di Bruno Bignami
1. La trasformazione dell’agricoltura padana nel contesto globale
2. La fame come problema etico
3. Le risorse energetiche al servizio dell’intera umanità
4. Principi etici di riferimento
5. La questione «eco-ducativa»
1. La trasformazione dell’agricoltura padana nel contesto globale
Il nostro rapporto con la terra è in crisi. E’ in discussione il compito assegnato da Dio all’uomo di
custodirla e coltivarla (cfr Gen 2,15). Stiamo attraversando passaggi epocali. I territori che fino a pochi anni fa erano coltivati a grano, pomodori, barbabietole, mais o verdure per l’agroalimentare o per l’allevamento bovino o suinicolo, oggi si sono trasformati in monocolture di mais, soia e altri cereali per le centrali a biomassa… La politica agricola di questi anni è diventata un’industria. Il dilemma nel quale ci troviamo è se l’agricoltura sia per far correre le auto, accendere lampadine
o per la vita degli esseri umani.
Il biocombustibile è il cibo trasformato in riscaldamento, in elettricità e in carburante. La rivista
Science il 28 febbraio 2008 ha pubblicato un articolo in cui dimostrava che i biocombustibili aumentano le emissioni complessive di gas serra. Il motivo è dato dal disboscamento delle foreste (scandalosi sono i casi dell’America latina!) per fare spazio alle coltivazioni di soia o di mais. Dal punto di vista della convenienza energetica, anche nella pianura padana, occorre considerare che per lavorare la terra (arare, seminare, irrigare, raccogliere e trasportare…) serve un elevato consumo di energia derivante
da combustibili fossili, che in qualche caso rischia di essere maggiore di quella prodotta tramite il biocombustibile. Si finisce così per aggravare il riscaldamento globale, invece di diminuirlo. Scrive Vandana Shiva:
«L’imposizione dei biocombustibili è la ricetta per la catastrofe: rappresenta uno di quei casi
in cui la cura è peggiore della malattia. Il pianeta e i poveri sono le vittime; le foreste pluviali – i polmoni, il cuore e il fegato della Terra – vengono spianate dai bulldozer per poter coltivare soia e palme da olio. In Brasile 22,2 milioni di ettari sono stati convertiti a coltivazioni di soia (…). Dal 1990 l’Indonesia ha distrutto 28 milioni di ettari di foresta pluviale per far posto alle piantagioni di palma da olio. I poveri sono le vittime perché la terra e l’acqua che potrebbero produrre
cibo per nutrire gli affamati vengono utilizzate per far viaggiare le automobili» (1).
La conversione dell’agricoltura, da luogo di produzione del cibo a luogo industriale di produzione energetica,
rischia di mettere in ginocchio i mercati del cibo umano.
I dati del Centro ricerche produzioni animali (Crpa) di Reggio Emilia fotografano un boom straordinario nel nostro
Paese: gli impianti a biogas sono passati dai 273 del marzo 2010 ai 521 del maggio 2011 a 994 alla fine del 2012. Un’impennata esponenziale! La crescita del numero di centrali è accompagnata dall’aumento della potenza installata, che ha raggiunto i 750 MW, rispetto ai 350 MW del 2011. Con 360 impianti di biogas funzionanti sull’intero territorio regionale, pari a una potenza installata di 288 Mw, la Lombardia si colloca al primo posto a livello nazionale. Le materie prime più utilizzate sono una
miscela di diversi prodotti agro-zootecnici: insilati di mais e sottoprodotti agroalimentari, reflui di allevamento e scarti dell’agroindustria. Le biomasse, per spingere al massimo la produzione, necessitano di carboidrati e di amidi, più facilmente a disposizione con mais e cereali.
