(14.05.15) La storia del formaggio nell'Italia settentrionale è in gran parte legata all'alpeggio. In pianura le tecniche casearie sono state introdotte nel medioevo dagli allevatori-casari di montagna che praticavano la transumanza. Un abbozzo di storia del formaggio d'alpeggio ci aiuta a capire perché ancor oggi sono spesso i formaggi autenticamente d'alpeggio a raggiungere i vertici di eccellenza nell'ambito caseario
L'alpeggio culla dei formaggi
(lo dice la storia)
di Michele Corti
Il bitto storico sta scrivendo nuove pagine nella storia del formaggio e dell'alimentazione. Grazie al fatto che ha mantenuto, lottando con le unghie e con i denti e a dispetto del "sistema" (politico, imprenditorial-finanziario, accademico, burocratico), la suapiena identità di formaggio d'alpeggio. Senza cedere alla tentazione (come quasi tutti gli altri formaggi "parenti") di affiancare alla produzione estiva una "invernale" e di introdurre mangimi e fermenti industriali anche in alpe. Se i guru del marketing, i professori, avessero avuto l'umiltà e l'onestà di studiare - al di là delle loro formule effimere e presuntuose - anche la storia forse oggi avremmo altri gioielli come il bitto storico. A coloro che hanno abbandonato la spocchia tecnocratica e modernista, che hanno finalmente riconosciuto che millenni di arte casearia significano qualcosa, che al di là dell'idolatrata scienza riduzionista ci sono sistemi di conoscenze "trogloditici" che sono tutt'ora importanti, consigliamo la lettura di questo primo abbozzo di una storia del formaggio d'alpeggio.
Già dall'inizio del neolitico (nel sesto millennio a.C.) i nostri antenati europei hanno iniziato a produrre formaggi (vai a “Il formaggio all'origine della nostra storia”). La produzione di formaggio semiduro o duro è però successiva e appare nel Sud della Francia. La cultura a cui si fa risalire questa innovazione è quella medio-neolitica di Chassey della fine del V e prima metà del IV millennio (4000-3500 ca.). Essa ebbe grande influsso su quella padana di Lagozza (Besnate, Varese) chiamata anche Chassey-Lagozza (3900-3100 ca.). Dalla cultura insubrica di Lagozza le innovazioni (tecnologiche e linguistiche) si diffusero verso la penisola italiana e verso Nord (1). Quando si parla di culture che si sviluppano in area “padana” è bene ricordare che la pianura vera e propria era occupata dalle acque (il toponimo “lagozza” rimanda a bacini palustri poco estesi). Questa cultura, e le successive, sono basate su insediamenti palafitticoli presenti in modo particolare nella fascia dei laghi prealpini a stretto contatto con l'area montana. La (limitata) pianura era occupata da ampie foreste e acquitrini e le zone dove il pascolo era possibile erano quelle fluviali dove le esondazioni dei fiumi (che sono stati “intubati” solo in epoche recenti) non consentivano la crescita di una vegetazione permanente (alberi).
Lago Anterle in alta Savoia dove indagini archeologiche innovative hanno consentito di ricostruire la storia dlel'alpeggio dal neolitico in avanti
In montagna, oltre il limite della vegetazione arborea, si estendevano praterie naturali che consentivano il pascolo dei bovini, animali che non riescono a trovare il loro nutrimento in ambienti boschivi (come invece le capre e, almeno in parte, le pecore). In montagna, inoltre, la temperatura più bassa e la stagione vegetativa più breve rendono molto più lenta la ripresa del bosco una volta che l'uomo lo ha eliminato con il fuoco o con strumenti da taglio efficienti e diffusi (che appariranno solo l'età del ferro). Sono, però, gli stessi animali che, una volta creato il pascolo sono in grado di mantenerlo e di estenderlo. A partire dall'inizio del neolitico gli studi sui pollini fossili e i microcarboni indicano la presenza di un “disturbo antropico”, ovvero la presenza di gruppi tribali in quelle aree che saranno poi utilizzate in modo sistematico per l'alpeggio.
Nel neolitico l'uomo si limitava ad interventi localizzati a spese della forestache hanno comportato comunque la formazione di carboni e ceneri. Questi interventi sono evidenti nel sesto e quinto millennio. Ma in questo periodo l'utilizzo dei pascoli alpini era comunque realizzato in modo saltuario (lo spazio era abbondante in relazione al numero di uomini e di animali). In seguito all’aumento dell’importanza dell’allevamento (tra il tardo neolitico e l'età del rame), si affermò la tecnologia del formaggio duro e semi-duro (in grado di conservarsi quindi dall'estate alla primavera successiva) iniziarono a salire ogni anno su determinatipascoli le mandrie e le greggi delle diverse tribù. Esse erano affidate ad appositi pastori-guerrieri consentendo agli altri membri del villaggio di dedicarsi a valle ai lavori agricoli. Era nato (o stava nascendo) l’alpeggio.
Il raduno delle mandrie/greggi favoriva, però, la diffusione di malattie e determinava il rischio di razzie da parte di tribù nemiche. La storia di Ötzi (la “mummia del Similaun), morto 3.300 anni fa, racconta di una delle tante di razzie d’alpeggio e ci fa capire come fare il pastore significò per molto tempo (ancora alla fine del medioevo in epoca di guerra civile tra guelfi e ghibellini) essere pronti a difendere in armi il bestiame da predoni e nemici.
Tra la fine dell’età del rame e l’età del bronzo antico (2.200-1.600 a.C.) si accentuano i disboscamenti e migliorano le tecniche casearie ma il peggioramento climatico che subentrò in seguito rallentò temporaneamente questi sviluppi.
