(24.08.15) L'estate 2015 è stata caratterizzata da quattro vittime dei cinghiali più due feriti (uno invalido) da aggressioni da orsi. Sinora le reazioni non hanno colto la portata del problema. La gestione del territorio è a una svolta epocale e non si può affrontarla con le categorie culturali del passato (l'ideologia animal-ambientalista)
Fauna fuori controllo:
ora si contano i morti
(necessaria una svolta culturale e una profonda
riflessione davanti al mondo che cambia)
di Michele Corti
L'Italia rischia di perdere le sue risorse di diversità culturale, paesaggio storico, produzioni agroalimentari di qualità tradizionale a causa dell'imposizione, in forma fondamentalista e subalterna, dell'ideologia di matrice nord americana e nord europea della "rinaturalizzazione". Intanto il proliferare della fauna selvatica, causato da un abbandono delle attività rurali fortemente incentivato dagli interessi congiunti del sistema industriale e dell'ambiantalismo e da anacronistiche leggi sul prelievo venatorio e il controllo della fauna, ha iniziato a fare vittime. Bisogna rendersi conto che siamo in una situazione si trasformazione epocale come quelle che avvengono ogni mille e più anni. La differenza rispetto alla trasformazione dell'ager in saltus (incolto) alla fine dell'età antica sta "solo" nel fatto che pur essendo crollato il grado di arrività rurale, la popolazione è oggi di 60 milioni contro i 4/5 dell'alto medioevo. Nei paesi di montagna e di collina si continua ad abitare (magari come turisti e pendolari) e nel saltus oggi si va frequentemente a fare escursioni e pratiche di attività open air. Non parliamo del traffico sulle strade. Tutto ciò è compatibile con un milione di cinghiali, svariate centinaia di migliaia di cervidi, tremila lupi ecc. ecc.? La politica deve essere costretta dalla pressione popolare ad assumersi il problema sinora sottostimato di fronte alla necessità di "tenere buoni gli animal-ambientalisti". Di fronte ai morti questa ignavia diventa criminale. Ma è responsabilità anche dell'accademia, degli intellettuali, dei ricercatori, che hanno messo la testa sotto la sabbia per non scontrarsi con il politically correct ( e adeguandosi alla cultura dominante animal-ambientalista) per evitare di prendere posizione, produrre analisi e linee di intervento.
Il 21 maggio notte Severo Zatti, un meccanico in pensione di 72 anni di Iseo (Brescia) era appostato per difendere, fucile in pugno, il suo campicello, diventato ragione di vita ma regolarmente devastato dai cinghiali. Un cinghiale lo ha caricato, ferito alla coscia e l'amziano è morto dissanguato senza che nessuno potesse soccorrerlo. I vigliacchi animalisti hanno gioito "Se l'è cercata, la vittima è il cinghiale".
Il giorno 8 agosto a Cefalù, in provincia di Palermo un anziano è stata aggredito e ucciso da un cinghiale di grossa stazza nel proprio podere. L'uomo, Salvatore Rinaudo, di 77 anni, era intervenuto per difendere i suoi cani è stato colpito dopo essere stato atterrato mentre la moglie, Rosa, che ha cercato di soccorrerlo, è stata ferita a sua volta e ricoverata all'ospedale per ferite alle gambe a all'addome. Anche in questo caso oscene dichiarazoni animaliste ma altrettanto osceni rimpalli di responsabilità da parte delle "istituzioni" (ma meritano questo nome?).
Sin qui le vittime della fauna selvatica sono identificabili negli anziani e testardi difensori di una ruralità in estinzione, ma se consideriamo gli altri casi di gravi aggressioni subite dalle persone il panorama cambia radicalmente. A pochi km da Trento, a Zambana vecchia Marco Zadra, un residente di Villazzano di 42 anni, è stato aggredito da un orso mentre correva su un sentiero nei boschi su un sentiero. Erano le 20 e stava tornando a valle. Colpito di striscio da un solo artiglio al braccio ha rimediato una ferita poi suppuratasi.
Il 9 giugno a Cadine in Comune di Trento, un uomo di 45 anni Wladimir Molinari che si stava anch'egli allenando correndo su una strada forestale è stato selvaggiamente aggredito a morsi e zampate da un orso. Ferito in varie parti del corpo è stato trasportato all'ospedale con prognosi di 30 giorni e il braccio massacrato perché l'orso gli ha strappato a morsi i muscoli. L'uomo, un imbianchino "autonomo" non potrà recuperare l'uso della mano (destra).
I cinghiali hanno ucciso settantenni e gli orsi hanno ferito quarantenni. In quest'ultimo caso è evidente che, anche se i contadini (e i pastori) alzassero bandiera bianca, ci sono nuove forme di fruizione del territorio agrosilvopastorale. Non c'è il deserto verde ipotizzato dagli animal-ambientalisti. Torniamo ai cinghiali e a fatti tragici degli ultimi giorni che mettono in evidenza un altro aspetto del problema: il conflitto con la proliferante fauna selvatica non riguarda solo la fruizione del territorio agrosilvopastorale ma nella sua espansione numerica e di areale la fauna selvatica si avvicina ed entra nelle aree urbane e rende insicure le infrastrutture di trasporto.
Il 18 agosto un 39 enne aquilano, Cristian Carosi, molto conosciuto in città dove gestiva una tabaccheria, è morto schiantandosi a bordo della sua Smart dopo aver investito un cinghiale che stava attraversando la strada nel tratto della statale 80, nei pressi di Cansatessa. Il giorno dopo Domenico Fedele anche lui di 39 anni è morto durante la notte notte nello scontro tra la sua auto e un grosso cinghiale che gli ha improvvisamente tagliato la strada. L'incidente è avvenuto sulla strada provinciale di Castellina Marittima, al confine tra le province di Pisa e Livorno. La vittima abitava a Rosignano (Livorno). Al momento dell'incidente stava tornando a casa.
Sei vittime, tre coppie: settantenni coltivatori rurali, quarantenni runner, trentenni automobilisti. Circostanze che nelle loro sconcertanti coincidenze paiono voler esprimere il senso di una tragica trasformazione dello spazio sociale che istituzioni allo sbando allegramente assecondano.