Il boom ovviamente è legato a doppio filo agli incentivi che la politica ha messo a disposizione in questi
anni. La trasformazione si è spesso giustificata come possibilità di guadagno per un’attività agricola che è stato considerata di serie B rispetto ad altri rami produttivi o lavorativi. Lo scrittore francese Jean Giono scrisse nel 1938 nella Lettera ai contadini sulla povertà e la pace:
«L’arma con la quale (il mondo) vi riduce in schiavitù sono i soldi. Più accumulate i
suoi soldi di carta nei vostri armadi, più siete schiavi dei tempi moderni, meno siete contadini. Grazie all’imbroglio di questi soldi, valore reale zero, riescono a nutrirsi (voglio dire mangiare) e a vivere questi uomini antinaturali e inutili che vi governano, che sono padroni della vostra vita, che possono decidere dall’oggi al domani di scagliarvi, contadini di qui contro contadini di laggiù, dall’altra parte della frontiera, a fare guerre che sono il massacro esclusivo dei contadini di ogni
nazione. Grazie ai soldi, voi nutrite coloro che vi uccidono» (2).
Parole durissime, eppure di straordinaria attualità. La sottomissione al denaro è il pericolo oggi
di chi lavora la terra. Una prepotenza che si manifesta nel consumismo esasperato, per cui il valore del cibo è alla stregua di una merce qualsiasi.
2. La fame come problema etico
Benedetto XVI nella Caritas in veritate (CIV),
pubblicata nel 2009, ricordava che «dare da mangiare agli affamati è un imperativo etico per la Chiesa universale» (CIV 27), ma è anche un traguardo necessario per garantire la pace tra i popoli. Il problema è che la fame non dipende solamente dalla scarsità materiale, «ma piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale». Vi sono cause strutturali che non consentono l’accesso al cibo e che
chiedono un ripensamento dello sviluppo sul lungo periodo. Torna l’idea di sostenere programmi, come aveva suggerito Paolo VI. Nel solco della PP si richiedono oggi «investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale, in modo da garantire una loro sostenibilità
anche nel lungo periodo. Tutto ciò va realizzato coinvolgendo le comunità locali nelle scelte e nelle decisioni relative all'uso della terra coltivabile» (CIV 27). Occorre quindi ragionare in termini di progetti a sostegno dell’agricoltura e non semplicemente di aiuti quando l’emergenza umanitaria si presenta nella sua durezza. L’accesso al cibo, che per Benedetto XVI è un diritto universale, esige una coscienza solidale.
A complemento del contributo di CIV, Benedetto XVI ha tenuto un discorso presso la sede Fao di Roma il 16 novembre
2009 in occasione della 36a sessione della Conferenza Generale dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura. Accanto alla denuncia per la crescita del numero di affamati nel mondo, ricorda il divario tra l’aumento dei prezzi degli alimenti e la diminuzione delle disponibilità economiche delle popolazioni più povere. La forbice si allarga. Il problema così diventa non tanto quello del rapporto causa-effetto tra crescita della popolazione e fame, ma della distribuzione di derrate alimentari.
L’accesso al cibo è da tutelare. Le cause della fame sono da riscontrare anche in certe sovvenzioni agricole che alterano l’equilibrio, in modelli alimentari improntati sul consumo e nell’egoismo della speculazione, che consente di trattare il cibo come una merce. La mercificazione del cibo ha estromesso il concetto di solidarietà (3). All’interno della visione dell’insegnamento sociale della Chiesa, papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii
Gaudium (EG) riflette:
«“ci scandalizza il fatto di sapere che esiste cibo sufficiente per tutti e che la fame si deve alla
cattiva distribuzione dei beni e del reddito. Il problema si aggrava con la pratica generalizzata dello spreco”. Desideriamo però ancora di più, il nostro sogno vola più alto. Non parliamo solamente di assicurare a tutti il cibo, o un “decoroso sostentamento”, ma che possano avere “prosperità nei suoi molteplici aspetti”. Questo implica educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e specialmente lavoro, perché nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere
umano esprime e accresce la dignità della propria vita. Il giusto salario permette l’accesso adeguato agli altri beni che sono destinati all’uso comune» (EG 191-192).
La denuncia è ancor più grave se si considera un altro pericolo sempre in agguato, che riguarda
il piano etico: quello di pensare che la fame sia strutturale, parte integrante di un sistema e perciò mai risolvibile. L’idea strisciante è che occorra abituarsi ad un mondo in cui qualcuno muore di fame. Bisogna conviverci: ciò genera «un senso di rassegnato sconforto se non addirittura di indifferenza» (4).
