(23.08.15) La grave siccità che ha colpito gli alpeggi a luglio, perdurando sino alla prima settimana di agosto, non è rimasta senza conseguenze. Ma chi soffre di più per il calo di produzione di latte è chi non usa i mangimi, ovvero chi rispetta il pascolo e l'ambiente. Così solo i "puristi dei pascoli" si sono fatti sentire
La grave siccità sugli alpeggi:
amara parabola sull'ipocrisia "ambientalista"
di Michele Corti
Quest'anno la siccità ha picchiato duro sui pascoli alpini. L'erba è maturata precocemente, troppo in fretta e altrettanto rapidamente è maturata divenendo "paglia in piedi". Ma sono poche le voci che si sono levate per attirare l'attenzione sulle sue conseguenze e per chiedere delle misure compensative. Tra queste quelle di Paolo Ciapparelli, il "guerriero del bitto", che ha accusato apertamente le istituzioni di disinteressarsi del problema, e quella di Giovanni Dalmasso, presidente dell'Adialpi (margari di Cuneo)
Gli alpeggi rappresentano un settore di "nicchia" e la politica e le organizzazioni agricole hanno ben altri interessi. Quando se ne interessano intervengono con la leva dei contributi. Da sola, però, essa produce corse speculative che danneggiano i veri alpeggiatori. Così anche nella realtà lombarda, che meglio di altre "teneva", il numero delle vacche da latte monticate in dieci anni si è dimezzato.
Paga di più le conseguenze dell'inquinamento e dei cambiamenti climatici chi meno ne è responsabile
Il microcosmo dell'alpeggio e della zootecnia montana ci consegna amare riflessioni sull'ipocrisia "ambientalista" che domina nel discorso pubblico. Chi custodisce biodiversità e saperi ambientali, usa in modo saggio e prudente le risorse naturali è penalizzato da un sistema che continua a incentivare le produzioni insostenibili.
Prodotti alimentari a basso costo ottenuti con abbondante energia fossile, disseminazione di veleni chimici, ogm, distruzione di fertilità naturale dei suoli, distruzione della troppo evocata biodiversità, creano catene di valore fondamentali per il sistema economico. E la politica continua a premiare l'agricoltura industriale, che si fa ascoltare attraverso gli interessi organizzati.
Chi quest'anno in alpeggio ha fatto uso di mangimi è sfuggito in larga misura alle conseguenze della siccità. Chi non li usa (garantendo una qualità - anche salutistica - superiore del formaggio) è stato pesantemente penalizzato. Inutile ricordare che la produzione e l'uso dei mangimi contribuiscono all'effetto serra (nel caso dell'alpeggio si aggiunge il trasporto in elicottero ad aggravare il contributo alle emissioni di CO2)
Solo voci isolate si sono levate a denunciare la gravità della situazione
Paolo Ciapparelli, il presidente del Consorzio per la salvaguardia del bitto storico, non ha mai avuto peli sulla lingua (è infatti considerato un gran rompicoglioni dall'establishment politico-imprenditoriale-istituzionale valtellinese).
Paolo Ciapparelli, il guerriero del bitto storico. Ma anche il "druido dell'erba"
Poteva tacere Ciapparelli in un simile frangente? No di certo, avendo da vent'anni in qua impostato la sua battaglia sulla difesa della qualità del formaggio d'alpeggio, che nasce dall'alimentazione a base di erba di pascolo in via esclusiva, avendo fatto del rispetto del perfezionatissimo sistema di pascolo razionato praticato negli alpeggi storici del bitto una specie di religione. E così interpellato dal quotidiano La Provincia è andato giù piatto (22 agosto 2015). Riferendosi alla siccità sugli alpeggi ha dichiarato:
Un grave danno in termini di produzione e di gestione del pascolo: 40 giorni di temperature molto al di sopra della norma, nessuna pioggia e il fieno a 2.000 metri sono condizioni che a nostra memoria non si sono mai verificate. Parliamo di una perdita del 25-30% in termini quantitativi. Di fronte a tutto questo però le istituzioni hanno taciuto: non una parola e tanto meno un intervento in emergenza sulla situazione. Tutto il gran parlare intorno al valore del mondo contadino di montagna si dimostra vano di fronte alla totale incapacità di prestare attenzione a problemi enormi come quello di questa annata d’alpeggio.