Siamo in realtà in presenza dell'azione di potenti interessi costituiti che agiscono attraverso lobby che manovrano come marionette le "istituzioni" (ormai una facciata di cartapesta) operando prevalentemente attraverso una "governance" opaca fatta di Convenzioni internazionali (fuori controllo democtatico), segretariati, think tank, Ong. Quando, nel passaggio tra l'antichità e l'alto medioevo la consistenza della popolazione crollò si svuotarono le città e un presidio più o meno denso del territorio rimase. Un presidio attivo perché per ogni necessità bisognava trarre materiali, energia, alimenti in un breve raggio. Oggi per quanto il presidio del territorio sia abbandonato, per quanto l'agricoltura sia in estinzione e i boschi avanzino a velocità supersonica ("protetti" da leggi anacronistiche più ottocentesche che novecentesche) la gente ha ancora il "vizio" di spostarsi, di usare la (ex)campagna come residenza (dormitorio o idillio pseudorurale gentrificato da questo punto di vista fa lo stesso). Ha persino incrementato il "vizio" di praticare attività all'aperto, e continua a vedersi non con amici parenti, conoscenti anche "dal vivo" e non solo attraverso i device elettronici e i social. Che primitivi!
L'unico modo di evitare il conflitto e di arrivare alla completa separazione tra spazio umano e "natura" sarebbe la distopia delle città sotto la cupola, un gradino al di sotto della fantascientifica migrazione della specie umana su altri pianeti (dopo aver distrutto la Terra). Farebbe contenti gli animal-ambientalisti e i cultori "scientifici" della "conservazione della natura". L'uomo in gabbia, gli animali selvatici liberi nella "natura".
Le città sotto vetro consentirebbero di sfuggire alle conseguenze di un atmosfera terrestre inquinata e preparerebbero l'umanità (sempre che non sia stata soppiantata dai cyborg) a colonizzare altri corpi celesti. Sotto le cupole si assisterebbe al trionfo del grande fratello, l'umanità intera rinchiusa in un Panopticon (la fabbrica-prigione dove tutto è controllato ideata dal filosofo utilitarista Jeremy Bentham)(1). Un programma che mette d'accordo i fautori di una realtà sociale sempre più artificiale con gli "ambientalisti" e gli scienziati "conservazionisti" che qualificano "disturbo antropico" ogni traccia di attività umana (come se l'uomo appartenese ad un'altro universo). È la tragica dicotomia cartesiana tra uomo e natura, pensiero e realtà materiale (2) che trionfa (ma se Descartes potesse vedere a quali esiti ha condotto la sua filosofia forse la rinnegherebbe).
La tragedia dell'uomo al di sopra e al di fuori della natura e di una natura da riportare allo stato "puro" senza contaminazione umana
Questa scissione ha sinora prodotto disastri, ha danneggiato l'uomo e la natura. L'idea che tutto quello che è agito e lascia traccia dall'uomo è "artificiale" discende da questa scissione sul piano del pensiero. Ha portato l'uomo (o meglio la modernità e il capitalismo) a dimenticare i limiti naturali dell'attività economica lasciando le briglie sciolte al meccanismo del libero mercato. Ha determinato quei trade off tra una supposta "pura natura" e una supposta "pura dimensione umana" che hanno consentito di assimilare la natura (nello schema economico la "terra" il cui prezzo è la rendita) ad una merce (di cui si è fatto scempio). Un fatto messo ben in evidenza Karl Polanyi (3) con la sua opera La grande trasformazione che, dopo settant'anni, torna di bruciante attualità. La creazione di due piani separati ("naturale" e "umano") ha consentito di assimilare gli elementi naturali ad elementi sociali e, viceversa, di naturalizzare i fatti sociali in base agli interessi del capitalismo. Un gioco molto remunerativo.
Alle "leggi economiche di mercato" si è attribuito il valore di indiscusse leggi di natura riconducendole a un agire umano egoistico e utilitaristico supposto "naturale" che. Ciò ai tempi della "rivoluzione industriale". In seguito alla pur umanissima, fallibile e socialmente condizionata "parola della scienza" (a questo punto non più quella "sociale", come ai tempi degli economisti classici, ma a quella "naturale", biologica e fisica) è stato attribuito il potere di esprimersi sui fatti della società come se essa ipso facto potesse esprimersi con l'indiscutibilità stessa delle leggi della natura (4). Un inganno che ben si palesa ai nostri giorni davanti al contraddirsi, su quasi ogni questione rilevante per la società, degli scienziati. Partendo da assunti diversi, applicando metodologie diverse, facendo rientrare nell'analisi e nei modelli alcuni fattori piuttosto che altri con i più sofisticati metodi analitici e con i più sofisticati algoritmi statistici si ottengono sempre più spesso risultati ... opposti (5).
Di fatto la scienza è sempre più "tecnoscienza" come mise in rilievo già diversi anni fa Serge Latouche (6), intimamante integrata ai processi produttivi e sociali del capitalismo, dice ciò che conviene al sistema dire e non dice (o dice con grande ritardo) ciò che ad esso non conviene. Intanto essa, la tecnoscienza procede disinvolta a sviluppare una capacità di manipolazione del vivente noncurante del rischio insito nel mettere in ambiti laddove la biologia ha esplorato ancora solo vagamente la complessità del reale. Tecnoscienza come fattore primario essa stessa di rischio, tecnoscienza come elemento di configurazione del nuovo biocapitalismo.
Il ruolo sociale dell'apparato scientifico e la palese necessità di una profonda revisione dei suoi metodi si palesa di fronte all'inadeguatezza nel riconoscere i rischi che la "società del rischio" come delineata da Ulrich Beck (7), con sempre più incalzante rapidità, "strutturalmente" alimenta. Quando per poter asserire "scientificamente" (ovvero dimostrando su basi statistiche i rapporti di causa effetto) che un composto chimico utilizzato nei processi industriali - di cui vi sono già ampie evidenze di interferenza nelle attività biologiche - è pericoloso bisogna che... si siano riempiti i cimiteri. Qualcosa non va. Eppure più la scienza mette in evidenza i suoi limiti e il suo condizionamento sociale più viene chiamata, in forza di una pretesa oggettività e "neutralità", appellandosi alla "complessità" della realtà contemporanea, a partecipare in prima persona al processo politico. La "competenza" ha decretato la fine della politica (democratica) sostituita dall'expertise, dall'autorità scientifica. L'illusione è totale. Ma alla fine è la vecchia solfa: "il vulgo non può capire, non può decidere".