Nell’età del ferro, iniziata verso il 900 a.C. e proseguita sino alla romanizzazione, la disponibilità di più efficaci strumenti di taglio e il miglioramento climatico portano a un nuovo sviluppo dell’alpeggio che assunse caratteristichemolto simili a quelle attuali. Appaiono costruzioni in pietra a secco (in precedenza si utilizzavano ripari sotto roccia e le tende) e si perfezionano le tecniche casearie, ormai molto vicine a quelle attuali. Il quadro qui delineato è il risultato di indagini su diversi siti alpini. Per le Alpi lombarde sono state importanti le indagini pionieristiche di Francesco Fedele in alta valle Spluga (2). Indagini dello stesso tipo, basate sull'analisi dei pollini fossili e dei microcarboni sono state eseguite anche in alta val Brembana (i risultati sono solo parzialmente disponibili) e confermano l'antichità dei fenomeni della transumanza alpina e dell'alpeggio.
La storia degli alpeggi scritta nel Dna di un lago alpino
Risalgono al primo neolitico anche i più antichi resti di ossa di caprovini rinvenuti anche in area orobica. Recentemente alle prove indirette sulla presenza di queste attività in epoca preistorica si sono aggiunte anche prove dirette basate sulla presenza di Dna animale in vecchi sedimenti lacustri (lago Anterne ad oltre 2000 m in alta Savoia)(3). Qui si trovano anche testimonianze archeologiche della tarda età del ferro (una capanna in pietra) dove sono state rinvenute anche ossa di capre, pecore e polli (non di bovini perché evidentemente non macellati in alpeggio). Nei sedimenti il Dna bovino è stato rinvenuto in epoche corrispondenti al 4800 a.C. (neolitico) e poi con maggiore abbondanza tra la fine dell'età del ferro e l'inizio della romanizzazione e infine dal Duecento all'età moderna. Il Dna ovino, ben presente in epoca preistorica e antica e verso il Duecento poi non è più presente. Il periodo di più intenso sfruttamento (con fenomeni si sovrapascolamento ed erosione) in questo sito si è osservato nel periodo tra l'età del ferro e la romanizzazione.
L'intensificazione dell'alpeggio nell'età del ferro, il declino nel tardo antico e nell'alto medio evo e l'intensa ripresa verso il 1.000, la presenza prepondente dei bovini nei (migliori) pascoli alpini tra la fine del medioevo e l'inizio dell'età moderna registrati al lago Anterne appaiono fenomeni comuni a buona parte delle Alpi. Con l'esplosione del fenomeno dell'alpeggio che si verificò in corrispondenza della fine dell'età del ferro romanizzazione. Concorsero corcostane climatiche e politiche: alle favorevoli condizioni climatiche che favorivano l'insediamento in montagna si aggiunse l'esigenza di sfuggire alle situzioni di guerra mentre le stesse autorità romane promossero nell'ambito dei patti con le genti celtiche militarmente battute, la formazione di presidi alle frontiere dei territori non ancora entrati nell'orbita di Roma. In seguito a questi fattori demografici le tecniche casearie subirono un grande perfezionamento tanto che:
È in questo momento che le tecniche casearie protostoriche arriveranno presso i popoli celtici e liguri delle montagne ad un punto che di fatto appare largamente prefigurare il quadro perdurato fino ai nostri giorni (4).
In seguito le principali innovazioni riguarderanno la progressiva trasformazione di formaggi di latte ovino e caprino, o misti con latte vaccino, in formaggi di solo latte vaccino e l'aumento di dimensione delle forme. Il declino dei formaggi caprini e ovini non è stato né rapido né totale. Ancora all'inizio dell'Ottocento un attento osservatore come Maironi da Ponte, riferendosi alle produzioni casearie della Valcamonica, "dalle copiose greggi", citava prima i formaggi di pecora osservando che essa: " somministra anche più centinaia di pesi di formaggio pecorino molto eccellente e delle manifatture di latte bovino" (5).
Il binomio formaggio-alpeggio
L'evoluzione dell'alpicoltura si accompagna a quella dell'arte casearia. Se in pianura i formaggi bovini (precursori del Parmigiano/Lodigiano/Piacentino) appaiono verso il Duecento, sostituendo gradualmente i formaggi ovini (ed affermando una tradizione casearia che gradualmente si rende autonoma dai fenomeni della transumanza e dell'alpeggio), in montagna il binomio caseificio-alpeggio ha continuato ad essere inscindibile sino all'Ottocento quando hanno iniziato a sorgere, prima in Svizzera e poi anche in Lombardia, i caseifici di fondovalle. Essi presero a lavorare il latte anche in inverno disponendo di quantitativi di latte che mettevano in condizione anche i piccoli e piccolissimi allevatori, unendo il latte a quello dei compaesani, di disporre di formaggi anche nel periodo invernale (6). Questi caseifici di paese, però, chiudevano i battenti in estate quando tutte le bovine salivano all'alpeggio. Spesso il casaro non faceva che trasferirsi dalla latteria sociale del paese all'alpeggio.
Oggi si fa fatica a comprendere la centralità dell'alpeggio per la produzione casearia dei secoli passati in quanto le bovine monticate sono, molto spesso, verso la fine della lattazione mentre il massimo della produzione di latte si ottiene in inverno. Per millenni, invece, è accaduto il contrario: le vacche da latte fornivano il massimo della produzione (ma si parla di medie di 5 litri di latte per capo e di “picchi” di 10 litri al giorno) a giugno-luglio quando venivano monticate. In autunno la produzione era già in fase declinante. Seguiva poi l'“asciutta” (di due mesi) e il periodo di allattamento (ovviamente naturale) del vitello. La scarsa produzione di latte nel periodo autunno-invernale consentiva di alimentare le vacche con il poco fieno disponibile (spesso integrato dalle foglie degli alberi – opportunamente capitozzati (“sbroccati”) - fatte essiccare e dal “fieno selvatico” raccolto in alta montagna e nei boschi) (7).
