(08.04.15) È da oltre un secolo che i tecnocrati hanno ingaggiato la loro battaglia di esproprio dei saperi rurali e di imposizione della standardizzazione al formaggio bitto. Oggi abbiamo capito che l'igiene, il "progresso" non c'entrano. C'entra il controllo industriale totalizzante sulle filiere produttive
Da oltre un secolo "rompono" con i
fermenti e la standardizzazione
Oggi, quando il bitto storico ha almeno parzialmente vinto la sua battaglia per evitare l'omologazione di metodi produttivi secolari ad una "modernizzazione" coatta, possiamo guardare al passato con più serenità e ricostruire una vicenda lunga un secolo. Una storia che ha visto i tecnocrati e le istituzioni, prima qualificare come inadeguata una produzione che si era fatta una grande reputazione da secoli, poi cercare di uniformare il prodotto alle tecnologie "razionali" del caseificio industriale. Un modo per arrivare a produrre durante tutto l'anno, in grossi caseifici, un formaggio leggendario che deve le sue caratteritiche peculiari all'alpeggio
Come forse i nostri lettori sapranno il formaggio Branzi, sino ai primi decenni del Novecento era era così chiamato perché nella località di Branzi in alta val Brembana "[...] ricorre ogni anno una famosa fiera di formaggi, dove sono messi in vendita i prodotti di tutte le Alpi della Valle Brembana, e di gran parte della Valle Seriana e della Valtellina" (Atti del consiglio provinciale di Bergamo, 1874). Si trattava di formaggio grasso d'alpe prodotto anche sugli alpeggi della val Tartano e della stessa valle del Bitto che, in base alle descrizioni dei tecnici di inizio Novecento era molto simile all'attuale Bitto. Il "Branzi" era, infatti un formaggio duro a pasta cotta destinato alla stagionatura.
Nonostante la fama del Branzi/Bitto i tecnocrati dell'epoca avevano da ridire. Forte era il loro pregiudiziono contro i bergamini (malghesi) produttori del Bitto/Branzi. Essi erano allevatori-casari transumanti che continuavano a fare la spola tra la pianura e la montagna e non andavano a genio alle "Istituzioni agrarie". Tanto che con giudizi tanto faziosi quanto ingenerosi li consideravano inadeguati, sia come allevatori che come casari (peccato che il loro bestiame e il loro formaggio - come dovevano riconoscere i tecnocrati a denti stretti - era ben commerciabile).
un casaro d'alpeggio del XV secolo: si sono secolo e millenni d'esperienza dietro le tecniche dei "casari ignoranti" disprezzati dai tecnocrati
"Non sanno né allevare né caseificare"
Il "nomadismo" era vissuto com un "disordine" dagli enti agricoli del tempo ovvero le Cattedre ambulanti (espressione istituzionale anche se non ancora ministeriale come divenne in seguito a partire dagli anni Venti). Essi, come del resto gli "scrittori" di cose agrarie (tutti di estrazione aristocratica o borghese) ne auspicavano già dalla metà dell'Ottocento (con Stefano Jacini) la "fissazione".
Lo Scalcini, direttore della Cattadra ambulante di agricoltura delle Valli bergamasche, nella relazione sull'attività della Cattedra stessa nel periodo 1906-1913 (Bergamo,1913)non nascondeva la sua poca simpatia per i bergamini che qualifica: "allevatori quanto mai primitivi" e vedeva nell'azione illuministica di "innalzamento intellettuale" della Cattedra un mezzo per facilitare la loro sedentarizzazione o al piano o in montagna (purché si fissassero...).
[...] noi abbiamo creduto che a facilitare questa trasformazione del mandriano in un allevatore a dimora stabile avrebbero potuto contribuire anche le nostre istituzioni agrarie, cercando di elevare la sua istruzione tecnica e, per conseguenza diretta, anche le sue condizioni economiche; di che per noi è pacifico che se i mandriani si assoggettano ancora alla loro attuale, dura vita, gli è per la semplice ragione che non hanno i mezzi di fare altrimenti
Ovviamente non era vero niente. I bergamini incarnavano una cultura "altra" da quella borghese e delle classi rurali "umili e sottomesse". Vestivano alla montanara perché preferivano investire nel bestiame e tesaurizzare. Erano tanto "pezzenti" che sono riusciti ad acquistare i fondi in pianura. Oggi ci rendiamo che era lo spirito indipendente dei bergamini a risultare antipatico ai tecnocrati. Questi ultimi cercavano in ogni modo di favorire i "casalini" (i piccoli contadini-allevatori stanziali) promuovendo associazioni e consorzi di alpeggio e suscitando la concorrenza di queste aggregazioni a danno dei transumanti affittuari degli alpeggi. I "casalini" impersonavano il contadino sottomesso, senza orgoglio, che si vergogna di essere tale ed è più facilmente manipolabile dalle classi elevate e dai loro rappresentanti intellettuali, tecnici, burocratici.