L'ambientalismo, che si è appellato sin dalle origini alla scienza e che ha tratto autorevolezza dalla nuova disciplina dell'ecologia ha pesantemente approfittato dei giochi di prestigio che ammantano di "leggi di natura" scelte politiche e interessi sociali comprimendo la democrazia. La tecnocrazia (dipinta di verde) e lo spostamento dei centri di decisione a livelli sovranazionali e comunque al di fuori degli organi della rappresentanza democratica rappresentano (insieme al lobbysmo) gli strumenti attraverso cui imporre politiche "ambientaliste" antipopolari. Da questo punto di vista l'ambientalismo è una punta di diamante della biopolitica del tardo capitalismo, capace di coniugare la religione della scienza e il culto della razionalità con i richiami e le mitologie più esplicitamente irrazionali del culto della natura selvaggia come appare palese nel caso della reintroduzione del grandi predatori (8). Emotività e scienza razionale abilmente mixate al servizio di obiettivi politici. L'ambientalismo non solo è organico al capitalismo ma ha prefigurato e anticipato la biopolitica e il biocapitalismo.
L'ambientalismo ha introiettato più di ogni altra espressione politica il dualismo cartesiano. Perciò è così moderno, una delle armi più affilate del capiutalismo. Esso, nei suoi filoni principali, si rifà al "preservazionismo" di matrice nordamericana e nordeuropea (9). Basato sul mito della natura incontaminata, sul senso di superiorità (estetica e spirituale) dei "santuari della natura" rispetto ad ogni opera umana che essi ispirarono a John Muir e ai suoi seguaci (evidente culturalmente predisposti in tal senso). Muir, che fu "stregato" da Yosemite, intendeva eliminare la profanazione di ogni attività umana, maxime quella che più detestava: il pascolo degli ovini dai "santuari della natura". I nativi (gli "indiani") erano per il puritano scozzese Muir esseri inferiori che "disturbavano" la bellezza e la sacralità dei Parchi. Questo atteggiamento razzista e colonialista rappresenterà una costante dell'ambientalismo (oggi coperta dall'ipocrita cipria di politically correct), così come la tendenza a sottrarre il più possibile il controllo delle "aree protette" alle autorità locali, alla gestione democratica per affidarlo alla governance tecnocratica. Muir riuscì ad indurre il presidente Theodore Roosevelt (vedi foto sopra con i due, Muir è quello con la barba) a sottrarre allo stato della California il Parco di Yosemite per portarlo sotto l'egida federale. Una linea che si espresse in modo ancora più netto con i Parchi nazionali africani del WWF che consentirono il controllo del governo e dei servizi britannici su ampi territori ricchi di risorse dopo la decolonizzazione (e immancabilmente perseguita dagli ambientalisti nostrani che spingono per riportare in capo ai ministeri - in attesa che tutto passi a Bruxelles - le competenze regionali).
L'ambientalismo come ideologia e prassi organica al capitalismo
La conservazione della natura "intatta" doveva, nella visione dei preservazionisti, garantire un valore estetico e di rigenerazione spirituale per l'uomo della società industriale. Un approccio fortemente dualistico e "compensatorio", in definitiva funzionale al sistema tecno-industrial-capitalista e al suo sfruttamento senza scrupoli dell'uomo e della natura. La presenza negli Stati Uniti di ambiti estesi caratterizzati da bassa pressione antropica rendeva almeno in parte ragionevole concepire uno sviluppo "parallelo": industrializzazione da una parte, wilderness dall'altra. Il "preservazionismo" nostrano, ideologia di importazione applicata con l'ottusità e lo zelo dei neofiti che abbracciano idee nate in altri contesti culturali (la cultura protestante, un capitalismo di antico conio, ampi spazi poco o nulla antropizzati), ha inteso creare dei Parchi dove, in precedenza, vi era tutt'altro che wilderness (inesistente in Italia), ma che erano, al contrario, teatro di intense attività agrosilvopastorali delle comunità rurali. Basti pensare all'obbrobrio del Parco della Val Grande (Verbania) che viene promozionato come "la più estesa area wilderness di Europa, ma che era interessato dalla presenza di decine di alpeggi che lasciati all'abbandono per farli "scomparire" come i nativi amerindi. Palese è poi il ruolo di arma di distrazione di massa giocato dalle organizzazioni ambientaliste impegnate (grazie ai larghi mezzi di cui dispongono) a catalizzare l'attenzione sulla conservazione di "specie carismatiche", che spesso non sono a rischio di estinzione, distogliendo il pubblico dai problemi dell'inquinamento, delle grandi opere inutili, delle speculazioni "verdi" come le biomasse e i biocarburanti con il corollario del land grabbing (che vedono spesso implicate con palesi interessi economici le stesse organizzazioni ambientaliste). Scoperto e sfacciato è poi il ruolo delle organizzazioni ambientaliste nel concedere le ecoindulgenze, ovvero certificati da esse stesse rilasciati che certificano la sostenibilità di processi o prodotti industriali spesso a grave impatto ambientale (ma dalle parti dell'ambienalismo non pare essersi sollevato un novello Martin Lutero).
Trapiantato nel cuore dell'antica Europa, di territori fortemente antropizzati da migliaia di anni, nel contesto di paesaggi frutto di una lunga interazione tra l'azione dell'uomo e quella dei fattori naturali, l'ambientalismo, con il suo mito della natura "incontaminata" da preservare, ha messo qui a nudo la sua natura sociale: un supporto ideologico e pratico alla eliminazione di quelle forme di economiche, sociali, culturali ancora influenzate dal passato preindustriale e precapitalista, ma fortemente radicate e suscettibili di essere rivitalizzate nel contesto postmoderno a fianco di forme di neoruralità come sottolinea la scuola europea di sociologia rurale con in prima fila Marsden e van der Ploeg e, in Italia, quella "territorialista" di matrice urbanistica di Alberto Magnaghi (10).