Dal momento che in Valtellina si guarda molto alla Svizzera Ciapparelli non ha potuto fare a meno di ricordare la mobilitazione dell'esercito svizzero a favore dei pascoli per portare acqua necessaria ad abbeverare le mandrie. Un intervento durato settimane (terminato solo il 19 agosto). Non è tanto l'entità dell'intervento in sé che ha indotto Ciapparelli a confrontare la reazione svizzera con quella italiana quanto il rilievo che, oltreconfine, ha avuto la notizia, finita sui TG nazionali. Una diversa attenzione che si esprime in tanti modi. Nel 2003, annus horribilis, per caldo e siccità, la Confederazione stabilì un'indennità speciale per compensare lo scarico anticipato del bestiame da carne alpeggiato che doveva essere macellato anzitempo. Se poi pensiamo che in Svizzera è la Confederazione a tutelare con una norma federale la dicitura "Formaggio d'alpeggio", che c'è una mappa dei pascoli dove può essere prodotto il "Formaggio d'alpeggio", che con il latte prodotto in alpeggio non si può produrre "Formaggio d'alpeggio" nei caseifici di fondovalle, che non è ammesso di alimentare con più di 1 kg di integrazione extrapascolo (mangime + fieno) le vacche da latte perdita la perdita del marchio "Formaggio d'alpeggio", allora ci si rende conto che ... la Svizzera è un altro pianeta. Ma gli alpeggi sono poco importanti in Italia? Tutt'altro, in tutte le regioni alpine rappresentano una quota sostanziale del territorio montano e contribuiscono in modo rilevante alla qualità del paesaggio e alla sua fruibilità, al mantenimento del patrimonio zootecnico, alla capacità di infiltrazione dell'acqua nel terreno e alla prevenzione dei rischi idrogeologici, alla biodiversità (catene troifiche e microhabitat per uccelli, insetti anfibi ecc.).
Elicottero Puma dell'esercito svizzero impegnato nel rifornimento di acqua agli alpeggi in luglio
Prima di Ciapparelli era intervenuto un'altro "difensore degli alpeggi". Giovanni Dalmasso è egli stesso un marghée (margaro). I margari delle provincie di Cuneo e di Torino a differenza di quelli lombardi (malghées) praticano ancora la transumanza e svernano di solito in pianura. In forza del carattere poco "stanziale" sono molto legati all'allevamento e al pascolamento ma negli ultimi lustri hanno dovuto combattere contro nuovi nemici. Non più solo il "mercato" che svaluta anche la preziosa carne di Piemontese e i formaggi d'alpeggio, non solo la burocrazia (nostrana e di Bruxelles) ma anche contro i lupi e gli speculatori. I canoni degli alpeggi sono andati alle stelle e si praticano maneggi di ogni tipo (quest'anno sono arrivate pecore da Roma in Val Grana ed erano attese delle bufale, sempre dal Lazio a Ormea). Se ci si mette anche la siccità...
Giovanni Dalmasso, presidente dell'Adialpi
Dalmasso e alcuni suoi colleghi ed amici hanno deciso di reagire. Hanno costituito l'ADIALPI (Associazione per la difesa degli alpeggi piemontesi) (vai al comunicato)
Quello che chiediamo – commenta Giovanni Dalmasso – è un’attenzione particolare da parte degli enti di controllo alle diverse situazioni che si possono riscontrare sulle superfici degli alpeggi: occorre avere il giusto riguardo di differenziare le zone rocciose, ovviamente non ammissibili a premio, con quelle aree di pascolo “povere” in cui la carenza di cotica è dovuta ovviamente al carattere eccezionale della siccità.
Si tratta di pascoli magri di alta quota in cui la vegetazione a volte fiorisce a luglio e in caso di clima avverso, come quello a cui stiamo assistendo, nell’arco di poche settimane tende a seccare e a scomparire. Questo non significa però che non siano zone abitualmente utilizzate a pascolo anzi, è proprio da questi pascoli che ricaviamo dai nostri animali il miglior latte per produrre quel formaggio tanto apprezzato dai turisti che salgono sulle nostre montagne.