Il formaggio deve essere "migliorato" (come il bestiame)
La preoccupazione dei tecnocrati consisteva nellauspicio di un "miglioramento" zootecnico caseario che coincidesse con le loro vedute preconcette. A loro (ieri come oggi) importava più che altro che fossero le loro scelte e il loro controllo a determinare gli indirizzi tecnici. Oggi sappiamo che in campo zootecnico gli errori dei tecnici furono clamorosi. L'imposizione autoritaria dei tori svizzeri (con la carota dei premi e il bastone della negazione dell'autorizzazione alla monta dei tori da parte dalle commissioni) era motivata più da preconcetti formalisti che da precisi indirizzi funzionali di miglioramento e, tra le due guerre, si impose un tipo di Bruna di diretta derivazione svizzera eccessivamente pesante e con eccessiva attitudine alla carne (carattere desiderato dagli svizzeri per assicurarsi, in vista dei venti di guerra del tempo, una buona autosufficienza).
Serina (Bg). Fiera del bestiane, anni Quaranta. Molta carne
Ma nel 1928 fu una vacca dei bergamini (di nome "Regina"), di tipo decisamente diverso da quello svizzero a battere sul filo di lana , vaticinio dei nomi, dopo aver vinto per tre anni consecutivi nelle mostre casalinghe alla Fiera-esposizione di Milano, con la produzione di 67 litri di latte in due giorni, conquistò il titolo di «Regina del latte» battendo, sia pure sul filo del rasoio, una Pezzata nera olandese. Era la prima volta che una Bruna Alpina montanara otteneva una simile affermazione. Poi proseguì l'ortodossia svizzerofila che comportò anche inconvenienti non da poco quando venivano vendute (o per meglio dire rifilate) in dumping (con il sussidio federale) bovine da "risanamento".
La Regina dei bergamini. Molto latte ma animale di forme raccolte e sviluppo moderato compatibile con la montagna
Distrutto il ceppo di Bruna dei "primitivi e ignoranti" bergamini la razza si consegnò senza colpo ferire all'incrocio di sostituzione con la Brown Swiss, decisamente più lattifera. Siamo ormai in anni a noi vicini (fine anni Sessanta-inizio anni Settanta). Questa volta i tecnocrati imposero qualcosa che era all'estremo opposto delle loro scelte precedenti e che non mancò di rivelarsi un errore clamoroso. Hanno guadagnato i commercianti di seme congelato, di mangimi, di farmaci.
Il montanaro trovandosi con vitelli di valore nullo si è dovuto arrangiare con l'incrocio industriale (usando seme di tori da carne); poi ha inizato a incrociare le vacche e l'attuale babele di razze e incroci in totale o parziale sostituzione di una Brow Swiss che non è adatta alla montagna è una Caporetto zootecnica. Tutto grazie ai tecnici. Che hanno sempre dimostrato di non avere per finalità il "progresso zootecnico e caseario" ma gli interessi dell'industria, di un sistema economico che voleva fare a meno di contadini indipendenti, che voleva materie prime a vile prezzo (latte, carne) e rendere completamente dipendenti dal mercato (sia dal punto di vista dell'acquisto degli input, che della cessione degli output) i produttori.
Il mercato capitalistico premia la specializzazione e aborriva dai bergamini autosufficienti che erano allevatori, casari, commercianti. Ai tecnici piace la specializzazione e la quantità perché il produttore agricolo è poi costretto a cedere il suo unico prodotto (di cui non sa cosa fare altrimenti) accettando "con le mani dietro la schiena" un vile prezzo.
Un modello che reléga l'allevatore a dipendente del sistema industriale
In nome dell'igiene e della standardizzazione l'economia industriale ha puntato a concentrare l'attività di trasformazione agricola in poche unità di produzione.
