(18.07.12) Sotto le mentite spoglie della difesa della biodiversità e della valorizzazione delle caratteristiche 'uniche' dei formaggi di malga è in corso in Trentino l'ennesima operazione a danno della 'resistenza casearia'
Progetto "Fermalga" in Trentino
per la biodiversità e il gusto, o no?
di Michele Corti
Per valorizzare la specificità di ogni malga/alpeggio va promosso l'utilizzo - sempre che non si voglia operare come un tempo - dei lattoinnesti autoprodotti che conservano la microflora spontaneamente selezionatasi negli ambienti di lavorazione. Invece si insiste con le colture selezionate e liofilizzate di fermenti (ora semi-autoctoni)
Nel corso della passata stagione di alpeggio alcuni tecnici della Fondazione Mach (S. Michele all'Adige) hanno visitato alcune malghe del Lagorai (media Valsugana) , di Pejo e Rabbi (valli laterali della Val di Sole) per prelevare campioni da cui isolare fermenti lattici autoctoni.
Di questa operazione si rende conto nello “speciale malghe” apparso sul quotidiano l’Adige di sabato scorso (14 luglio)
Le istituzioni si convertono alla 'resistenza casearia'?
Di questo progetto "Fermalga" ci si dovrebbe rallegrare, considerato che gli scopi dichiarati consistono nel valorizzare le produzioni casearie a latte crudo realizzate direttamente in malga. Ma vi sonoalcuni passaggi che non appaiono chiari. Il contenuto delle azioni ed i prodotti del progetto non appaiono coerenti con le premesse enunciate da Adriano Dalpez, presidente della camera di commercio:
“l’unicità e la tipicità di ogni formaggio di malga
deriva dal fatto che il latte, munto da animali al pascolo in quota, viene
lavorato crudo in loco e conserva intatto il patrimonio microbico ed enzimatico
originale”.
Chi si batte da anni, sia in Lombardia che in Trentino per salvaguardare le caratteristiche delle produzioni di malga/alpeggio tradizionali a partire dal Bitto storico della omonima valle orobica e dal Formaggio originale delle malghe del Lagorai ha messo al centro della ‘resistenza casearia’ l'opposizione all’uso delle ‘bustine’ di colture di fermenti selezionati liofilizzato utilizzando le identiche argomentazioni usate da Dalpez.
La 'biodiversità' è stata conservata per merito dei 'troglditi' osteggiati in ogni modo
Intanto a Dalpez, alla autonoma provincia di Trento, alla Fondazione Mach si dovrebbe far rilevare che sarebbe opportuno riconoscere che, se in Trentino esistono ancor oggi malghe ove poter ritrovare una microflora ‘biodiversa’ (non sostituita o inquinata dai ceppi delle collezioni di colture mantenute dall’industria nei suoi laboratori ), è per merito di ostinati malghesi e casari che non hanno ritenuto opportuno introdurre l’uso di colture selezionate, come caldeggiato da anni nell’ambito dei corsi di aggiornamento e formazione della Fondazione Mach. Insomma se oggi questi signori possono parlare di ceppi autoctoni di microflora casearia non è stato certo per merito loro.
Oggi è stato ancora possibile l’ “individuare di campioni significativi di flora spontanea attraverso un programma di prelievo di latte in malghe site in alcuni areali tradizionali (Val di Sole, Peio e Rabbi e Lagorai/Valsugana)” . Si tratta di “circa 500 ceppi di flora batterica autoctona” prelevati in quelli che vengono forbitamente definiti “areali tradizionali”. Ma le terminologie usate dagli illuminati tecnici della Fondazione Mach per riferirsi ai malghesi ‘custodi’ della biodiversità sono solitamente altre (‘testardi’, ‘troglodidi’ e via discorrendo). Solo grazie a questi ‘trogloditi’ delle valli più refrattarie al ‘progresso’ sarà possibile: “produrre fermenti che garantiscano ai casari concreti vantaggi tecnologici senza perdere i valori sensoriali unici della zona di produzione”.
Se la microflora di una malga è 'unica' che senso ha produrre fermenti selezionati 'per zona'?
Qualcos'altro, però, non torna nell’idilliaco quadretto dipinto da Dalpez. Se il presupposto è che “ogni malga rappresenta un unicum” come è possibile, estraendo un pool di fermenti biodiversi dalle poche malghe sopravvissute alla ‘pulizia etnica’ della modernità casearia, mantenere questo unicum o forse anche ripristinarlo dove si è perso? La chiave per comprendere il mistero sta nell’obiettivo dichiarato: “non perdere i vantaggi sensoriali unici della zona tipica di produzione”. I conti non tornano proprio a questo punto.