Non basta infatti la cooperazione, ma occorrono principi che la ispirino. Solo riconoscendo la comune appartenenza
alla famiglia umana universale si può chiedere ad ogni Paese che sia solidale. Giustizia e solidarietà sono due facce con cui si presenta l’amore. «Non è possibile continuare ad accettare opulenza e spreco, quando il dramma della fame assume dimensioni sempre maggiori». Dal punto di vista teologico-morale riconosciamo ostacoli dovuti a interessi privati e a mentalità egoistiche. Al fondo sono ancora vincenti le logiche che privilegiano gli egoismi di pochi.
Si mantiene un «atteggiamento dimissionario», che tende a minimizzare la realtà, nella convinzione
che la fame sia problema insuperabile. In fondo, riteniamo che sia inevitabile una percentuale di morti per fame. Fa parte del sistema. Il mondo è così e non si può cambiare, si pensa. Persiste anche la tentazione di giustificare la «fuga nel privato», separando il sociale dall’esperienza morale.
L’interesse per il privato è così separato drasticamente dalle situazioni storiche oggettive. Lo
rivela ancora una volta il consumismo: mi posso permettere di gettare cibo nelle discariche, perché comunque quelli che ora muoiono di fame non potrebbero averne, non sono qui ai piedi della mia tavola. Questi atteggiamenti si saldano spesso con la «fuga nello strategico». Si riconosce l’ingiustizia in atto ma non si mette in discussione il proprio sistema di riferimento. Dispiace se ogni 6 secondi un bambino muore di fame, ma il proprio stile di vita, le abitudini nella gestione del denaro
e nel fare la spesa, i modelli di produzione agricola… non si vogliono cambiare.
Per risolvere il problema dell’accesso di ogni uomo al cibo non basta porsi domande tecniche. Non è sufficiente
accrescere la produzione agricola, far uso di fertilizzanti più potenti, ricorrere a semi geneticamente modificati in grado di produrre quantità maggiori. Vi è prima una questione di senso da risolvere, per trasformare le strutture di rapporti umani sottostanti. La fame nel mondo è mancanza di convivialità. I morti per fame fotografano una fraternità tradita, prima di tutto. L’intervento in agricoltura o sui mercati è qualcosa di necessario ma non è sufficiente.
Ci si deve chiedere qual è l’autenticamente umano promosso da una struttura rispetto all’altra. Osserva S. Bastianel: «La domanda etica sull’uso delle risorse e sulla loro distribuzione è domanda sul senso che hanno per l’uomo i beni della terra. (…) Nella relazione alle cose, infatti, è implicata la relazione alle persone» (5) .
L’intenzionalità di Dio Creatore è che ogni uomo abbia a disposizione il necessario per vivere.
Il progetto è quello di vivere riconoscendosi fratelli. Il fine per cui l’uomo è creato è la comunione con Dio e con gli altri. La terra è custodita come giardino nella misura in cui è salvaguardata la possibilità di vita di ogni uomo. La comunione richiede la logica del «farsi prossimo», che è la condizione di gratuità attraverso la quale la terra ostile può tornare ad essere ungiardino. Questa logica di comunione è tradita da
sistemi distruttivi della fraternità. Scriveva Paolo VI: «Il mondo è malato. Il suo male risiede (…) nella mancanza di fraternità tra gli uomini e i popoli» (6).
Quando una persona si relaziona all’altro come uno da cui guardarsi, un nemico, allora la competizione prende
il sopravvento. Non c’è spazio per la comunione. La fraternità è denigrata come un valore astratto. La concretezza della vita significa tenere gli occhi ben aperti e non lasciarsi fregare, si dice. La presenza dell’altro è vista come alternativa alla mia esistenza. Tutto ciò giustifica la sua esclusione (quando non l’annientamento): mors tua, vita mea è la logica che diventa predominante. Il pane nella visione cristiana indica la prospettiva opposta: si condivide.