Nei formaggi un passo decisivo per la standardizzazione è l'impiego di "innesti selezionati", ovvero di disciplinati, uniformati e prevedibili batteri lattici. Che si sostituiscono alla variegata, così intollerabilmente biodiversa, microflora spontanea con i suoi ceppi "selvaggi", i lieviti, gli eterofermentanti.
Con una microflora disciplinata si possono applicare schemi di produzione relativamente costanti (tanto caglio,tanto tempo, tanta temperatura). Le lavorazioni diventano riproducibili, non c'è più bisogno delle competenze dei "mastri casari". Il sapere viene trasferito nei macchinari, nel capitale e viene sottratto alle persone. Alla fine il casaro diventa un supervisore che schiaccia i bottoni. Un secolo fa questi sviluppi erano embrionali in pianura mentre in montagna si era anni luce distanti da questo modello "razionalizzato".
Il già citato Scalcini, però, nella Relazione sull'attività della Cattedra ci informa che:
...sempre per i miglioramento del branzi la cattedra ha coadiuvato il chiarissimo professor Gorrini della regia scuola superiore di agricoltura di Milano in una sua esperienza di semina di fermenti selezionati, eseguita, nel 1909, sull'Alpe Ponteranica in comune di Mezzoldo. l'esito di queste prove è stato soddisfacente, in quanto che ne formaggi fabbricati con i fermenti si riscontrò una perfetta conservazione della pasta e un sapore delicato ed ottimo; mentre le forme di confronto, lavorati nelle stesse condizioni, ma senza fermenti, presentavano varie pecche. Pur riconoscendo la necessità di altre prove su più larga scala, si è però già incoraggiati a sperare che si possa trovare nell'uso dei fermenti selezionati un mezzo molto efficace di miglioramento, specialmente per arrivare alla uniformità del tipo.
Un entusiasmo che pare eccessivo considerando che le prove di utilizzo di innesti selezionati nella lavorazione del Bitto (nel frattempo il Branzi non era più prodotto in alpeggio ma in caseificio) furono riprese dopo ottant'anni (Cavallotto G., Giangiacomo R., Carini S. Il formaggio Bitto: tecnologia, composizione e caratteristiche reologiche e di colore in il Latte, 13 -1988 -726-733). La finalità era sempre quella della "uniformazione" del prodotto.
In quei tempi non si nascondeva l'idea di seguire la strada di altri prodotti e di produrre un Bitto "migliore", lontano dagli alpeggi, in moderni e razionali "caseifici moderni". Uniformare era sempre l'ossessione dei tecnoburocrati.
Questo programma, era stato enunciato in un articolo su "Il formaggio bitto" apparso sulla rivista dell'Ispettorato agrario provinciale di Sondio (G.Delforno, A. Fondrini in Rezia agricola e zootecnica n. 5 maggio 1976). Gli autori, dopo aver auspicato che "si provvedesse ad apportare alcune modifiche nei tradizionali, e talvolta irrazionali, metodi di lavorazione, nonché e a curare maggiormente l'aspetto esteriore e la confezione del prodotto finito" indicavano questa soluzione:
tutto ciò si potrebbe ottenere, ad esempio, con la costituzione di alcuni moderni caseifici nella zona, che- disponendo di maggiori quantitativi di latte da lavorare ed adottando più razionali procedimenti di fabbricazione- potrebbero non solo produrre reddito tutto l'anno, ma anche conseguire quei miglioramenti produttivi e merceologici, che sono compatibili con i recenti progressi raggiunti in ogni campo dall'industria lattiero casearia del nostro paese
Generazioni di studiosi di caseificio erano arrivate alla conclusione che la qualità di un prodotto artigianale poteva migliorare solo con l'adeguamento ai progressi della tecnologia industriale.
Ancora una volta un abbaglio colossale, smentito anche dalle successive generazioni di tecnici e ricercatori che hanno dovuto ammettere - sia pure solo di recente - che è superiore il prodotto artigianale, realizzato da mani esperte e con una materia prima ben diversa da quella di cui può disporre l'industria (latte anestetizzato e pastorizzato di vacche pompate di mangimi e integratori).
Una rivincita per i bergamini e per quelle "teste dure" refrattarie alla manipolazione dei tecnici e dei politici come Paolo Ciapparelli che ha saputo far rivivere una cultura di "autonomia rurale e contadina" pur essendo un "venditore di piastrelle" (in realtà proprio grazie a questo e alla possibilità di sfuggire ai condizionamenti, manipolazioni, piccoli e grandi ricatti che gli "agricoli" hanno troppo spesso accettato di subire).