Per capire la realtà del passato, basata sulla transumanza invernale verso la pianura e sulla centralità dell'alpeggio bisogna anche considerare che, sino all'Ottocento, quelli che oggi sono prati da sfalcio (quando non riconquistati dalla boscaglia o divorati dall'edificazione) erano troppo preziosi (in quanto vicini alle abitazioni e relativamente pianeggianti) per essere “sprecati” per produrre fieno. Quei terreni erano perciò arati e seminati e servivano per produrre cereali per l'alimentazione umana (ma anche lino e ortaggi). Il fieno era ottenuto sui “maggenghi” dove, però, gli animali lo consumavano in larga misura sul posto. Le difficoltà di trasporto facevano si che fosse molto più semplice portare l'animale dove si produceva fieno e non viceversa come si fa oggi grazie alla facilità con la quale – grazie al sistema dei trasporti - si acquista il fieno (in pianura o anche in altre regioni e sin dalla Francia).
In autunno e in primavera con lo scarso latte disponibile i montanari che non praticavano la transumanza verso la pianura (e che disponevano di 1-2 vacche, raramente di più) potevano confezionare, per autoconsumo, qualche formaggetta o stracchino. Durante l'inverno, però, essi potevano utilizzare per autoconsumo le scorte di formaggio (adatto alla conservazione) prodotto in estate in alpeggio. Le vacche dei tanti piccoli allevatori riunite in un'unica mandria (malga come tutt'oggi si dice in lombardo occidentale e in bergamasco) della comunità o di un'associazione di allevatori locali o affidate a un “caricatore d'alpe” professionale detto cargamut (nelle valli bergamasche erano quasi sempre bergamì transumanti), fornivano importanti quantità di latte, consentivano ai casari di confezionare grosse forme di formaggio grasso o semigrasso in grado di essere adeguatamente stagionate. Un sistema che, nelle sue linee fondamentali, ha funzionato così dalla preistoria.
Alla fine dell'alpeggio i proprietari delle vacche affidate “a guardia” erano ricompensati sulla base della produzione delle loro bestie (sottoposta a pesata in determinati giorni durante l'alpeggio). A volte, però, l'alpeggio era gestito in modo “dissociato”: ogni famiglia saliva in alpe e conduceva al pascolo le sue poche vacche. Anche in questo caso, però, si poteva ricorrere – in alternativa alla lavorazione casalinga di piccole quantità di latte – alla lavorazione “cooperativa”: si affidava il latte ad un casaro professionista e quando la quantità di latte conferito dai singoli in diverse giornate successive equiparava la quantità lavorata complessivamente in una giornata il “conferente” aveva diritto alla produzione di formaggio (burro e ricotta) della giornata. Nacquero così le latterie sociali che, a fine Ottocento si affermarono, come già accennato, anche nei paesi in fondovalle e poi in pianura.
Qualunque fossero le modalità di “ingaggio” il casaro d'alpeggio aveva grandi responsabilità. Negli statuti comunali medioevali l'investitura del casaro dell'alpeggio comunale gli conferiva il ruolo di “direttore tecnico” (8) e, spesso, anche di amministratore. Fino a tempi non lontani una grande caldaia di rame rappresentava un forte investimento ed era responsabilità del casaro conservarla. Anticamente al proprietario della caldaia (che fosse un nobile o il comune) era riservato il diritto di scumaria (che era poi la ricotta liquida, il fiurì) (9) a fronte dell'uso della caldaia (altri diritti erano riservati alla parrocchia o a qualche chiesa o santuario locale e consistevano solitamente nel prodotto di una giornata d'alpeggio (a volte il primo). Queste consuetudini si sono conservate in qualche località sin quasi ai giorni nostri.
Una fama di lunghissima data
La fama dei formaggi d'alpeggio risale (almeno) all'epoca romana. Plinio il vecchio (I secolo d.C.) elenca tra i formaggi apprezzati a Roma il Vatusico proveniente dalle Alpi Graie (alta Savoia-valle d'Aosta-valli torinesi). Per poter essere trasportato per 1000 km sino a Roma doveva essere non solo un formaggio ben stagionato e duro ma anche un formaggio di valore. Nell' Historia augusta (raccolta di biografie di imperatori) IV secolo si raccconta che l'imperatore Antonino Pio mangiò tanto avidamente il formaggio alpinus che di notte vomitò e il giorno dopo fu preso da febbre e morì. C'è chi identifica nel formaggio alpinus un formaggio grasso d'alpeggio (della famiglia della Fontina, Gruyere, Bettelmat, Bitto, Formai de Mut).
Il formaggio grasso d'alpeggio è pregiato perché conserva tutta la materia grassa (da cui dipendono molte proprietà nutrizionali e organolettiche) valorizzando la qualità particolare del latte ottenuto da animali che si alimentano con essenze pabulari ricche non solo di grassi e proteine ma anche di oli essenziali (costituiti da composti volatili aromatici come i terpeni). È pregiato non solo perché per produrlo si deve rinunciare al burro ma anche perché richiede la mano di casari professionali e cure più attente del formaggio magro e semigrasso.
La produzione del formaggio grasso di grande dimensioni, che non va confusa con le quella formaggelle di rapida maturazione, è solo apparentemente più semplice rispetto a quella dei formaggi magri e semigrassi. È vero che non è necessario disporre di ambienti particolari per l'affioramento del latte (ambienti a bassa temperatura o con acqua di sorgente fredda dove immergere le bacinelle con il latte). Però è vero anche che il latte si deve lavorare immediatamente dopo la mungitura (nel caso del Bitto la lavorazione avviene sul pascolo nei calecc', recinti di muro a secco sormontati da una tenda) e che bisogna farlo due volte al giorno invece che una (per i formaggi semigrassi la munta della sera viene lasciata sostare per ricavare la panna per la burrificazione e il latte così parzialmente scremato, e parzialmente acidificato, viene aggiunto a quello della munta mattutina).