Si spezza con il fratello. «Chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità» (7). La condivisione esprime il superamento di stretti confini tra ciò che mi appartiene e ciò che appartiene all’altro.
3. Le risorse energetiche al servizio dell’intera umanità
L’insegnamento sociale della Chiesa quando affronta il tema delle risorse energetiche ripete tre affermazioni:
1. Le risorse non sono illimitate. Proprio il presupposto che pretende di avere a disposizione una quantità
illimitata di energia è infondato e alimenta due ideologie perverse: quella meccanicistica, che riduce il creato a oggetto, e quella consumistica, che accetta acriticamente sprechi. «Il primato attribuito al fare e all’avere piuttosto che all’essere causa gravi forme di alienazione umana» (8). Una feroce critica alla società dei consumi risale addirittura al 1987, quando Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis (SRS)
metteva in rilievo che il consumismo «comporta tanti “scarti” e “rifiuti”» (9) , al punto che ogni oggetto posseduto è destinato ad essere messo da parte, perdendo il suo valore.
La sottomissione al consumo genera una radicale insoddisfazione, perché ogni cosa che si possiede non
è in grado di soddisfare le aspirazioni più profonde dell’uomo. Si finisce in preda al materialismo che nega anche la possibilità di incontrare l’altro e di offrire sostegno al povero. La prima cosa da considerare circa le risorse energetiche è rendersi conto che sono limitate. Si richiede un bagno di realtà. Alcune risorse, oltre a non essere infinite, non sono rinnovabili. Se questo è vero, continuare con l’attuale ritmo di sfruttamento compromette seriamente il futuro
dell’umanità.
2. Le risorse energetiche sono al servizio di tutta l’umanità. In gergo tecnico si chiama «destinazione
universale dei beni». L’equità e la solidarietà intergenerazionale sono esigenze etiche necessarie. Si deve soprattutto a Benedetto XVI nell’enciclica CIV la richiesta di superare la tentazione dell’incetta delle risorse naturali. Infatti, «l’accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili da parte di alcuni Stati, gruppi di potere e imprese costituisce un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri» (10). Lo sfruttamento e i frequenti conflitti testimoniano una
mancanza di condivisione. Tra l’altro, le guerre pesano enormemente sulla possibilità di sviluppo di quei Paesi: morte, distruzione e ulteriore degrado li segnano e si abbattono su popolazioni inermi (11). L’enciclica invoca persino la possibilità di disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili. Occorre superare quindi il dominio di alcuni a scapito di altri, per una rinnovata solidarietà tra Paesi in via di sviluppo e Paesi avanzati.
La torta delle risorse energetiche non è equamente distribuita, a tal punto che l’accesso è vietato
ai Paesi che navigano nella miseria. Ha vinto la logica del più forte che si è arrogata il diritto di depredare il fabbisogno energetico di altri. «E’ anche necessaria una ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi» (CIV 49)(12). La condivisione e non la logica del più forte deve guidare la responsabilità per i beni della terra. La condivisione sembra essere possibile solo ad una condizione: chi finora
ha avuto di più sia disposto a fare un passo indietro. Ecco perché, secondo Benedetto XVI, «le società tecnologicamente avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico»(13). Si tratta di «favorire comportamenti improntati alla sobrietà, diminuendo il proprio fabbisogno di energia e migliorando le condizioni del suo utilizzo»(14). La condivisione si fonda su atteggiamenti di sobrietà che sanno rinunciare, per garantire una vita dignitosa
al fratello, e non sprecare inutilmente. Si comprende così che sul tema dell’energia è possibile educare a stili di vita alternativi.
3. La ricerca verso energie alternative. La proposta ecclesiale intende incoraggiare sia un miglioramento dell’efficienza
energetica, sia la ricerca tecnologica in favore di nuove fonti di energia. Già il Compendio della dottrina sociale della Chiesa (CDSC) aveva espresso la necessità di «continuare, tramite il contributo della comunità scientifica, a identificare nuove fonti energetiche, a sviluppare quelle alternative»(15). In questo solco, Benedetto XVI, nel Messaggio per la Pace 2010, è
stato ancor più esplicito, chiedendo di «incoraggiare le ricerche volte ad individuare le modalità più efficaci per sfruttare la grande potenzialità dell’energia solare»(16). Va promossa la ricerca e l’applicazione di energie di minore impatto ambientale. Queste osservazioni rappresentano dei veri e propri cartelli indicatori.