Nella secca alternativa che contrappone da una parte la dimensione artificiale-industriale-urbano (con l'appendice di un'agricolatura industrializzata) e la "natura incontaminata" la dimensione rurale viene annientata. Devono essere eliminati il contadino, l'allevatore di montagna e collina, il pastore, il boscaiolo, figure in grado di mantenere circuiti economici locali che, almeno in parte, non sono strettamente integrati e subordinati alla macchina tecno-industriale e ai sistemi di conoscenza omologati all'expertise scientifico. Le armi di sterminio: burocrazia, parchi, vincoli, il mercato globale.
Private di figure economiche in relazione con il territorio e capaci di assicurarne una riproduzione sociale e fisica (consistente nel frenare l'avanzata del bosco e la proliferazione della fauna selvatica) le comunità locali collassano. In alternativa gli "indigeni" sono tenuti in vita con l'ossigeno dei sussidi. Ma solo se accettano di fare le comparse, esattamente come gli "indiani" delle riserve. Se accettano di convenire che con orsi e lupi si può convivere e diventano ascari del Parco, servi.
L'ambientalismo si inserisce in una strategia di lungo periodo di attacco alle comunità rurali e di montagna
L'ideologia dei Parchi, della wilderness, l'idolatria dei grandi predatori (e la loro pratica reintroduzione), l'animal-ambientalismo che impedisce di controllare i cinghiali e di fermare l'avanzata del bosco, sono solo un episodio della partita che la modernità e il capitalismo attraverso le loro istituzioni (lo stato nazionale centralizzato, il mercato, gli apparati burocratici e scientifici) ha giocato contro le comunità locali. Un precedente dell'ambientalismo è da rintracciare nel forestalismo, ideologia che non ha cessato ancora oggi di produrre i suoi nefasti effetti (anche se è di fatto confluita nel più vasto alveo animal-ambientalista). Il forestalismo nasce da una teoria "scientifica" in un'epoca (siamo nel XIX secolo) di positivismo in cui all'autorità della chiesa si sostituisce quella di un altro tipo di chierici: gli scienziati. Lo scopo era quello di eliminare le comunità di montagna e di consentire uno sfruttamento capitalistico delle risorse. Meno nota e non così gravida di coneguenze come il fenomeno delle enclosures inglesi (che segnò drammaticamente la storia sociale inglese dal XV al XIX secolo) la vicenda dello spopolamento delle alpi francesi è comunque significariva. L’ing. Surell, un amministratore forestale, nel 1841, con la sua pubblicazione Etude sur les torrents des Hautes-Alpes, (11) elabora la teoria del disboscamento provocato dagli incendi e abuso di pascolo quali fattori detrminanti dell’erosione e della torrenzialità. Lo studio di Surell divenne la bibbia dell’Amministrazione Forestale Dipartimentale e fornì le argomentazioni "scientifiche" per sottrarre ai montanari la gestione delle foreste provando come gli usi comunitativi di pascolare le greggi nelle foreste, oltre al taglio e alla pulizia dei boschi, avessero favorito un incremento delle alluvioni che nei due secoli precedenti avevano eroso grandi aree delle foreste delle Hautes-Alpes (12) . Le tesi di Surell vennero poi confutate da parte di diversi studiosi, che misero in evidenza come la minor copertura dei versanti mediterraneo e meridionale delle Alpi rispetto a quello settentrionale fossero da mettere in relazione a diverse condizioni di suolo e di clima, ma intanto esse erano entrate in circolo (13), un esempio sa manuale dell’uso politico della scienza. Ciò che avvenne in Francia - attraverso l'esclusione del pascolo da vaste aree e l'imposizione di severe sanzioni pecuniarie che determinarono lo spopolamento di intere vallate delle Alpi del Sud - si verificò, in tempi molto più diluiti e con conseguenze meno drammatiche anche nelle Alpi italiane (14), dove l’apparato dello stato centralizzato si costituì più tardi ma non restò senza conseguenze neppure nel paese meno centralista delle Alpi: la Svizzera. Qui il “forestalismo scientifico”, con i suoi connotati autoritari, determinò l’introduzione di significative limitazioni all’autonomia cantonale e comunale, creando uno spazio per l’applicazione coercitiva di misure centralistiche “federali” con un ovvio evidente parallelismo tra "protezionismo forestale" e "protezionismo naturalistico" (15).
Troppe poche le voci che si levano contro la cancellazione del paesaggio e delle culture rurali in nome di un rewilding forzato
Tutto quanto richiamato spiega già forse di per sé perché in un paese come l'Italia affetto da servilismo, conformismo, esterofilia sono rarissime le voci che si levano contro quella politica assurdamente ambientalista che, unita ad altri processi sociali ed economici, ci sta regalando la cancellazione fisica del paesaggio italiano, la cancellazione di un grande patrimonio materiale e immateriale (che è anche un grande giacimento per il turismo)(16). Lo capisce anche un bambino che non c'è alcuna prospettiva nel tentare di emulare i Parchi del Nord America sulle Alpi e gli Appennini. Se parliamo di wilderness un turista ha a disposizione ben altre risorse, anche senza andare in Canada o in Usa (basta pensare alla Romania). Il patrimonio di diversità bioculturale, di paesaggi, diu saperi, di prodotti italiani è invece, inimitabile. Però anche su questo fronte si rivela come oggi i centri decisionali in Italia lavorino "per il re di Prussia", danneggino consapevolmente gli interessi italiani per favorire quelli dei centri di potere a cui sono aggregati. Una delle pochissime voci che si sono levate dopo i duplici incidenti mortali provocati dai cinghiali in Abruzzo e in Toscana è quella di Bruno Agnoletti che sul "corriere sociale", mensile del Corrierone il 17 agosto ha scritto:
Una recente ricerca del ministero dell’Agricoltura mostra però che, proseguendo l’abbandono registrato fino a oggi (quasi 100.000 ettari all’anno) avremo solo grandi aree metropolitane circondate da «natura». A quel punto, non avremo contribuito significativamente a ridurre il riscaldamento globale, ma dovremo importare il cibo dall’estero. Considerando la crescita della popolazione mondiale e la fame di terra, vedremo poi di quale qualità e a che prezzo, ma non potremo certo acquistare il nostro paesaggio (17) .
