezzi di caccia" e ad introdurre tecnologie "poco sportive" come i pasturatori automatici e le fototrappole.
Danni ingenti ma non denunciati
In assenza di mezzi "ecologici" efficaci ed economicamente sostenibili le coltivazioni sono oggetto di forti danni che non riguardano solo i "frutti pendenti" ma anche la potenzialità produttiva come quando le piante da frutto sono pesantemnente scortecciate (foto sotto). Le provincie, però, hanno buon gioco nel sostenere che "i danni non sono rilevanti" quando ci si trova di fronte alla realtà di montagna dove le aziende sono piccole e non hanno la forza economica delle grandi aziende specializzate viticole o frutticole. Per di più in montagna molti orti, campi di patate, alberi da frutta sono coltivati da persone che non sono "imprenditori agricoli". Per esse, in base ad una normativa dalla rara sensibilità ed equità sociale, non è previsto alcun indennizzo dei danni subiti in quanto la loro non è produzione commerciale che genera valori di mercato. L'autoproduzione per le nostre isttuzioni non ha alcun valore. Il buon senso direbbe che il cittadino che si vede distrutto un raccolto, sia pur piccoolo, subisce un danno economico quantomeno perché deve acquistare ai supermercati quelle mele o quelle patate che avrebbe voluto autoprodurre.
Ma, inutile girarci intorno, le leggi forestali e faunistiche sono fatte per facilitare la "pulizia etnica" della montagna e delle aree rurali. Tanto meglio se i cittadini subiscono danni dalla fauna selvatica, così saranno maggiormente spinti ad abbandonare la montagna.
Censire i danni
Nell'approvazione dei Piani di controllo si fa riferimento non nsolo all'entità dei danni ma anche alla percezione sociale degli stessi, all'oggettiva presenza di lamentele, proteste, petizioni, prese di posizione delle organizzazioni agricole. E' l'elemento dii "conflittualità" che fa scattare i Piani di controllo. Come dire: "se se ne stanno buoi e subiscono peggio per loro". L'ISPRA nelle citate Linee guida fa espicitamente riferimento all'esigenza di "attenuare i conflitti".
L’incidenza e la localizzazione geografica degli episodi di danneggiamento alle produzioni agricole e degli incidenti stradali in cui sono coinvolti esemplari di Cervidi consentono una modulazione nello spazio del prelievo, che dovrà essere attuato di preferenza nelle aree di maggior criticità, contribuendo all’attenuazione dei conflitti.
Per contrastare una situazione in cui il danno c'è, la sofferenza c'è ma non emerge nelle forme e nelle dimensioni che consentomo di "smuovere" istituzioni largamente inerti il Comitato per la difesa dai danni da ungulati della Valle Intelvi sta appellandosi ai cittadini perché segnalino tutti i danni subiti. Nonostante che la Provincia indennizzi sempre meno i contadini (con elemosina non proporzionate al danno ma alla magra disponibilità di cassa) e non indennzzi per nulla i privati, è importante denunciare lo stesso tutti i danni subiti sia per incidenti stradali che per distruzione di coltivi. Le statistiche provinciali che, anche nel caso del cinghiale, riducono a poche migliaia di € i danni sono ovviamente frutto della sfiducia dei cittadini di fronte a delle Istituzioni che vengono volentieri meno al principio "la fauna è dello stato, lo stato ne deve pagare i danni", un principio che pure è strato riconosciuto dalla giurisprudenza con varie sentenze di Cassazione. Soldi non ci sono, danni non si pagano..
Troppo comodo care istituzioni, se ci sono i danni si limita la fauna che li produce, si utilizza la fauna stessa per risarcire il danno. Invece si fa di tutto per togliere anche la possibilità per il contadino con licenza di caccia di autorisarcirsi i danni da cinbghiale con le carcasse abbattute. Imponendo di pagarle a Comprensorio di caccia. Una prassi che non è fortunatamente seguitra da altre provincie che, fatti salvi gli oneri dell'ispezione veterinariaobbligatoria, lasciano al contadino il valore del capo abbattuto.