La Chiesa sta educando sempre più al fatto che la tecnica non è mai semplicemente tecnica. La responsabilizzazione
delle coscienze nel produrre e nel consumare energia è un’istanza fondamentale. Vi sono risorse energetiche che hanno per loro natura un forte impatto ambientale perché non rinnovabili (nucleare, centrali a carbone, petrolio…) ed altre che, oltre ad essere rinnovabili, hanno un minore impatto ecologico (solare, fotovoltaico, eolico…). Ve ne solo altre ancora, infine, che pur comparendo sotto il cartello di rinnovabili (es. biomasse) sono da ripensare sia per il loro legame con le non rinnovabili,
sia per l’impatto ambientale che causano. Solo le seconde rappresentano il futuro autentico dell’umanità. Occorre onestamente riconoscere che il futuro è altrove, in un mix di risorse che corrisponde alle possibilità dei territori. Per evitare sprechi, la strada maestra è quella di responsabilizzare le persone: ciò comporta produzioni più limitate e controllate.
4. Principi etici di riferimento
La responsabilità ecologica si fonda su tre criteri: la prevenzione, la precauzione e la causalità.
Il concetto di prevenzione chiede di evitare scelte che possono generare danni irreversibili. Il principio di precauzione, invece, riguarda situazioni di incertezza: si esige prudenza e assoluta trasparenza quando i rischi non sono certi e ciò che si potrebbe realizzare è qualcosa di non più rimediabile. Il criterio della causalità, infine, afferma che chi causa un danno deve pagarne le conseguenze. Corrisponde al classico assioma: «chi rompe, paga!». In campo ecologico
esprime l'esigenza di non far pesare su altri o sulle future generazioni le conseguenze negative di interventi i cui benefici sono solo a vantaggio di qualcuno o di una stagione dell’umanità.
Si può parlare di «sviluppo sostenibile» quando responsabilità e solidarietà
si coniugano insieme (17). Diversamente l’espressione si trasforma in ossimoro: non è possibile infatti coniugare il modello di sviluppo consumistico con la sostenibilità, in un mondo in cui le risorse sono limitate.
«La crisi epocale della crescita deriva dal fatto che con l’aumento dell’attività economica sono
smantellati elementi fondamentale ma non commerciali del benessere, come l’integrità della natura e delle relazioni sociali, la cui perdita non viene registrata dagli indicatori economici. Anzi, spesso queste perdite di benessere aumentano il volume delle transazioni monetarie» (18).
«Sostenibile» è lo sviluppo che non è pensato solo in termini di quantità di
beni prodotti. Comporta invece che l'utilizzo delle risorse esistenti sia fatto prestando attenzione al ciclo della natura, alla sua capacità di rigenerare risorse negli anni. Lo sfruttamento arbitrario promuove atteggiamenti che non rispettano i ritmi del creato e spezza quel legame vitale tra l'uomo e l'ambiente in cui vive. In campo ambientale possiamo fare riferimento ad alcuni principi etici che aiutano nel discernimento:
a. La responsabilità verso le generazioni future: lo sfruttamento del creato che pregiudichi la disponibilità
di risorse per le generazioni future non costituisce un valore autentico. Tale principio vale per tutte quelle forme di utilizzo dell’ambiente che lo pregiudicano a causa dell’inquinamento provocato o ne condizionano fortemente la fruibilità futura.