Agnoletti sottolinea come l'applicazione dell'ideologia protezionistica di matrice nordeuropea in Italia sia frutto della "globalizzazione culturale" e, più concretamente, ribadisce che "vendere" come prodotto turistico i grandi predatori in Italia è operazione fallimentare perché ci sono aree ben più vocate mentre da noi questa forzato rewilding distrugge grandi valori. Agnoletti cita la Convenzione europea sul paesaggio (Firenze, 2000)(18) che impegna alla tutela dei paesaggi tradizionali e delle pratiche agricole ad esse collegate e si potrebbe anche ricordare che e pratiche agricole tradizionali e la cultura locale sono tutelate anche dalla Convenzione UNESCO per la tutela patrimonio immateriale, Parigi 2003 (19) e la Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore del patrimonio culturale per la società (Faro, 2005)(20) Ma cosa contano nella società del biocapitalismo (21) neo o post-liberista i riconoscimenti giuridici? La governance può prendere spunto dagli strumenti giuridici ma nella costituzione materiale della post-democrazia (22) conta la capacità delle lobby più che ogni altra cosa e in questo gli ambientalisti sono maestri.
Il successo dell'ambiental-animalismo in Italia, tanto che la sua capacità di ricatto politico appare superiore a quella di paesi di "antica" tradizione ambientalista non può essere spiegato solo con una struttura istituzionale più permeabile alle lobby e alle corporazioni, in generale agli interessi organizzati a scapito di quelli diffusi. Nella spiegazione dell'affermazione di un ambientalismo tanto radicale quanto emotivo entrano anche componenti socioculturali e storiche che spiegano il sucecsso del "trapianto" di un'ideologia nata e sviluppatasi altrove.
L'ambientalismo come nuova forma di conflitto città-campagna ed espressione di un antiruralismo radicato
Sotto mentite spoglie, ovvero sotto le insegne di un'ideologia che si presenta come "progressista" e "democratica" l'ambientalismo ha messo in nuove botti il vecchio vino dell'antiruralismo che in Italia è sopravvissuto alla formazione dell'idea nazionale che in Francia e in Germania ha fatto dei contadini (prima disprezzati) un elemento della nuova identità. In Italia l'idea nazionale non è mai andata molto oltre la dimensione politico-statuale e letteraria ed è sopravvissuto il particolarismo municipale, erede di secoli in cui l'inferiorità dei villici rispetto ai cittadini era sancita giuridicamente. L'estensione del fenomeno urbano in Italia, l'assenza di classi dirigenti rurali (i proprietari terrieri in epoca comunale furono obbligati a prendere residenza entro le mura cittadine pena una tassazione molto più onerosa), il ridimensionamento ma non la scomparsa del fenomeno urbano nell'alto medioevo rappresentarono tutti fattori di consolidamento di una forte egemonia urbana. Tale egemonia ha potuto esercitarsi su un paese rimasto largamente rurale (con un numero di addetti all'agricoltura superiore al 60% ancora all'inizio del XX secolo) in forza di strumenti sia politici che culturali di dominio sulle campagne. Non deve pertanto meravigliare il paradosso di paesi che già avviati sulla strada dell'industalizzazione che "riabilitavano" e "nazionalizzavano" il contadino (23) mentre l'Italia rurale continuava a disprezzarlo e a negargli il diritto di voto, a considerarlo in definitiva poco più che un'animale da lavoro come nei secoli passati.
Se l'ideologia animal-ambientalista di è prestata a esprimere in forme nuove il conflitto urbano-rurale e a fare da supporto a una nuova riappropriazione del controllo sullo spazio rurale (che nella montagna tende a riprodurre quella situazione di parziale feudalizzazione che caratterizzava il quadro sociale sino al XII secolo) ciò è anche legato al fatto che anche nella sua origine e configurazione l'ideologia e la prassi ambientalista sono caratterizzate da una chiara componente di classe. Inutile ricordare che esso, come movimento organizzato, nasce sotto l'egida di teste coronate, dell'élite più influente del capitalismo internazionale, delle stesse multinazionali - fino a non molti anni fa quelle petrolifere. Dario Paccino, in un saggio di culto del '68 descriveva così, in modo un po' pittoresco, la nascita del WWF
[…] non erano più i tempi in cui il re di Polonia Boleslao l'Ardito (secolo XI) vietava la caccia del castoro per avere lui il monopolio delle pellicce, e del re Ladislao, vincitore dei cavalieri teutoni a Grunwald (secolo XV), vietava il taglio del tasso per riservarne il legno ai suoi arcieri. I razionalizzatori dell'UICN non potevano far altro che redigere soluzioni autorevoli, destinate a rimanere tali. Così, sperando di poter fare di più, i nipotini di Bolesalao e Ladislao fondarono nel '61 il WWF (World Wildlife Fund, fondo internazionale per la vita selvaggia), presieduto prima dal duca di Edimburgo, poi da Bernardo d'Olanda" (24)
Sullo sfondo dell'analisi precedente non deve meravigliare che poche, pochissime sono le voci che si sono levate in questi anni contro questa "rinaturalizzazione forzata", che tante assonanzeha con le famigerate "industrializzazione forzata" e"collettivizzazione forzata" di staliniana memoria (anche qui c'è una "pulizia etnica" sia pure strisciante e silenziosa). Sono talmente poche che vale la pena citarle. Un antesignano è stato certamente Paolo Rumiz (25) che ha osato sostenere che l'avanzata del bosco è "come una pestilenza" e - al rogo, al rogo - peggio della cementificazione. Nella pattuglia degli anticonformisti va segnalato anche Giorgio Conti, un "indisciplinato accademico" come lui stesso si definisce che in più occasioni ha contrapposto la transumanza e i suoi paesaggi quali modelli di equilibrio ecologico allo sviluppo insostenibile delle megalopoli globalizzate e alle tendenze alla affermazione di una wilderness idealizzata (due fenomeni deteriori che per Conti - come per tutti gli intellettuali di questa sparuta pattuglia - rappresentano le facce della stessa medaglia). Più di recente si è associato a questo piccolo club Robi Ronza che tra il 2013 ed oggi ha scritto diversi articoli denunciando come la politica di reintroduzione del lupo e dell'orso fa parte di un disegno preciso di spopolamento della montagna. (26). Curiosa la posizione di Carlin Petrini che in Francia firma da sociologo e fondatore di Slow Food un Manifesto (27) a favore dei pastori e della conservazione del paesaggio tradizionale contro i lupi e in Italia tace acconsentendo alla linea politically correct pro lupi di Slow Food.