Annata compromessa in alcuni alpeggi
Parlando direttamente con Ciapparelli si coglie meglio la dimensione della calamità. Non una calamità generalizzata (anche se il danno c'è ovunque) ma manifestatasi in modo diverso e con diversa entità nelle diverse situazioni. Hanno sofferto molto gli alpeggi prealpini con substrato geologico calcareo dove ci si deve affidare anche nelle annate migliori alla raccolta dell'acqua piovana per abbeverare le mandrie. Hanno sofferto meno gli alpeggi con una buona escursione altimetrica tra il piede e la cima perché hanno potuto compensare in parte il danno salendo anticipatamente alle quote superiori. In generale hanno sofferto di più gli alpeggi "tradizionali" che non si affidano ai mangimi portati a sette quintali per volta con gli elicotteri. Qui lo sfogo di Ciapparelli si fa amaro:
Chi usa di regola i mangimi, diversi chili al giorno per vacca, non ha risentito quasi nulla ques'anno, abbiamo sofferto noi che valorizziamo il pascolo, che cerchiamo ancora oggi di pascolare tutta la superficie con l'antico sistema turnato dei calecc' e delle baite [i primi sono piccoli caseifici di muro a secco senza copertura, protetti solo da una tenda impermeabile]. Noi produciamo in media tra l'inizio e la fine dell'alpeggio circa 7 kg di latte per vacca al giorno, ma con la siccità, con quell'erba indurita precocemente, la vaccamangia meno e male e il latte in alcuni dei nostri pascoli è sceso a soli 4 kg al giorno rendendo difficile produrre una forma di bitto storico per munta [li bitto storico deve essere tassativamente prodotto con latte ancora caldo di munta]
Aggiungiamo che chi usa chili e chili di mangimi fa più latte ma un latte ben diverso, con meno grassi "buoni" (acidi grassi insaturi a lunga catena). Le vacche riducono il consumo di erba (l'amido del mangime deprime la microflora cellulosolitica che consnete la digestione della cellulosa del foraggio), restano più vicine ai siti di mungitura e di distribuzione del mangime, il minor appetito le spinge ad esplorare meno superficie di pascolo. In compenso nelle aree più comode e pianeggianti, dove si concentra il pascolo e si pratica la mungitira (con mungitrici meccaniche mobili spesso solo sulla carta), si riversa una quantità di deiezioni extra (quanto sfugge alla digestione ella metabolizzazione dei principi nutrienti del mangime). Molte più deiezioni su aree ristrette. Risultato: pascolo rovinato per troppo "ingrasso" da una parte, pascolo rovinato per mancata fertilizzazione e consumo dell'erba dall'altra (dove non si pascola crescono in pochi anni essenze infestanti e poi piante legnose, arbusti e alberelli). Il sistema "tradizionale" conserva una risorsa sostenibile, il pascolo seminaturale che consente di produrre alimenti di origine animale senza pesticidi e quasi senza energia fossile. Perdere i pascoli non è "sostenibile" anche perché come da studi effettuati dal CNR i pascoli, nonostante la produzione di metano da parte dei ruminanti, hanno un bilancio di gas serra positivo. Usare i pascoli con animali alimentati a mangimi non è sostenibile non solo perché è l'anticamera dell'abbandono dei pascoli ma anche come ricodavamo all'inizio perché la coltivazione delle materie prime di cui è composto il mangime, i trasporti, la produzione del mangime finito, richiedono molta energia fossile.
L'Alpe Culino (proprietà della Regione Lombardia) in una foto del 2007. Oggi le felci (Pteridium aquilinum, pianta rifiutata dal bestiame e velenosa che si instaura sui pascoli non utilizzati) presenta una copertura del 100% su diversi ettari, risultato della precedente gestione. Un danno grave e difficilmente reversibile. Siamo nelle valli del Bitto ma, si usavano mangimi e il "carro di mungitura"
"Ormai per i pascoli è tardi"
La situazione è migliorata dopo la prima settimana di agosto, le piogge hanno consentito la ricrescita dell'erba (il ricaccio) sotto la "paglia". Ma ormai era troppo tardi. Certo, qualcosa si è salvato ma alla metà di agosto le vacche non possono certo recuperare la produzione. Questa storia dovrebbe essere recepita come una parabola, come un esempio di come le cose non vadano. Nel mondo di casi come quello degli alpeggi e della siccità 2015. I sistemi agricoli industriali provocano l'effetto serra ma sfuggono ai suoi effetti. I sistemi contadini entro certi limiti mettono in essere tutte le loro capacità di adattamento ma spesso soccombono. È come chi ha l'aria condizionata e pretende di avere 20°C in ufficio (ma a volte anche meno) in estate (e 24°C in inverno!). Facendo così si contribuisce ai consumi energetici, alle emissioni di CO2 e alla dissipazione di caldo nelle "bolle metropolitane". Si scarica su i meno fortunati e sulle generazioni a venire il suo egoistico benessere. Lo stesso avviene con i sistemi agricoli. L'efficienza dell'agricoltura industriale è solo un'illusione dell'economia, "scienza" che sta distruggendo l'uomo e la natura. L'agricoltura contadina in termini di utilizzo di risorse, di bioeconomia, è più efficiente. Quanto al risultato complessivo il cibo a basso costo (economico, di mercato) è uno strumento per consentire al sistema di comprimere i redditi delle "classi popolari" (nelle quali sta sprofondando l'ex ceto medio impoverito e ampliare la disoccupazione strutturale. E allora che fare? Quello che è nelle nostre possibilità. Innanzitutto sostenere le produzioni agricole non industriali. Come il bitto storico. Un simbolo. Ma i simboli contano.