b. Il principio di precauzione. l’insegnamento sociale della Chiesa indichi la necessità di applicare
tale principio in una situazione di incertezza: è l’intervento che ha bisogno di essere motivato e non il contrario. Si tratta di discernere e valutare la proporzione tra rischi e benefici. Il gioco vale la candela? Nel caso del biogas, erano quelli favorevoli che dovevano mostrare il senso e l’utilità di un progetto, a partire dall’eventuale ragionevolezza di un cambio di destinazione dell’agricoltura. I ritmi dell’agricoltura tradizionale sono sperimentati, non ancora invece le conseguenze del
proliferare di centrali a biomasse… Tale principio non è una regola da applicare, ma «un orientamento volto a gestire situazioni di incertezza». Ogni decisione deve essere presa in modo per quanto possibile trasparente e deve essere «provvisoria e modificabile in base a nuove conoscenze che vengano eventualmente raggiunte» (19). Si tratta, cioè, di un istanza cautelativa, che si affianca peraltro anche all’esigenza di «promuovere ogni sforzo per acquisire conoscenze
più approfondite». La precauzione applica la responsabilità morale in campo ecologico. Promuove un’etica umile, che tiene conto delle conseguenze negative possibili davanti a rischi incerti (in dubio pro malo). Il principio impone di scegliere alternative meno rischiose, se disponibili, e di assumersi responsabilmente eventuali rischi che devono essere tenuti sotto controllo. Si chiede in sostanza di mantenere viva la possibilità di approfondimenti scientifici, di coinvolgere nelle
decisioni tutti i portatori di interesse, di analizzare il rapporto costi-benefici in termini economici ma anche sociali (qualità relazionale in una società), di individuare misure di cautela per evitare che la situazione possa sfuggire di mano da un momento all’altro.
c. I costi ambientali di una scelta non devono essere a detrimento del bene comune. Non sono eticamente accettabili
procedimenti che massimizzano il profitto privato e scaricano i costi ambientali sulla comunità civile attuale o sulle generazioni future.
d. L’armonia con l’ambiente: si tratta di custodire un equilibrio nel rapporto con i cicli della biodiversità
e pone problemi di sfruttamento intensivo della risorsa idrica e del suolo coltivabile, che ne esce impoverito. Il problema delle aflatossine, che si è verificato in stagioni estive torride (come ad esempio il 2003 e il 2012), con una gran quantità di mais dichiarata inutilizzabile per la catena agroalimentare e buttata nel biogas, è stato significativo per capire come il tema si sia affrontato con superficialità. Non si dimentichi che l’agronomia nella storia dell’umanità ha
ritenuto un valore la salvaguardia della biodiversità e del ritmo produttivo della terra, anche prevedendone il riposo (si veda il giubileo biblico previsto in Lv 25,1-7).
Rimangono alcune domande cui si chiede di dare risposta, tenendo presente che le risposte avrebbero dovute essere
offerte prima di costruire impianti in misura così massiccia:
- gli impianti a biomassa riducono davvero l’uso delle energie non rinnovabili?
- il processo decisionale quando si tratta di costruire impianti a biogas è democratico, cioè
basato su un’informazione trasparente e sul coinvolgimento delle popolazioni?
- le biomasse sono una scelta reversibile o irreversibile?
- gli impianti a biogas promuovono l’armonia umana nel proprio ambiente, salvaguardando la biodiversità,
utilizzando con sobrietà il suolo e l’acqua?
5. La questione «eco-ducativa»
Il compito che ci attende è innanzitutto quello di formare le coscienze. Per anni abbiamo usato il suffisso
bio- o eco- riferiti a un’energia che non si caratterizza affatto per la sua sostenibilità. Altro che bio-energy! L’urgenza ora è di raccogliere la sfida «eco-ducativa» non solo per informare sui pericoli delle centrali a biomasse, ma per promuovere rapporti umani diversi, dove l’agricoltura si pensa al servizio della vita umana e del bene comune.
Papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii
Gaudium evidenziava che tra i criteri in grado di giudicare la convivenza sociale, vi è quello del «tempo superiore allo spazio» (EG 222- 225). Significa concretamente che bisogna innescare processi, attivare percorsi più che fermarsi a offrire risposte immediate. Il biogas ha riempito velocemente le tasche di molti agricoltori, ma ha interrotto drasticamente il tentativo di progettare un futuro di armonia ambientale e la fraternità
tra i popoli. Lo spazio dello sfruttamento a breve tempo delle risorse di un territorio e della sua produttività sta prevalendo sulla necessità di dar vita a processi di condivisione e di custodia del creato. «Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici» (EG 223). Al guadagno facile e immediato bisogna sostituire la formazione
di coscienze che si impegnano a pensare la pianura padana come luogo di tutela della biodiversità, di cura del ciclo delle acque, di agricoltura di qualità al servizio dell’agro-alimentare.