Come non è difficile constatare si tratta di intellettuali di estrazione ideologica molto diversa che però concordano nell'analisi e nelle denunce. Ad essi vanno ovviamente aggiunti i ruralisti "storici" come Giannozzo Pucci e Massimo Angelini. E poi i vari gruppi ed esponenti che da qualche anno si sono impegnati nella difficile opera di difesa della ruralità e della montagna dall'ambientalismo e dal parchismo dilaganti (28).
Uscirà il dibattito culturale sulla "pestilenza" della rinaturalizzazione dagli ambiti ristretti nei quali la cultura dominante lo ha circoscritto?
Da tempo anche sui media locali quando si tocca il tema di orsi, lupi, cinghiali si è espressa l'amara previsione che: "si muoverà qualcosa solo quando ci scapperanno i morti". Ora i morti ci sono scappati e si è acceso un dibattito. Per sortire qualche conseguenza pratica è necessario che i termini del problema vengano compresi da ampi strati di popolazione in grado di esercitare quella pressione politica che, al di là dell'esistenza di norme giuridiche, considerazioni scientifiche ecc., è il solo elemento in grado di influenzare i "decisori". Per anni i "decisori" hanno considerato l'ambito della gestione faunistica qualcosa di "specialistico" da "appaltare" agli interessi organizzati in gioco: cacciatori e animal-ambientalisti. Nel tempo il peso politico della componente animal-ambientalista è cresciuto e la politica si è trincerata dietro l'alibi "non possiamo farci niente gli animalisti/ambientalisti ci impediscono di prendere provvedimenti". L'immobilismo, la politica dlelo struzzo, l'ignavia di fronte a fantomatiche minacce animaliste ha bloccato tutto. Da parte loro le organizzazioni agricole ogni tanto conqistano le pagiune dei giornali locali o nazionali giusto per "far vedere che fanno qualcosa". Ma è noto che hanno altri interessi da negoziare con la politica e che le cicliche esternazioni "la fauna selvatica è fuori controllo, gli agricoltori non ne possono più" sono solo uno dei ritualismi al quale le OO.PP.AA., in particolare la Coldiretti, ci hanno abituato da decenni.
La prova provata dell'inerzia della politica è la legge 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) una legge che "datata" già nel 1992 quando è stata emanata nel 1992. Essa riflette una realtà storica del tutto superata e una mentalità vetero-ambientalista (peraltro non peggiore di quella attuale) formatisi negli anni '70-'80. Oggi i cacciatori italiani sono scesi a 600 mila unità e sono quasi una specie in via di estinzione visto che oltre l'80% di essi ha più di 50 anni e, di questi, quasi il 30% ha oltre 70 anni, mentre appena il 3% ha meno di 30 anni. Negli anni '70 il numero dei cacciatori superava i due milioni ed erano ancora 1,5 milioni nel 1990. Solo gli sciocchi possono rallegrarsi di questo calo considerato alla luce di quanto sta succedendo (in Europa gli ambientalisti non sono contro la caccia e dialogano con i cacciatori) .
Con l'abbandono delle aree rurali e montane (che non è un fenomeno "naturale" ma la conseguenza di scelte di politica agricola, demografica, sociale ecc.) la fauna selvatica si è moltiplicata, spesso in modo disordinato creando evidenti squilibri ecologici. Quello che rimane delle attività agricole (ma anche dei boschi coltivati) deve essere protetto da orde di ungulati che, con immensa gioia degli ambientalisti da salotto, hanno "calamitato" anche la presenza di predatori (comprese specie estinte che sono state reintrodotte artificialmente).
La 157 pone tante e tali limitazioni all'esercizio della caccia che ha favorito la disaffezione dei cacciatori (le nuove leve sono quasi inesistenti). Gli animal-ambientalisti hanno rinunciato a promuovere nuovi referendum. Stanno ottenendo lo stesso il loro obiettivo. Basta non toccare la 157, basta mantenere questo anacronistico strumento e il gioco è fatto. La "rinaturalizzazione" sarà quindi assicurata. Il fatto è che si può anche volere distruggere per motivi ideologici o economici il patrimonio rurale ma 60 milioni di italiani non possono essere rapidamente e facilmente ridotti ai 4,5 stimati per il 900 d.c. (29) quando la popolazione subiva ancora la stagnazione seguita al crollo causato già prima delle "invasioni barbariche" dalla creazione dei grandi latifondi. Alla fine dell'età antica grandi estensioni di ager (il territorio coltivato) si strasformarono in saltus. (il territorio incolto silvopastorale) aumentarono gli ungulati selvatici, l'allevamento suino e ovicaprino. I suini erano allevati bradi nei boschi (dove si cibavano di ghiande)con l'ovvio rischio di ibridazione, con la differenza - rispetto ai nostri gorni - che i suini domestici di allora avevano una prolificità bassa, simile a quella della forma selvatica (l'elevata prolificità dell'attuale suino europeo è derivata dalla "globalizzazione" ovvero dall'incrocio nel XVIII secolo in Inghilterra di suini autoctoni cob capi importati dalla Cina).
