(30.09.14) Laura Zanetti e Massimo Cecconi raccontano attraverso l'ìntervista ad un allevatore-casaro delle Canarie come l'agroindustria ha fatto chiudere prima la Centrale del Latte, poi i piccoli allevatori che si erano organizzati per produrre latte fresco e formaggi a km zero. Il ruolo politico dell'igienismo strumentale e sulle manovre industriali secondo copioni che sono gli stessi sulle Alpi
L'Europa uccide l'agricoltura famigliare
La burocrazia e la politica contro gli artigiani del latte per favorire il monopolio agroindustriale. Dalle Alpi alle Canarie
José Casatejada era un uomo che nella vita non aveva bisogno di fare il piccolo contadino per vivere: formato in Biologia, aveva un lavoro sicuro come tecnico di un parco nazionale. Ma nella sua storia, il piccolo allevamento era una costante:quattro nonni erano stati allevatori.All’inizio,quindi, decise di allevare, quasi per solo diletto (ma forse proprio per avere la certezza di dare del latte totalmente sano ai suoi figli) della capre autoctone, sull’Isola di La Palma nelle Canarie.Poi ,ametà degli anni ’80 decise il grande salto e si diede all’allevamento di mucche: latte, formaggio fresco e stagionato.Il latte,come altriproduttoredell’isola, lo vendeva alla Centrale. Che però fu chiusa «sotto la pressione delle grandi lobby».I produttori di La Palma allora decisero di autogestire, assieme, il loro prodotto. Ma un’altra volta furono bloccati. «Dalla legge e da chi la applica».
di Laura Zanetti e Massimo Cecconi
La piccola zootecnia nelle Isole Canarie: le stesse problematiche vissute nel mondo alpino. Le assurdità di un sistema lobby-referenziale. Fra gerani, cactus, agavi, aloe, campi d’uva dolcissima e distese di banani al livello del mare, ci lasciamo alle spalle Santa Cruz de La Palma, la piccola capitale (18.000 abitanti) di una delle più affascinanti isole dell’Arcipelago: La Palma. Passando fra castagni, noci ed un sottobosco ricco di porcini e gallinacci,arriviamo a boschi cedui ricchi di felci e ad un paesaggio vulcanico sparso di arbusti, maggiociondolo e retama. La meta di questa giornata d’agosto zeppa di sole e vento oceanico è ciò che rimane di una gloriosa fattoria di bestiame bovino, La Monsita, nel Rincón de Casaña (El Paso), condotta da don José Casatejada che ci attende per un’intervista, accompagnati dalla rilassante musica di Beethoven, alla presenza del torello recentemente dato alla luce dall’unica vacca rimastagli. Fattoria che, fino alla scorsa primavera ha prodotto per anni un latte di qualità eccelsa, ed è stata poi «uccisa» dalla schizofrenia burocratica servile alle grandi lobbies del latte e del formaggio, in modo non dissimile da quanto accade nelle nostre terre alpine e prealpine.
Don José, perché con una formazione superiore in biologia ed un lavoro sicuro di tecnico specialista del Parco Nazionale della Caldera del Taburiente ha scelto il duro lavoro di allevatore di bovini?
«Tradizione di famiglia. In altre terre della penisola iberica i miei quattro nonni erano contadini ed allevatori. Possedevano greggi di pecore, mucche e altri animali. Per me erano gradevoli ricordi idilliaci della mia infanzia che sono riuscito a trasmettere a mia moglie. Da tempo allevavo solo capre autoctone come nella tradizione dell’isola, vista la sua impervia ed irregolare orografia.Poi, a metà degli anni ’80, per garantire alla mia famiglia un latte sano e buono, ho iniziato con due vacche: Malinda e Monsita, quest’ultimo tra l’altro, in seguito divenne il nome della mia azienda. Erano un misto tra vacca svizzera e francese che avevano via via sostituito la “palmera”, la razza bovina di piccola statura con più funzioni: produzione di latte, di carne e animale da lavoro. Con quel po’ di latte munto facevo un formaggio fresco e stagionato e piccole quantità di burro usando la mantequera, l’equivalente della vostra zangola di legno. Un sapore eccellente! La cosa mi dette una tal soddisfazione che pensai di riprodurre altre vacche accoppiandole con tori di diverse razze ed allevandone i vitelli.