Innescare processi è la sfida che ci sta davanti. Si richiede un’alleanza tra gli agricoltori checondividono
il loro lavoro come vocazione e non come businness fine a se stesso in grado dispremere la terra come un limone. La tradizione agricola insegna la necessità del ricambio e del riposo nella coltivazione della terra.
Opera di formazione fondamentale sarà promuovere il senso dei beni comuni come spazio dell’umanizzazione
e del gratuito. Laddove infatti il cibo o l’acqua diventano semplice merce, non si assiste solo ad una corsa all’affare, ma alla prevedibile corruzione. Su questo aspetto ci mette in guardia papa Francesco, che in EG scrive: «La brama del potere e dell’avere non conosce limiti. In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta»
(EG 56). Sulla medesima scia il cardinal Angelo Scola afferma:
«Se il cibo, come qualsiasi altro bene, diviene merce, cioè non viene offerto anche e soprattutto
come segno di una cura per il valore di chi lo riceve, può anche condurre all’ottundimento e alla corruzione. La figura omerica del ciclope Polifemo, che non riconosce la legge dell’ospitalità e perciò vive in modo ferino fuori dal consorzio umano, diviene paradigma d’ogni dissoluzione barbarica della convivenza umana» (20).
Persiste anche nel nostro tempo la tentazione ciclopica di divorare l’ambiente e i fratelli in nome della propria
chiusura egoistica a ogni forma di ospitalità. Produrre cibo, coltivare e custodire sono verbi che mettono l’uomo in stretto contatto con l’agire di Dio. Esercitarsi alla comunione è umano; perseverare nella negazione dell’altro è diabolico. La sfida «eco-ducativa» sta nel vivere rapporti di ospitalità reciproca. C’è da chiedersi se la corsa al guadagno con le biomasse in questi ultimi anni non abbiano aggravato il mito di Polifemo. Non a caso oggi sui territori
della pianura padana si aggirano tetre ombre di poteri forti, disposti a tutto pur di non perdere i loro interessi.
Quando è così, la corruzione è dietro l’angolo con la conseguente perdita del valore della
dignità umana. Ci sono lupi travestiti da agnelli che promettono facili guadagni e seducenti sovvenzioni in cambio dello sfruttamento dei propri terreni. Ogni agricoltore rischia di finire asservito a logiche di salvezza-interesse individuale a scapito del legame con il territorio e della propria storia o vocazione. La sfida «eco-ducativa» parte dalla consapevolezza che i territori si custodiscono nel progettare i prossimi 50-100-200 anni, e non nel chiudersi in difesa delle proprie incertezze
che non sanno guardare oltre la spanna dei 2-3 anni.
Note
(1) V. SHIVA, Ritorno alla terra. La fine dell’ecoimperialismo,
Fazi Editore, Roma 2009, 132-133.
(2) J. GIONO, Lettera ai contadini sulla povertà e
la pace, Ponte alle Grazie, Milano 20103, 64-65.