I formaggi grassi a lunga conservazione richiedono la cottura della massa caseosa dopo che essa è stata lasciata sostare sul fondo della caldaia di rame. Le temperature impiegate sono piuttosto alte (anche sopra i 50°C) e ciò richiede un dosaggio sapiente (e paziente) del calore e della velocità di riscaldamento nonché l'accurato mantenimento in agitazione della cagliata (per evitare che restando a contatto sul fondo della caldaia i granuli ricevano troppo calore e formino a causa della scottatura una pellicola impermeabile che poi non lascia fuoriuscire il siero).
Si tratta di una lavorazione lunga (sino a 3-4 ore) e complessa che, in caso di errori, porta a compromettere la qualità di un prodotto di grande valore, di una grande quantità di latte e di lavoro. Non deve fare meraviglia quindi se solo in aree pastorali ricche di buoni e abbondanti pascoli si sono sviluppate le capacità professionali, la specializzazione che consentivano di produrre i formaggi grassi d'alpeggio da stagionare. Alta Savoia, Val d'Aosta, alcune famose aree svizzere, l'alta val Formazza, le Orobie, la zona del Montasio rappresentano comprensori pregiati dove l'alpeggio sin dall'antichità è stato orientato alla produzione commerciale . Dove i potenti del tempo hanno cercato nel corso della storia di accaparrarsi la proprietà degli alpeggi (dagli imperatori romani, ai latifondisti dell'età tardo antica, alla corte longobarda, ai vescovi-conti, alle abbazie, ai feudatari e poi ai ricchi patrizi e borghesi).
Un documento molto importante sull'economia della transumanza e dell'alpeggio il Breve de terris del potentissimo monastero - una specie di "multinazionale medioevale" - di Santa Giulia di Brescia (879-906) (10). Pur testimoniando dell'importanza dell'alpeggio nelle valli bresciane per il rifornimento di formaggio al monastero questa fonte non ci fornisce indicazioni sulla qualità del formaggio. Anche il vescovo di Bergamo possedeva alpeggi in val Brembana e in val Seriana che poi passarono ai suoi vassalli. Ad Ardesio (Alta Valseriana) era lo stesso vescovo di Bergamo proprietario di un alpeggio sul Monte Secco a caricarlo nel XIII secolo con proprie greggi (allora produttrici di latte)(11). I conti di Calepio pretendevano una forma di formaggio ogni otto prodotte nel mesi di giugno e luglio in cambio del diritto di sfruttamento dei pascoli d'alpeggio compresi nella loro giurisdizione. Erano proprietari di alpeggi anche i vescovi di Brescia, Como, Milano e Pavia così come gli importanti monasteri di queste città. Sant'Ambrogio a Milano riceveva per l'affitto di alpeggi nelle valle orobiche occidentali della Valtellina (secoli XI-XIII) canoni in formaggi di cui si precisa che dovesse trattarsi di formaticum (con la precisazione a volte di bonus) e se ne indica il peso (12). Analoghe osservazioni circa la distinzione tra formaggio duro e stagionato e formaggio molle valgono per l'area bresciana (13). Pare opportuno precisare che mentre nel caso della Lombardia l'interesse per la gestione della filiera agropastorale e casearia appare meno diretto e finalizzato alla garanzia nel tempo di un consumo qualitativo nel caso del Piemonte dove grandi abbazie erano attive all'interno delle valli alpine (Novalesa, Plesio) il ruolo degli attori monastici risultava più attivo con implicazioni imprenditoriali (14).
Nell'area valsesiana la produzione consegnata al proprietario dell’alpe era quasi sempre costituita da forme d’alpeggio (casei alpis). Nei contratti frequentemente si esplicitava che il formaggio doveva essere buono (casei boni), oppure bello (casei pulcri), ma soprattutto si ribadiva che doveva essere ben stagionato (casei bene sesonati, caxei salati et bene saxonati) (15) . Dal momento che questi "potentes" erano anche laici e che tra aristocrazia laica e signori ecclesiastici vi era ampia osmosi pare difficile sostenere che nel medioevo il formaggio fosse "cibo da poveri". Dipende da quale formaggio evidentemente perché anche sino al declino della "civiltà contadina" il prodotto caseario per autoconsumo (o mercati strettamente locali) era in realtà di scarsa qualità, in grado di disgustare nobili palati. Perché valenti artisti si favevaano pagare in formaggio d'alpeggio? Perché esso veniva offerto come dono a potenti e condottieri? Nel 1427 per appoggiare le proprie istanze a Venezia e veder riconfermati i propri privilegi un gandinese si trattenne 41 giorni a Venezia ingraziandosi il conte di Carmagnola (allora influente presso il Senato veneziano ma che poi pagò con la testa le sconfitte nelle successive guerre tra Milano e Venezia) con imprecisate quantità di formaggio (16). Nel 1437 la comunità stessa comunità di Gandino donò in occasione della battaglia di Ponteranica quattro forme di formaggio (da 8,5 kg l'una) a Datesalvo Lupi e ad altri capitani marcheschi (17). Il caso di Gandino è molto interessante perché la località bergamasca era nota per le sue pregiate stoffe.