Gli “esperti” la consideravano una “tonteria”, sì una sciocchezza. Invece la vacca fecondata dal toro è tutto un altro animale: molto più stabile e, di conseguenza, più sano di quello fecondato artificialmente. A 6-7 mesi la vitellina è già sessualmente matura, ma si aspetta almeno fino ai 22 mesi per farla partorire. Come avvenne la gestione del latte prodotto man mano che aumentava il numero di capi bovini? «Nell’’85 avevo in stalla 17 capi. Una parte del latte lo lavoravo, l’altro lo vendevo alla Centrale del latte dell’isola che però chiuse nel ’95, probabilmente sotto la pressione delle grandi lobbies di latte e formaggio».
Parte quindi un progetto unico tra piccoli allevatori dell’isola che desideravano produrre un latte ed un formaggio di qualità eccellente. È così?
«Sì. Ci mettemmo tutti attorno ad un tavolo per studiare un progetto di autogestione del nostro prodottoche conservasse le caratteristiche di un latte autenticamente sano e fissando tre principi basilari: il benessere animale che assicurasse un ottimale sistema immunitario e, di conseguenza, un minor bisogno di medicinali, una perfetta igiene dalla mungitura fino all’invaso e, non ultimo, la soddisfazione di quella parte di consumatori attenti ad una dieta sana. Comprammo la Centrale del latte mediante i nostri crediti».
Come pubblicizzaste il vostro latte fresco ?
«Con un metodo semplice e molto economico: il “boca boca”, il passa parola. Nient’altro. All’inizio lo vendevamo come latte crudo poi, nel ’95, costruimmo l’impianto per la pastorizzazione e l’invaso dapprima in bottiglie di vetro e successivamente in contenitori di pellicola plastica alimentare per ragioni di praticità ed igiene, consegnando il prodotto direttamente alle famiglie coi nostri stessi automezzi».
Come reagì la grande impresa canaria del settore ?
«Dopo che una serie di allevatori iniziarono a vendere nei supermercati e negozi della zona non solo il loro latte, ma anche il formaggio prodotto nella fattoria, lagrande impresa s’irritò, presumibilmente temendo innanzitutto che si diffondesse tra i produttori la consapevolezza che lo potessero fare loro stessi da soli. Per prima cosa iniziò con una proposta “furba”.
Mi spiego:propose una società congiunta che avrebbe gestito il nostro latte mantenendone
’eccellenza ed utilizzando i propri canali commerciali. Invece lo utilizzarono per fare i loro soliti prodotti nei quali tale livello veniva ovviamente perso ed utilizzarono gli stessi canali commerciali dei prodotti di bassa qualità. Noi lo scoprimmo e li denunciammo in tribunale. Vincemmo la causa per ben duevolte».
Quale era il loro obbiettivo?
«Piuttosto ovvio nella logica di mercato. Il loro scopo era quello di farci fallire e cancellare così dall’isola un pericoloso concorrente, impossessandosi del monopolio caseario in loco. Nel 2005 si costituì una cooperativa di allevatori per difendersi dalle proposte della grande impresa».
La cooperativa continua unita dopo le denunce?