Nelle malghedove sono stati prelevati i campioni di latte ‘biodiverso’ chi non ha ancora usato le bustine non ha nessuna intenzione di ‘mollare’. I malghesi ‘resistenti’ sanno bene che il formaggio delle malghe che si sono adattate all’uso dei fermenti selezionati ‘non sa di niente’. Non c’è alcun rischio che loro cambino idea a “perdano i vantaggi sensoriali”. E allora?
Allora lo scopo è quello di operare, ancora una volta,
la standardizzazione sotto le mentite spoglie di una sbandierata difesa della
‘biodiversità’ . La Fondazione Mach
intende produrre dei fermenti selezionati non ‘su misura’ per ogni singola
malga, ottenuti a partire dalla microflora spontanea che in essa si trova ma
"per la zona tipica di produzione" (definita ovviamente dai tecnici di S.
Michele). A tutte le malghe di Rabbi le stesse bustine, a tutte quelle del
Lagorai le stesse bustine. E poi con un
cocktail di ceppi del Lagorai e di Rabbi si farà un fermento per quelle della
Val di Fiemme o di Primiero e via discorrendo. Si continua a far finta di non capire che una malga
è ‘unica’ non solo rispetto a quella di un’altra valle o di un’altra provincia,
ma anche rispetto alla malga vicina dove, per via dell’uso di pratiche
tecnologiche diverse, della presenza di
ambienti di lavorazione con diversi con microclimi, la microflora
casearia ‘selvaggia’ non è certo la stessa.
Chi vuole gli Ogm può credibilmente tutelare la biodiversità?
Il formaggio di malga è potenzialmente un
prodotto grandioso perché riscatta la tendenza storica alla standardizzazione
offrendo al consumatore l’equivalente dei gran cru dei vini
nobili. In nome della difesa della biodiversità e del gusto non omologato
si procede però nella solita direzione (d’altronde se a capo della Fondazione
Mach si mette uno scienziato fautore degli Ogm che cosa ci si può attendere?).
Restano da chiarire ancora due cose. Le malghe, i
malghesi, i casari che hanno graziosamente e gratuitamente fornito la biodiversità per costituire la
‘collezione’ in via di costituzione presso la Fondazione Mach avranno
come restituzione un fermento ‘semi-standardizzato’ o, se continueranno come sicuramente
alcuni faranno, a lavorare a modo loro (senza innesti o con latto innesto) non
avranno alcuna restituzione Ma la biodiversità è moneta sonante. Le
multinazionali pagano e brevettano. Gli enti di ricerca che operano prelievi di
microflora spontanea e che mantengono
delle colture in collezione presso le proprie strutture rilasciano ai caseifici
una dichiarazione scritta in cui è messo nero su bianco che la PROPRIETA’ dei
ceppi isolati rimane del caseificio. In questo caso, forse perché si riteneva
di trattare con dei ‘sempliciotti’, non risulta che la Fondazione Mach e
i suoi sponsor (CCIAA e PAT) abbiano rilasciato simili dichiarazioni.
Un problema etico
A questo punto mi pare lecito chiedere una pubblicarisposta all’interrogativo: “A chi appartengono i 500 ceppi ‘selvatici’
isolati?” Alla Fondazione Mach? Alla PAT, alla CCIAA? Una domanda di non poco
conto considerato che in un
domani qualcuno potrebbe essere tentato di vendere alle multinazionali questa
‘biodiversità’. Diranno (scandalizzati) che è una malevola insinuazione, che si
opera nell’ambito dell’interesse pubblico e bla, bla. Ma io insisto nel dire
che si pone un problema etico. È stata sottratta alle malghe una biodiversità
che apparteneva loro (ai proprietari, ai
casari che hanno il merito di
averla generata e conservata)Li si è resi consapevoli che cedevano un bene
patrimoniale? Ci si rende conto che si è operato nel Lagorai e nelle altre
malghe ‘tradizionali’ un po’ come quelle multinazionali farmaceutiche che
saccheggiano la biodiversità dei popoli indigeni?
L’ultima questione. Risulta che il progetto Fermalga sia costato mezzo milione.
Con questa cifra le aziende specializzate del settore avrebbero potuto produrre
fermenti ad hoc ‘malga-specifici’ per ognuna di esse che fosse interessata.