(3) Si deve a Giovanni Paolo II in Centesimus annus la chiarezza nel distinguere beni commerciali e beni collettivi. La distinzione serve per evitare il pericolo di trattare tutti i beni, indistintamente, secondo i meccanismi e le logiche del mercato. Scrive: «È compito dello Stato provvedere alla difesa e alla tutela di quei beni collettivi, come l'ambiente naturale e l'ambiente umano, la cui salvaguardia non può essere assicurata dai semplici meccanismi di mercato. Come ai tempi del vecchio capitalismo
lo Stato aveva il dovere di difendere i diritti fondamentali del lavoro, così ora col nuovo capitalismo esso e l'intera società hanno il dovere di difendere i beni collettivi che, tra l'altro, costituiscono la cornice al cui interno soltanto è possibile per ciascuno conseguire legittimamente i suoi fini individuali. Si ritrova qui un nuovo limite del mercato: ci sono bisogni collettivi e qualitativi che non possono essere soddisfatti mediante i suoi meccanismi; ci sono esigenze umane importanti
che sfuggono alla sua logica; ci sono dei beni che, in base alla loro natura, non si possono e non si debbono vendere e comprare. Certo, i meccanismi di mercato offrono sicuri vantaggi: aiutano, tra l'altro, ad utilizzare meglio le risorse; favoriscono lo scambio dei prodotti e, soprattutto, pongono al centro la volontà e le preferenze della persona che nel contratto si incontrano con quelle di un'altra persona. Tuttavia, essi comportano il rischio di un'«idolatria» del mercato, che ignora
l'esistenza dei beni che, per loro natura, non sono né possono essere semplici merci» (CA 40).
(5) S. BASTIANEL, Moralità personale nella storia.
Temi di morale sociale, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011, 133.
(6) PAOLO VI, PP 66.
(7) E. BIANCHI, Il pane di ieri, Einaudi, Torino 2008,
44.
(8) PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, CDSC, 462.
(9) GIOVANNI PAOLO II, SRS, 28.
(10) BENEDETTO XVI, CIV, 49.
(11) Benedetto XVI non era stato tenero su questo punto in occasione del Messaggio per la Giornata Mondiale della
Pace 2007 intitolato «La persona umana, cuore della pace»: « Ci aiuta a comprendere quanto sia stretto questo nesso tra l'una ecologia e l'altra il problema ogni giorno più grave dei rifornimenti energetici. In questi anni nuove Nazioni sono entrate con slancio nella produzione industriale, incrementando i bisogni energetici. Ciò sta provocando una corsa alle risorse disponibili che non ha confronti con situazioni precedenti. Nel frattempo, in alcune regioni del pianeta si vivono
ancora condizioni di grande arretratezza, in cui lo sviluppo è praticamente inceppato anche a motivo del rialzo dei prezzi dell'energia. Che ne sarà di quelle popolazioni? Quale genere di sviluppo o di non-sviluppo sarà loro imposto dalla scarsità di rifornimenti energetici? Quali ingiustizie e antagonismi provocherà la corsa alle fonti di energia? E come reagiranno gli esclusi da questa corsa? Sono domande che pongono in evidenza come il rispetto della natura sia strettamente
legato alla necessità di tessere tra gli uomini e tra le Nazioni rapporti attenti alla dignità della persona e capaci di soddisfare ai suoi autentici bisogni. La distruzione dell'ambiente, un suo uso improprio o egoistico e l'accaparramento violento delle risorse della terra generano lacerazioni, conflitti e guerre, proprio perché sono frutto di un concetto disumano di sviluppo. Uno sviluppo infatti che si limitasse all'aspetto tecnico-economico, trascurando la dimensione morale-religiosa,
non sarebbe uno sviluppo umano integrale e finirebbe, in quanto unilaterale, per incentivare le capacità distruttive dell'uomo» (BENEDETTO XVI, «Messaggio per la XLIII Giornata Mondiale della Pace [1 gennaio 2007]: “La persona umana, cuore della pace”» 9).
(12) BENEDETTO XVI, CIV 49.
(13) Ibidem 49.
(14) BENEDETTO XVI, «Messaggio per la XLIII Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2010): “Se vuoi
coltivare la pace, custodisci il creato”» 9.
(15) PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, CDSC 470.
(16) BENEDETTO XVI, «Messaggio per la XLIII Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2010): “Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”», 10.
(17) Si fa riferimento al modello «integrale» di sviluppo proposto dall’insegnamento sociale
della Chiesa, soprattutto da Paolo VI in Populorum progressio, da Giovanni Paolo II in Sollicitudo rei socialis e Benedetto XVI in Caritas in veritate.
(18) M. MOROSINI, «Crisi ecologica e sociale», 586.
(19) PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 2005, Libreria editrice vaticana, 469.