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(21.03.09) Da qualche anno c'è una forte ripresa dei tradizionali rituali propiziatorie primaverili

 

Ciamáa l erba

Rivivere collettivamente la scansione delle stagioni, dire basta ai capannoni. Ecco come la ritualità tradizionale torna viva e funzionale ai bisogni attuali

 

di Michele Corti

 

 

Ecologia partecipata e interiorizzata = ecologia ruralista

 

Parlare di nuovi-vecchi rituali della primavera significa parlare di qualcosa che nasce dal basso, che coinvolge la gente perché  tocca corde profonde, evoca simboli e immagini che la modernità non ha cancellato (almeno del tutto).

Tutto il contrario dell'ambientalismo urbano, dei suoi astratti appelli ad un civismo "politicamente corretto" che non scalda il cuore e finisce per scocciare con i suoi richiami pedagogici. Di fronte al recupero di alcune tradizioni qualcuno storce il naso e sputa le solite sentenze: "folklorismo", "re-invenzione della tradizione", "ripiegamento localistico e nostalgico". Lasciamoli dire.

Per parecchio tempo gli intellettuali urbani hanno discettato sul fatto che l'unica espressione di ritualità popolare sopravvissuta al cataclisma antropologico del "crollo" della società rurale (tra gli anni '50 e '60) fossero le Feste dell'Unità e simili.

Oggi sappiamo che il "cataclisma" non ha distrutto così in profondità come si pensava e che, di fronte a determinati stimoli e situazioni, c'è un substrato culturale che può riaffiorare.

 

Fuori dai musei

 

Negli anni '70 del secolo trascorso sono fioriti i "musei della civiltà contadina" e si è lodevolmente cercato di raccogliere le testimonianze di una cultura orale che andava scomparendo. Si è ritenuto che la scomparsa di certe forme, legate a strumenti e tecniche di lavoro agricolo superate dalla meccanizzazione, equivalesse alla scomparsa in toto della cultura rurale e che essa andava conservata "sotto vetro", come reliquia, negli archivi e nei musei. In realtà anche fuori dai musei e dagli archivi è fortunatamente rimasto molto.

La conferma che la cultura rurale non sia morta e defunta, ma in grado di trasformarsi e di presentarsi in forme nuove è venuta di recente da molti segnali. Pur nei termini di una sostanziale ambiguità il boom dell'agriturismo, delle fattorie didattiche, dell'agricoltura urbana (vedi Obama che pianta cavoli al posto delle rose alla Casa Bianca), dello stesso neoruralismo residenziale (la "voglia di campagna") ha prodotto conseguenze non solo di facciata. Ha "tirato fuori dai musei" tutta una serie di elementi: razze e varietà in via di estinzione, antiche tecniche di coltivazione e trasformazione alimentare, "cucine contadine". Lo ha fatto in una dimensione tale da forzare oggettivamente il quadro che vorrebbe comprimere questo revival nei termini della strumentalizzazione mercantile, dell'ideologia del Mulino Bianco.

Ad un certo punto  la finzione (la rappresentazione ruffiana e strumentale di ruralità immaginarie) e la realtà (fatta di bisogni "neorurali" autentici) finiscono per incontrarsi. Nel frattempo si mettono in moto dinamiche economiche e culturali che rivendicano una loro autonomia e si crea una saldatura tra un "vecchio mondo", non ancora del tutto scomparso (anche se da decenni qualificato come "residuale", "perdente", "triste"), e un "nuovo mondo" portatore di domande sociali nuove di zecca, profondamente critico e disilluso rispetto ai modelli industrialisti e metropolitani.

 

Il rito rivive

 

Queste sono le premesse del ritorno d'attualità di ritualità collettive legate alla cultura rurale. Delle "Feste del fieno" abbiamo già diffusamente parlato (vedi FenFesta a Monno ). Le "Feste del Fieno" pur collegandosi gerericamente alle feste del raccolto rappresentano modalità sostanzialmente nuove, pensate per portare all'attenzione della comunità il problema della cura dei prati, della scomparsa del bestiame dalle piccole stalle e dai villaggi (e della corrispondente concentrazione in grandi strutture intensive nei fondovalle).  I riti propiziatori primaverili, invece, vengono fatti rivivere mantenendo alcuni schemi che li caratterizzavano e sovrapponendovi nuovi significati. Nella fattispecie ci riferiamo a quei rituali (ciamaa l'erba, sunaa da marz, andaa a smarz, calen' marz, bater marzo) diffusi soprattutto in Valtellina e nelle aree limitrofe del comasco e nei grigioni (valli lombardofone ed Engadina).