Uomini e animali dovettero adattarsi a nuove strategie di uso dell'habitat. La popolazione abbandonò molti insediamenti precedenti e le comunicazioni si diradarono. In ogni caso dove la popolazione rimaneva, dovendo ricavare risorse per la sussistenza necessariamente "a km zero", praticava quelle attività di coltivazione, allevamento, pastoralismo che consentivano di mantenere un equilibrio tra spazio antropizzato e fauna (alla caccia alla grossa selvaggina ci pensavano i signori, a quella piccola i contadini che traevano da questa fonte una significativa quota di proteine alimentari). Una situazione che oggi è totalmente alterata perché nonostante l'abbandono delle attività rurali c'è una popolazione residente (pensionati, pendolari) o proveniente dalle città grazier alla mobilità privata che in qualche modo fruisce il territorio. La diminuizione della cura e della manutenzione non frena la fruizione, anzi in certi ambiti la fruizione ricreativa e turistica supera quella precedente, quando ci si muoveva sì in modo capillare nell'ambito del territorio rurale ma solo per motivi pratici. Molti sentieri sono scomparsi ma altri sono frequantatissimi. E dove c'erano solo mulattiere oggi ci sono "piste forestali" percorribili in bicicletta oltre che con mezzi meccanici agricoli e forestali.
Vi è poi la mobilità che lega i centri minori ai vicini borghi e città, quella dei pendolari e dei turisti. Pensare di lasciare le cose a un "riequilibrio spontaneo" è pura idiozia.
La politica ha perso tempo e ora la ricerca di soluzioni diventa difficile. I cinici potrebbero pensare che con l'aumento dei morti (presto ci sarà da piangere anche le vittime dei lupi) una "sterzata" incontrerà meno resistenza nell'opinione pubblica urbana ampiamente manipolata dai media dei grandi gruppi finanziari (che da decenni istillano in pillole l'ideologia animal-ambientalista).
Più si ritarda una drastica riforma della 157 e peggio sarà. La favola del "non esistono animali nocivi, solo l'uomo è una specie nociva" è un terribile inganno ideologico cui la politica ha lisciato il pelo per troppi anni. Un milione di cinghiali sono un problema sociale e politico e classificarli ancora "fauna protetta" è semplicemente criminale. Ossia un comportamento omissivo di atti dettati dalla necessità, un comportamento doloso tale da procurare danni e vittime ai cittadini italiani. Un crimine in senso morale e tecnico.
Che fare? Ruralpini propone: 1) un incontro dei vari gruppi che in Piemonte, Veneto, Trentino, Lombardia, Emilia, Toscana, Liguria si sono organizzati o si stanno organizzando per far fronte al problema dei cinghiali e dei grandi predatori controbilanciando il peso dell'animal-ambientalismo (pur consapevoli che esso è supportato da potenti lobby internazionali finanziate dalle multinazionali e che esso ha una forte presa sulla politica vigliacca e sui media degli usurai) ; 2) un convegno per approfondire l'analisi politica e far discendere da essa delle linee di iniziativa culturale e politica.
Note
(1) J. Bentham, Panopticon ovvero la casa d'ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983 [Ed. originale: Panopticon or the inspection-house, London, T. Payne, 1791].
(2) Cartesio, Discorso sul metodo, Bompiani, Milano, 2002
(3) K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974 (3a ed. 2010). Oltre a rappresentare una delle critiche più lucide al liberomercatismo l'opera di Polanyi tratta delle conseguenze politiche e sociali crisi dell'utopia del mercato autoregolantisi tradottasi nel fascismo e dovrebbe insegnare pur qualcosa ad un mondo attanagliato dalla crisi del neoliberismo.
(4) Per questa analisi si rimanda all'opera diel sociologo francese Bruno Latour (B. Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina editore, Milano, 2000).
(5) L'apparato è "scientifico", ma più spesso la pretesa e tanto asserita "scientificità" assomiglia sempre più a quella autoritas autoreferenziale che il metodo scientifico ab origine voleva combattere, legata ad un'apparenza, ad un formalismo a delle convenzioni autoreferenziali. Sul fondo c'è un "sistema di produzione scientifico" che si è "industrializzato", dipendendo sempre più da apparati tecnologici, integrandosi sempre più con la logica e i processi del capitalismo industriale, procedendo secondo le linee della specializzazione spinta, dell'incasellamento disciplinare. La produttività e la "potenza di fuoco" sono aumentate a dismisura ma quello che lo scienziato mette a fuoco con grande nitore (circostanza che gli da illusione di "verità") è spesso è un pezzo della realtà isolato dai nessi che la sua specializzazione e le sue sofisticate metodologie non gli consentono di vedere (e che quindi è poco "vero"). La frammentazione della scienza in mille discipline rende sempre più difficile ricostruire un sapere organico (a ben vedere è la stessa artificiosa distinzione tra scienze "sociali" e "naturali" che è diventata una camicia di forza) .
(6) S. Latouche, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati-Boringhieri, Torino, 1995.
(7) M. Corti, Le contraddizioni del rapporto tra uomo, animali e dimensione selvatica nella tarda modernità. La reintroduzione dei grandi predatori nelle Alpi: tra ideologia della wilderness, biopolitica e conflitto sociale, in Studi Trent. Sci. Nat. 91 (2012) :83-113. (Pdf)
(8) U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carroci, Roma, 2000.
(9) A. E. Weber, New Vanguard for the Environment: Grass-Roots Ecosystem Management as a New Environmental Movement. Society & Natural Resources. 13 (2000) 237-259.
(10) A. Magnaghi, Il progetto locale: verso la coscienza di luogo, Bollati-Boringhieri, Torino, 2010.
(11) A. Surell Etude sur les torrents des Hautes-Alpes, Paris, Dunod, 1870
(12) H.G. Rosengerg, Un mondo negoziato. Tre secoli di trasformazioni in una comunità alpina del Queyras, Carrocci editore/MUCGT, Roma/San Michele all’Adige (Tn), 2000, pp.119-120.
(13) Tutt’oggi riecheggiano nell’impronta ideologica di tanta letteratura forestale e botanica che imputa alle “dissennate pratiche” di gestione dei boschi da parte dei montanari le conseguenze di tagli che furono legati alle esigenze energetiche dell'industria nascente .