«Si, però ognuno si organizzò in proprio. L’esperienza fallimentare della stessa Centrale del latte ci insegnò che grandi volumi di prodotto esigono almeno un chimico per un attento controllo di grandi quantità (temperatura, analisi, igiene) ed un amministratore per la commercializzazione, oltre ad altre figure professionali. Non indispensabili se si lavora con piccole quantità di prodotto. Dall’altra parte è chiaro che se fossimo rimasti uniti e lottato insieme, tutto sarebbe stato diverso. L’Ufficio sanitario ha diminuito il numero di registri sanitari eliminando in tal modo tanti piccoli allevatori, debilitando il settore della produzione locale. Questa è una chiara decisione politica. Politica, evidentemente, al servizio della grande impresa e del mercato di massa ai danni del piccolo artigiano e di un prodotto di qualità».
È forse questo uno dei motivi perché a fine aprile di quest’anno lei ha deciso di vendere i suoi bovini e di fermare la produzione?
Ovviamente. Nel mio caso, nell’esecuzione di suddetta politica, sono stati gli ispettori sanitari del luogo ad amareggiarmi tanto la vita, al punto d’abbandonare tutto. In particolare uno che continuava a venire con la sua particolare interpretazione della legislazione sanitaria. Non ho mai avuto problemi sanitari, né li avevo allora, però si tratta di farti perdere tempo e denaro affinché tu non possa piùfare il tuo lavoro e tanto meno possa farlo in modo redditizio. Le faccio un esempio: questo personaggio voleva a tutti i costi che nel laboratorio mettessi le piastrelle in ceramica al posto delle attuali pareti lavabili, da sempre consentite dalle normative europee che esigono l’impiego di “superfici lavabili”. Anche l’avessi fatto, sono convinto che successivamente lo stesso soggetto mi avrebbe richiesto di toglierle perché le fughe non si puliscono bene... Insomma, negli anni tale peculiare personaggio e le sue paranoie sono riusciti a sfinirmi al punto di lasciare la mia attività di allevatore. Io volevo lavorare con le mie vacche, non con avvocati ed ispettori. Una cosa è lavorare come allevatore e un’altra, molto differente, è farlo come parte in causa. Un’antica maledizione gitana esprime molto bene quanto sgradevole sia tale circostanza: “Che tu tenga processi e che tu li vinca"
Quante piccole aziende c’erano ai tempi della Cooperativa e quante cene sono attualmente ?
«C’erano circa 5.000piccole aziende. Attualmente ne sopravvivono circa 150».
A quante persone davano lavoro?
«Queste piccole aziende davano circa 7.500 posti di lavoro diretto e circa 1.000 d’indotto. Costituivano un’economia alternativa e complementare ad altre attività dell’isola».
Come sta vivendo questa sua scelta?
«Nella vita le circostanze cambiano come le stagioni. Lavoravo anche 18ore al giorno. Ma sa, lasoddisfazione di vedere il mio buonlatte accanto a quello industriale neifrigoriferi di molti supermercatidell’isola era grande. Produrre artigianalmente ora è impossibile. Come le ho detto, i burocrati sono servili verso le grandi lobbies, del latte come di altri prodotti. Punto. Comunque ho ancora le mie piccole soddisfazioni che sono un toro, il mio nuovo torello e sua madre, che nutro con questa miscela che preparo settimanalmente fatta di orzo, avena, mais macinato, erba medica, paglia di frumento, melassa di canna da zucchero, soia e barbabietola da zucchero, il tutto corretto con una parte proporzionale di minerali. E chiaramente il pascolo quotidiano del mio campo. Con un vezzo: quello di condividere con i miei animali le note di Beethoven. La musica ,classica in particolare, fa bene all’anima. Anche a quella degli animali!».
Quindi nessun sentimento disconfitta?
«Assolutamente no. Nessuna sconfitta finché posso garantire ancora un latte sano per la mia famiglia, che continuo ad essere autorizzato a produrre e le cui caratteristiche chimico-fisiche e sanitarie sono pubbliche, si analizzano periodicamente e si comunicano al ministero dell’agricoltura ed allevamento dello Stato e all’Ufficio dell’ agricoltura ed allevamento del governo autonomo