Roccaforte
Mondovì (Cuneo). Lavorazione dle latte in alpeggio da un affresco del XIV secolo in una cascina parte dei possedimenti dell'antica abbazia cistercense di Plesio, fulcro di una fiorene economia agropastorale e casearia. Come si vede già nel medioevo si producevano grosse "tome"
Aree vocate
A conferma che non tutte le aree alpine erano vocate alla produzione del formaggio d'alpeggio pregiato vi è l'introduzione più o meno recente della tecnica del formaggio grasso. In Valle Spluga la produzione del formaggio grasso è iniziata dopo che il riconoscimento della Dop Bitto consentì (anni Novanta del Novecento) di compensare con un prototto prestigioso, in grado di spuntare prezzi elevati, il declino del mercato del burro d'alpeggio che era stata per secoli la principale produzione di quella valle (il formaggio prodotto era magrissimo e adatto solo al mercato locale). Questo dualismo (formaggio magro/ formaggio grasso) caratterizzava secoli prima anche l'economia alpestre della vicina Rezia.
Una chiara testimonianza dell'introduzione nel XVI secolo della tecnica del formaggio grasso in Engadina è offerta dal famoso scritto di Jachiam Bifrun “Epistola de caseis et operibus lactariis et modo quo in Rhæticis regionibus et alpibus parantur”[Lettera sul formaggio e la lavorazione del latte e sul modo che viene prodotto nelle regioni retiche e sugli alpeggi ] del 1556 (18). L'umanista engadinese (di Samaden) scrive che:
Genera caseorum apud nos duo sunt, unum macri, qui caseus domesticus dicitur, si quidem is domi et in alpibus conficitur, cuius usus apud nos memoria hominum durauit. Alterum genus, caseus pinguis vocatur, cuius usus à triginta annis in regione nostra ab Italia traductus est” [Da noi vi sono due tipi di formaggi, uno magro, che è chiamato formaggio nostrano è prodotto sia presso le abitazioni che in alpeggio e il cui uso risale a un tempo immemorabile. L'altro tipo è chiamato formaggio grasso e il cui uso è stato introdotto dall'Italia solo da una trentina d'anni].
Il riferimento all'introduzione dell'uso del formaggio grasso va fatto risalire all'annessione della Valtellina da parte delle Leghe Grigie nel 1512. Bifrun osserva poi che: “Caseus autem pinguis, in tugurijs alpinis duntaxat conficitur, ubi maior numerus vaccarum est. [Il formaggio grasso è prodotto solo nelle capanne alpine, dove si trova un grande numero di vacche].
Antichi e spesso altrettanto pregevoli dei formaggi grassi d'alpeggio sono alcuni formaggi semigrassi (vedi il Bagoss bresciano) e gli erborinati, i predecessori di capolavori come lo Strachitunt e, sulle Alpi occidentali, del Blu del Monceniso o del Murianengo, formaggi che paiono riconducibili al caseus Gallicus dei romani, citato da diversi autori classici. In tempi più vicini un caseus maculatus (erborinato?) è citato nel testamento di Ansperto a arcivescovo di Milano morto nell'881. Lo Strachitunt è l'erede dell'antico “stracchino di Gorgonzola” (sul perché si sia chiamato “di Gorgonzola” se nasce in alpeggio torneremo tra poco) è un formaggio in apparenza “semplice”. Viene prodotto con latte intero (non richiede quindi le operazioni di affioramento e spannatura) ed è a pasta cruda (non è “cotto” o “semicotto” come i formaggi grassi o semigrassi). Rispetto allo “stracchino quadro” quello erborinato è un formaggio più impegnativo, non solo perché la sua produzione richiede una quantità di latte (80 litri per forma) che va al di là delle possibilità dei piccoli allevatori ma anche perché la lavorazione e le cure prestate durante la maturazione richiedono maggiori attenzioni. Gli erborinati, così come i più prestigiosi tra i semigrassi, sono sempre stati oggetto di commercio più che di autoconsumo ed anche per questo verso l'origine della loro produzione appare legata all'alpeggio in quanto qui, come visto, si disponeva di importanti quantità di latte ed erani in gioco competenze professionali (un tempo gelosamente tramandate di padre in figlio).
Formaggi antichi ma anche evolutisi con le trasformazioni economiche e sociali
Anche se un prodotto come lo stracchino che non richiede scrematura e cottura della cagliata, appare di semplice produzione è difficile dire quale tipologia casearia sia la più antica. Il burro, infatti, era prodotto anche nella preistoria e, nell'età del ferro, le tecniche per ottenerlo erano già state perfezionate. Per quanto riguarda il riscaldamento del latte sappiamo che, anche in assenza di grandi recipienti in grado di essere posti sul fuoco, i casari antichi avevano imparato ad arroventare delle pietre e a immetterle nel latte contenuto in mastelle di legno.
I formaggi grassi d'alpeggio (prodotti in Francia, Svizzera e Italia) in ogni caso, per quanto sviluppatisi sulla base di prototipi antichi, rappresentano nelle loro versioni “moderne” (quelle che noi conosciamo) il frutto di perfezionamenti introdotti fine del medioevo e nei primi secoli dell'età moderna (tra Trecento e Seicento) che li hanno collocati al top della priduzione casearia. Una bella testimonianza del nuovo prestigio associato al formaggio alla fine del medioevo ci viene dalla Val Seriana. In un affresco di Giacomo Bondone (le nozze di Cana) nell'oratorio di San Bernardino dei Disciplini (dove l'artista ha operato tra gli anni Settanta e Ottanta del XV secolo) una forma di formaggio duro, con la tipica conformazione concava dello scalzo del Bitto/Branzi appare in bella evidenza sulla mensa apparecchiata.