Altri riti primaverili erano diffusi nel veneto (specie nel Veronese), in Friuli e in alcune aree della Padania. L'azione  principale è costituita dal compiere percorsi rituali nell'ambito delle diverse unità della comunità (frazioni e nuclei rurali isolati) utilizzando "strumenti" legati all'allevameno e alla pastorizia (principalmente i campanacci delle mucche - sampùgn - ma anche corni musicali da pastore ricavati dalle corna dei becchi). Il suono fragoroso di tali strumenti ha la funzione di destare l'erba dal suo sonno invernale e spingerla a riprendere il ciclo vegetativo per poter crescere e consentire la fienagione indispensabile per mantenere il bestiame. Dal momento che il rito si svolgeva spesso il primo marzo (o all'inizio del mese) l'erba "chiamata" si trovava sotto una coltre di neve (e questo spiega il fragore). Si tratta di manifestazioni legate al ciclo di morte e rinascita dello spirito della vegetazione volte ad esorcizzare i demoni che potrebbero impedire la rinascita. A latere di questo nucleo il rito prevede diverse altre azioni e, quasi sempre una questua accompagnata da formule di benedizione e propiziazione o - in caso di rifiuto - da formule di maledizione (del tipo “Piena la ca’ de rat, piena la ca’ de sciat”). Alla questua si accompagnavano spesso preghiere (o formule magiche) e consumo collettivo di particolari cibi preparati per l'occasione (oltre al vino e alle altre cibarie raccolte con le offerte).

 

Ciamáa l erba oggi

 

Il rito era attestato (limitatamente alla Valtellina) ad Albosaggia, Albaredo, Forcola, Val Masino, Tresivio, Spriana, Teglio, Chiuro, Arigna di Ponte V. (Roberto Valota, Andà a smarz. Chiamare l'erba.  Rituali di propiziazione nel Comasco e nel nord, Italia, Cattaneo Editore, Oggiono - LC -, 1991). L'elenco di Valota non è però completo perché, per esempio, è ben conosciuto anche a Gerola alta. Oggi viene praticato in diverse località della Valmalenco, nella costa dei Cèch, nelle valli del Bitto, a Teglio, Ponte, Aprica. Recuperato da qualche anno come elemento ludico (a volte con finalità turistiche) e persino "replicata" (con evidente finalità turistica) anche in estate, oggi, il ciamáa l erba pare assumere un significato di consapevole associazione a nuovi espliciti significati. E' significativo che dopo gli "eventi" di Gerola alta, Albaredo e dei Cèch gli "agricoli" della zona abbiano inteso organizzare un Ciamáa l erba "cittadino" o "mandamentale" il giorno 21 marzo (oggi) nella cittadina di Morbegno.

Innanzitutto è una manifestazione della volontà di farsi visibili e di voler riaffermare che, per quanto poco numerosa, la categoria dei "contadini" o "imprenditori agricoli" (l'autodefinizione di "agricoli" rappresenta una sintesi "neutra") c'è  e che, di fronte alle proclamate volontà di "valorizzare il cibo locale" e "curare il territorio", sarebbe doveroso riconoscere che per troppo tempo ne è sottovalutata l'importanza trattandola quale un corpo a sé.

La sampugnéra (la sonata con i campanacci) attraverserà le vie cittadine terminando nell'area del Polo fieristico e sugli ultimi prati rimasti della vasta area agricola rappresentata dal conoide di deiezione del Bitto (i nucluo urbano era in cima al conoide). I suoni metallici dei campanacci hanno anche il significato di difendere l'erba e i prati dai nuovi "spiriti maligni", ovvero dall'ulteriore infierire del morbo della capannonite che, non solo a Morbegno, ma in tutta la bassa Valtellina, ha impeversato in modo patologico (e continua ad imperversare nonostante la crisi economica).



 

 

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