(14) M.Corti, Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema alimentare: il ruolo della capra nelle comunità alpine della Lombardia e delle aree limitrofe in età moderna e contemporanea in: SM Annali di S. Michele, 19, 2006, pp. 235-340). (Pdf)
(15) Ivi.
(16) M. Agnoletti , Il paesaggio come risorsa, Pisa, Edizioni ETS, 2009.
(17) M. Agnoletti, L’agricoltura che non tuteliamo, Corriere sociale, (17 agosto 2015 ) http://sociale.corriere.it/lagricoltura-che-non-tuteliamo/
(18) http://www.convenzioneeuropeapaesaggio.beniculturali.it/
(19) http://www.unesco.it/_filesPATRIMONIOimmateriale/convenzionePatrImm.pdf
(20) http://conventions.coe.int/Treaty/Commun/QueVoulezVous.asp?NT=199&CM=8&CL=ITA
(21) Perché oggi si deve parlare di biopolitica e di biocapitalismo? Perché la politica e il capitalismo non hanno più per oggetto l'uomo nel suo contesto di culturalità, addensati sociali (nazione, comunità) ma l'uomo come specie zoologica da manipolare con le tecniche del brain wash (alla Tavistock Institute), del marketing subliminale, quando non della chimica (psicofarmaci ma anche pesticidi, interferenti endocrini che interagiscono con la fertilità, l'intelligenza, il comportamento). Vero è che con l'acquisto di quella merce particolare che è la forza-lavoro il capitalista acquistava anche "dell'entità fisica, psicologica e comale dell'«uomo»" Polanyi, op. cit. p. 94 ma era pur sempre una "finzione di merce" come Polanyi stesso ammetteva. Il biocapitalismo oggi vuole controllare la riproduzione sociale in senso integrale, biologico, facendo di uteri, corpi, organi, ovuli, embrioni una merce spinto dal suo impulso all'accumulazione e all'espansione del mercato. "Componenti" umane o esseri umani sono merci in senso pieno del termine ovvero di "prodotto per la vendita" (Polanyi op. cit. p. 93). Il capitalismo viventa biocapitalismo perché la sua espansione non è più solo geografica (ormai il capitalismno è planetario) ma traborda dalla sociosfera alla biosfera.
(22) Sul concetto di post-democrazia: C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma, 2009; E.A. Serbelloni , Ripartire dalla comunità. L'Italia tra crisi e post-democrazia, Casadeilibri, Padova, 2014.
(23) Il rimando d'obblogo è alla monmentale opera del sociologo americano Eugen Weber: Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale (1870-1914), Einaudi, Torino, 1989
(24) D. Paccino L'imbroglio ecologico. L'ideologia della natura. Einaudi, Torino, 1972, p. 73
(25) P. Rumiz, La grande ombra verde. Il richiamo della foresta, La Repubblica, 20.09.2009 ( vedi l'articolo su Ruralpini)
(26) Roby Ronza, J’accuse: I lupi parte di un patto contro la montagna, Il Sussidiario, 13.01.2013 (http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2013/1/13/J-ACCUSE-C-e-un-patto-tra-ambientalisti-e-lupi-contro-la-montagna/3/353764/); Roby Ronza , In compagnia dei lupi (e degli orsi e dei leoni...), La Nuova Bussola Quotidiana, 04-08-2015 (http://www.lanuovabq.it/it/articoli-in-compagniadei-lupi-e-degli-orsi-e-dei-leoni-13443.htm); Roby Ronza, Il ritorno incontrollato dei lupi e degli orsi sulle nostre montagne e colline: un pericolo reale di cui è ora di rendersi conto, 18 aprile 2014 (blog personale robironza.wordpress.com.) ( https://robironza.wordpress.com/2014/04/18/il-ritorno-incontrollato-dei-lupi-e-degli-orsi-sulle-nostre-montagne-e-colline-un-pericolo-reale-di-cui-e-ora-di-rendersi-conto/
(27) Plaidoyer pour des écosystèmes non désertés par les bergers, Libétation, 13 Octobre 2014 http://www.leseleveursfaceauloup.fr/plaidoyer-pour-des-ecosystemes-non-desertes-par-les-bergers/
(28) In provincia di Cuneo, dove il conflitto in tema di reintroduzione del lupo è particolarmente sentito e combattuto vanno citate le associazioni: Alte Terre (Mariano Allocco, Giorgio Alifredi), Adialpi (Giovanni Dalmasso), Escolo de sancto lucio de Coumboscuro (Mauro Arneodo). In Trentino il Comitato per la liberalizzazione dello spray antiorso (impegnato in una più generale campagna di informazione e denucia sul progetto Life Ursus) animato da Mario Giuliano, in Lessinia (Verona) l'Associazione per la tutela del territorio (Giuliano Menegatti), in Ossola il Comitato contro i lupi (Otten Gesine), nel comasco il Comitato contro i cinghiali (e i lupi) (Giacomo Luigi Ruiu) e si potrebbe proseguire anche se si tratta di realtà ancora poco coordinate tra loro, un guscio di noce contro le corazzate animal-ambientaliste sostenute con gli apparati dei parchi e delle organizzazioni nazionale e internazionali più la galassia delle sigle animaliste, da quelle più strutturate e istituzionalizzate (ma non meno estremiste) come Enpa e Pro natura, alla Brambilla, al Partito animalista e ai gruppuscoli filiazione dell'estremismo politico rosso e nero. La differenza è che i gruppi "di base" non sono certo supportati dalle organizzazioni agricole istituzionali. Quanto al mondo venatorio è profondamente diviso e incapace di fare fronte con quello agricolo e rurale. Per non parlare delle responsabilità che ha rispetto alla proliuferazione dei cinghiali (anche se sarebbe ingiusto ricondurre il problema solo ai "lanci" dei cacciatori).
(29) E. Lo Cascio, P. Malanima, Cycles and stability. Italian population before the demographic transition (225 B.C. - A.D. 1900), In Rivista di Storia Economica, 21, 3 (2005) 5-40.