In Svizzera, dove la storia del formaggio d'alpeggio è maggiormente conosciuta il fenomeno del perfezionamento della produzione casearia d'alpeggio ha coinciso con: 1) specializzazione di intere regioni nella produzione di formaggi pregiati; 2) aumento delle dimensioni delle forme; 3) eliminazione del latte ovino; 4) rottura più spinta della cagliata e aumento della temperatura di cottura della pasta e per ottenere un formaggio “bruciato”, più duro e conservabile (19). Tutte queste tendenze avvennero sotto la spinta di un mercato in espansione grazie alla crescita della popolazione delle città ma anche all'allargamento del raggio del commercio caseario. A queste si aggiunsero misure fiscali e annonarie molto diffuse in età moderna come il calmiere del burro (che imponeva prezzi politici per il prodotto destinato al rifornimento dei mercati cittadini) e la tassazione a forma piuttosto che a peso che concorsero, insieme alla maggior disponibilità di latte vaccino, al successo delle grandi forme (che nel caso dell'Ementhal superano i 100 kg). In tempi recenti in relazione alla riduzione del carico degli alpeggi è invece subentrata una certa riduzione della pezzatura (evidente nel caso del Formai de Mut).
Le tendenze generali osservate nel caso della Svizzera, della Savoia, della Valle d'Aosta si riscontrarono anche sulle Alpi lombarde e, in particolare, sulle Orobie, comprensorio pastorale di produzione di pregiati formaggi d'alpeggio non solo grazie all'abbondanza dei pascoli (ampiamente eccedenti la scarsa popolazione) e il clima umido, favorevole all'alpicoltura, ma anche per la vicinanza della Val Brembana, delle Valli orobiche valtellinesi e della Valsassina ai mercati di sbocco di Bergamo, Como (via lacustre) e Milano. Nel contesto orobico la storia casearia dall'età moderna al XX secolo coincide largamente con la storia dei bergamini, i mandriani transumanti.
Alpeggio e bergamini
L'evoluzione dell'economia d'alpeggio dal XVI secolo in avanti è strettamente legata al fenomeno della transumanza dei bergamini (20) che, in forza della sua influenza determinante sulle storia e le tradizioni casearie bergamasche viene trattata a parte. Qui ricordiamo, però, come Maironi da Ponte lamentava il paradosso di un dipartimento (poi provincia di Bergamo) che, pur producendo formaggi di grande qualità, doveva importarne dai territori limitrofi:
Siffatta temporaria emigrazione prodotta invincibilmente dalla deficienza de foraggi toglie al paese oltre il lucroso ramo di commercio che si potrebbe fare de formaggi […] I Latticinj che con tanta ampiezza di uso entrano nella umana economia per la poca dimora delle mandrie sul nostro territorio effettivamente ci mancano nella maggior parte. Il butirro segnatamente noi lo dobbiamo tirare del Lodigiano dal Milanese e della Valsassina. […] I pochi nostri formaggi i quali per la loro eccellenza a fronte del gran vuoto che lasciano in patria sortono per la massima parte e vanno ad essere consumati in varie Città d'Italia formano per avventura un po' di commercio attivo su questo articolo. Ma la utilità che tiriamo da questo picciolo traffico non arriva giammai a compensarci della perdita di danaro nazionale che d'altronde facciamo per procurarci i formaggi della Lodigiana e della Piacentina provincia e senza de' quali non possiamo sussistere (21) .
Va precisato che il da Ponte non prendeva in considerazione l'area irrigua della pianura bergamasca (il Trevigliese) che apparteneva in epoca veneta allo Stato di Milano e che era appena stata incorporata nella nuova unità amministrativa . In ogni caso pochi ma d'eccellenza i formaggi bergamaschi e quasi esclusivamente formaggi d'alpeggio. In realtà la transumanza non era l'unica sola causa del deficit caseario bergamasco. Alla metà dell'Ottocento Ignazio Cantù, che redisse la parte sulla Provincia di Bergamo nella Grande Illustrazione del Lombardo-Veneto (1859) riporta che: "I mandriani svernando quasi tutti fuori fanno cacio nella provincia bergamasca solo pei quattro mesi estivi e lo vendono generalmente nel settembre ai mercati e alle fiere della provincia" (22). Da qui, però, il formaggio d'alpeggio veniva trasferito in gran parte per la stagionatura a Rovato: "Di questi formaggi si asportano nella Bresciana quelli non pure di Valcamonica [già parte del Dipartimento del Serio unita a Bergamo sino al 1859] e Valle Scalve ma parte di quelli di Val Seriana e Brembana". Quindi... la maggior parte. Cantù riporta questo prospetto ripreso dallo storico Gabriele Rosa (e riferito al 1856).
Località/Fiera |
Quantità/valore |
Lire |
Venduti a Bienno |
circa duemila formaggi di due pesi e mezzo ognuno ad austriache lire 9 al peso |
45,300 |
della Val di Scalve venduti a Castione |
Tremila formaggi simili a quelli di Bienno |
67,500 |
idem |
2,400 pesi di formagelle o piccoli formaggi bianchi pecorini che a lire 8 al peso |
19,200 |
Ogna |
circa mille formaggi a lire 9 il peso |
23,500 |
Ardese (Ardesio) |
1200 grassi e 600 magri a lire 10,50 il peso |
7,250 |
Gromo |
3000 grassi e 1000 magri allo stesso prezzo di lire 10,50 |
105,000 |
Colarete |
2400 misti come sopra |
63,000 |
Val Gandino |
2000 magri a lire 9 il peso |
45,000 |
Val Zambla |
3000 grassi a lire 12 |
90,000 |
Val Taleggio |
pesi 2,500 di stracchini a lire 10 |
25,000 |
Val Brembana si vendono ai Branzi |
10,000 a lire 25 |
250,000 |
Mezzoldo |
3000 simili a Branzi |
75,000 |
Totale valore prodotto |
|
855,750 |
Il formaggio d'alpeggio (semigrasso) della val Seriana veniva chiamato "Bergamasco" veniva esitato a Rovato e Brescia dove "un tal tipo è ovunque ricercato" (23) e si vendeva al prezzo del Grana (22). L'esportazione dei formaggi d'alpeggio bergamaschi verso Brescia sottolinea come in quest'ultima provincia la dipendenza dalla produzione d'alpeggio fosse, se possibile, ancora più marcata mentre quella invernale si limitava alle produzioni invernali di stracchini da parte dei malghesi svernanti in pianura destinate per lo più al mercato locale (25).
Castello di Issime (Valle d'Aosta) affresco con raffigurata una bottega di carni, salumi e formaggi. Il prodotto a forma di parallelepipedo è seirass (ricotta) stagionata messa in forma in casse di legno (come avviene tutt'oggi anche a Garzeno in valle Albano nell'alto Lario occidentale)
Fenomeni di crisi (prima della recente ripresa)
Con la cessazione del fenomeno dei bergamini (che conobbe un graduale declino dopo la prima guerra mondiale sino agli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso) l'economia degli alpeggi bergamaschi subì un notevole ridimensionamento. Il mancato carico degli alpeggi da parte di questi esperti allevatori e casari non fu facilmente rimpiazzato dall'elemento locale tanto che in Val Brembana molto alpeggi sono tutt'oggi caricati da valtellinesi. Altrove si abbandonò la tradizione del Bitto/Branzi (diffusa a inizio Novecento su quasi tutti gli alpeggi brembani)(26) a favore di un Formai de Mut che ne rappresenta una versione ridotta (nella diumensione), senza latte di capra e senza neppure quello scalzo concavo che, come visto sopra, rappresentava una caratteritica secolare delle produzioni d'alpeggio bergamasche. In val Seriana alla pregiata produzione di "Bergamasco" con il rimpiazzo con allevatori locale meno esperti (i "casalini", subentrò la generalizzazione della produzione delle meno impegnative, ma meno prestigiose "formaggelle". In questo contesto di appannamento del caseificio d'alpe bergamasco brillarono di maggior luce le stelle del bitto (esitato non più ai Branzi ma a Morbegno) e del Bagoss. Altrove Fontina, Montasio, Asiago, Castelmagno, Bettelmatt, Raschera, Tome piemontesi conobbero alti e bassi, quasi sempre legati (i "bassi") all'instaurarsi dela prassi della produzione "invernale" . Bitto e Bettelmatt non hanno mai ceduto alle sirene delle logiche industriali che avrebbero voluto anche per essi una "versione invernale" (e, infatti, in Ossola in inverno si produce "Ossolano" e in Valtellina "Casera").
Se la produzione casearia d'alpeggio bergamasca ha subito i contraccolpi della cessazione della transumanza bovina storica dei bergamì altrove si sono verificate condizioni anche peggiori. In Friuli il terremoto del 1976 con l'intensa industrializzazione che ha marcato la "ricostruzione", trasferendo contadini e pastori a produrre sedie e frigoriferi senza preoccuparsi del deserto che lasciavano dietro, decretò una crisi verticale dell'alpeggio con generalizzati fenomeni di abbandono. Solo la Carnia, area di tradizione alpina forte e cultura ancestrale radicata ha resistito, mentre, da qualche anno alla Malga Montasio si è tornati a produrre formaggio. nel Piemonte sud-occidentale la specializzazione per la produzione di carne della razza Piemontese e la conseguente diffusione della linea vacca-vitello (incentivata anche dal sistema dei premi Pac) ha determinato una forte diminuzione della produzione casearia. La vera Raschera d'alpeggio è ormai prodotta solo da un produttore (Bruno Bottero) mentre quella che viene marchiata "d'alpeggio" è un prodotto "di montagna" realizzato tutto l'anno.
La crisi delle produzioni casearie d'alpeggio è dipesa però anche da altri fattori di ordine generale che si riscontrano su tutto l'Arco alpino. Nella prima fase dell'affermazione dell'economia agroalimentare e consumistica il formaggio d'alpeggio ha subito un deprezzamento di ordine "socio-culturale". Il formaggio fresco, confezionato, asettico, bianco, sempre uguale a sé stesso, si faceva portavoce dei miti della modernità, dell'igienismo, della dietetica. Il formaggio d'alpe - grasso e giallo - veniva pagato meno di quello bianco e più magno invernale. Una mesto declino per l' "oro degli alpeggi". Non si sapeva ancora che il grasso contenuto nel formaggio d'alpeggio non solo non contribuisce ad aumentare il "colesterolo" (ovvero ad aumentare il rischio di patologie cardiovascolari) ma è uno "spazzino delle arterie", ricco - inoltre - di fattori protettivi e di proprietà antiossidanti.
La rivincita del formaggio d'alpeggio
La rivincita del formaggio d'alpeggio, ormai in atto da tempo (27), è legata alla complessiva rivalutazione delle tecniche tradizionali capaci non solo di realizzare prodotti inimitabili, che recano l'impronta del territorio e del "mastro artigiano" che ne è l'artefica ma anche di garantire migliori caratteristiche organolettiche e ottimi standard igienici (qualora si osservino elementari precauzioni e si operi con professionalità, scrupolo e passione). La nuova cultura gastronomica attraverso le figure di noti chef ha contribuito ad affermare un'immagine del formaggio d'alpeggio come prodotto di prestigio mentre, dal canto loro, produttori e stagionatori, puntando anche su lunghe e lunghissime stagionature di formaggi come il Bitto storico e il Formai de Mut (che negli ultimi anni raggiunge anch'esso invecchiamenti di 4-5 anni) stanno diffondendo una nuova percezione del formaggio attraverso forme "millesimate" che recano impresso il nome dell'alpeggio e la firma del casaro. Un modo di equiparare i migliori formaggi d'alpeggio a quello che, nel mondo enologico, rappresentano i Grand cru. Contribuendo ad offrire anche a più ampi segmenti di produzione casearia artigianale le opportunità di una nuova considerazione del formaggio quale prodotto in grado di raggiungere vertici di qualità.
Note bibliografiche
(1) M. Alinei "Archeologia etimologica: alle origini del formaggio. Da lat. coagulum ‘caglio’ a lat. caseus/-m ‘formaggio’; *formaticum e *toma" in Quaderni di semantica, 31, 1 (2010):73-112 torna su
(2) D. Moe, F.G. Fedele, A. Engan Maude M. Kvamme "Vegetational changes and human presence in the low-alpine and subalpine zone in Val Febbraro, upper Valle di Spluga (Italian central Alps), from the Neolithic to the Roman period" in Veget Hist Archaeobot 16 (2007):431–451
(3) C. Giguet-Covex, J. Pansu, F. Arnaud, P.J. Rey, C. Griggo, L. Gielly, ... & P. Taberlet, "Long livestock farming history and human landscape shaping revealed by lake sediment DNA", in Nature communications, (2014) 5
(4) F.M. Gambari, M. Venturino Gambari "La preistoria dei formaggi in Italia nord-occidentale" in L'alimentazione nell'Italia antica, Ministero dei beni culturali
http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/alimentazione/sezioni/origini/
articoli/formaggi.html
(5) G. Maironi da Ponte, Osservazioni sul dipartimento del Serio, Alessandro Natali, Bergamo, 1803, pp. p. 262
(6) M. Corti "Süssura de l aalp. Il sistema d’alpeggio nelle Alpi lombarde" in Annali di S.Michele, 17 (2004): 31-156.
(7) Ibidem
(8) Ibidem
(9) G. Archetti "«Vas optimo lacte plenum». Latte e formaggio nel mondo monastico", in Archetti, G., Baronio, A. (a cura di ) La civiltà del latte. Fonti, simboli e prodotti dal Tardoantico al Novecento , Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2011, pp. 249- 278
(10) Ibidem
(11) F. Menant Campagnes lombardes du Moyen Age : l'economie et la societe rurales dans la region de Bergame, de Cremone et de Brescia du 10. au 13. Siecle Ecole francaise de Rome, Roma 1993
(12) A. Lucioni, "Il monastero di S. Ambrogio di Milano nelle terre settentrionali della regione lombarda. Due «brevia de fictis» dei secoli XI-XIII" in Aevum. Rassegna di scienze storiche linguistiche e filologiche, 59, 2 (1985):208-231
(13) G.Archetti "“Fecerunt malgas in casina”. Allevamento transumante e alpeggi nella Lombardia medievale." in Mattone, A., Simbula, P.F. (a cura di) La pastorizia mediterranea Storia e diritto (secoli XI-XX), Carocci, Roma, 2011, pp. 486-509.
(14) R. Comba "I cistercensi, l’allevamento, la soccida: uno sguardo all’Italia dei secoli XII -XIV" in Mattone, A., Simbula, P.F. (a cura di) La pastorizia mediterranea Storia e diritto (secoli XI-XX) Carocci, Roma, 2011, pp.321-336
(15) R.Fantoni, A.Papale, A. Regis, M. Sasso "La sappa e la ranza. Produzione alimentare e alimentazione in una valle alpina tra medio evo e nuovo millennio" in Atti del Convegno La cucina delle Alpi tra tradizione e rivoluzione, XX edizione degli incontri Tra/Montani V alsesia 23-25 settembre 2011, pp. 23-73. (http://www.cucinadellealpi.it/documenti/Atti_ITM2011_v1.pdf)
(16) P. Gelmi, P. Suardi, Gandino. La storia, Comune di Gandino, Gandino, 2012, p. 117.
(17). Ivi, p. 124
(18) J. Bifrun "Epistola de caseis et operibus lactariis et modo quo in Rhæticis regionibus et alpibus parantur" in I. Iodocus Willich, Ars magirica hoc est, coquinaria, de cibariis,ferculis opsonijs, alimentis & potibus diversis parandis, eorumque facultatibus, Gesnerus, Zürich 1563
(19) B. Orland "Alpine Milk: Dairy Farming as a Pre-modern Strategy of Land Use" in Environment and History, 10, 3 (2004):327-364
(20) M. Corti La civiltà dei bergamini. Un’eredità misconosciuta. Una tribù lombarda di malghesi tra i monti e il piano tra il quattordicesimo e il ventesimo secolo, Centro studi valle Imagna, Sant’Omobono terme, 2014. (vedi anche nel sito La transumanza dei bergamì)
(21) G. Maironi da Ponte, Osservazioni .... pp. 64-65.
(22) I. Cantù “Bergamo e il suo territorio”, in C. Cantù et al., Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, ossia Storia delle città, dei borghi, comuni, castelli, ecc. fino ai tempi moderni, Vol. 5, Milano, Corona e Caimi, 1859, p. 820.
(23) L. Manetti La fabbricazione del burro e del formaggio; l'allevamento e governo del bestiame bovino, Carlo Brigola, Milano, 1879 p. 76
(24) Ivi p. 133
(25) Su questo punto L'Inchiesta agraria Jacini (Giunta per la Inchiesta agraria, Atti, Vol. VI, tomo II.IV, Roma, 1883) non fece che confermare quanto rilevato mella prima metà del secolo dall'Inchiesta Czoernig ( Regione Lombardia, Agricoltura e condizioni di vita dei lavoratori agricoli lombardi: 1835-1839. Inchiesta di Karl Czoernig, Milano, 1986)
(26) Società agraria di Lombardia Atti della commissione d’inchiesta sui pascoli alpini. Vol III, “I pascoli alpini della provincia di Como” Premiata Tipografia Agraria, Milano, 1912
(27) M. Corti "Il formaggio d'alpeggio" in: Atti del Convegno La cucina delle Alpi tra tradizione e rivoluzione, XX edizione degli incontri Tra/Montani V alsesia 23-25 settembre 2011, pp. 179-188. (http://www.cucinadellealpi.it/documenti/Atti_ITM2011_v1.pdf)