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Storie di Alpeggi

Alpeggi di Cavargna
Tra luci e ombre



(25.06.17) Di questi tempi di siccità si apprezza di più il valore degli alpeggi dove, tranne annate eccezionali, le piogge e i temporali sono frequenti. In val Cavargna, a differenza della più meridionale valle Intelvi, caratterizzata da substrato carbonatico, le sorgenti sono numerose.  "Qui c'è acqua dappertutto" dice il sindaco di Cusino, Francesco Curti, che mi ha accompagnato a visitare l'alpeggio comunale (l'alpe di Rozzo, 1480 m) che, da quest'anno, è caricato da un giovane allevatore locale.

Grazie all'abbondanza d'acqua (per tutta la stagione) in alpe non ci sono problemi di elettricità: la turbina da 3kW soddisfa tutte le utenze, compresa la mungitrice.  L'alpe è anche ben dotata di  viabilità di accesso e di strutture. La pista forestale collega Rozzo a Monte Lugone (1200 m). 

Lugone merita una divagazione; raggiungibile con strada asfaltata, è un interessante "porta" della val Cavargna.  Punto di passassagio tra Cavargna e val Senagra è sul sentiero delle quattro valli. Qui c'è la frazione Malè, un villaggio, ben tenuto, di "case estive" un tempo utilizzato per il pascolo (sino a pochi anni faqualche anziano teneva ancora qualche vaccherella e lavorava il latte). Il sito è molto frequentato perché vi è anche il santuario della Madonna della salute, eretto tra Otto e Novecento per opera dei parroci di Cusino al fine di tenere viva la fede della numerosa popolazione che viveva qui buona parte dell'anno.   Il passaggio tra due valli (e quindi la "passata" degli uccelli migratori) aveva spinto in passato a realizzare due roccoli. Ai piedi del più grande il comune ha realizzato un'area attezzata (con tanto di servizio bar).

L'area sfrutta un'altra struttura ereditata dal passato: il meriggio. Si trattava di un'area piantumata con faggi (o frassini  e aceri a quote inferiori) che serviva a offrire ombra al bestiame durante le ore più calde (per proteggerle dai raggi del sole ma anche dagli insetti). Un tempo queste architetture vegetali si ergevano isolate in mezzo ai pascoli. Una foto d'epoca rende l'idea di come era diverso il paesaggio (intorno al santuario non vi era neanche un albero).

Non si può concludere l'excursus sull'importanza turistica di Lugone citando la Locanda Maria, a Malè, con possibilità di ristoro e alloggio, e la presenza, sempre a Malè di antiche strutture legate alla lavorazione del latte (casello e nevere). Prima di riprendere a parlare della nostra alpe ci piace ricordare che a Lugone vi fu un concerto (c'ero) di Van de Sfroos nel 2002.  Per chi è interessato alla storia sociale c'è un ulteriore gustoso inciso (storico) che riguarda il 1840, ma lo lascio in nota (1).

Parlare di Lugone e della sua importanza turistica ci è servito per capire perché  l'amministrazione di Cusimo tenga molto all'alpe Rozzo, che rappresenta un naturale ampliamento e complemento della fruizione turistica del territorio. Va detto anche che la posizione dell'alpe è molto favorevole e la vista che vi si gode è particolarmente aperta.  Da Lugone all'alpe di Rozzo si percorre la pista forestale, quasi tutta in bosco (una comoda passeggiata adatta a tutti). La pista è ben tenuta ma il sindaco osserva che in alcuni punti i muri di contenimento a valle richiederebbero degli interventi, purtroppo costosi, gravosi per il bilancio di un piccolo comune ("dicono già che per l'alpe spendiamo tanto"). In effetti i fabbricati sono tutti in buone condizioni grazie a recenti lavori di manutenzione.

Gli interventi hanno però preservato le caratteristiche originali dell'architettura d'alpeggio di queste valli tra il Lario e il Ceresio, caratterizzata dalla presenza di grandi sòstre, ricoveri per gli animali aperti su un lato con grandi arcate per consentire la rapida entrata e uscita delle mandrie (da mettere in relazione con la frequenza e l'intensità dei temporali).

Sotto la sòstra, però, in questo momento della giornata (tarda mattinata) ci sono le capre. Se ne stanno all'ombra e al fresco perché qui, come spesso nella fascia prealpina, si preferisce "mollarle" dopo la mungitura serale in modo che pascolino alla sera e alla mattina presto. Le capre sono già qui da maggio (sono arrivate prima delle vacche) e già hanno preso a "salire verso la cima". Da qui il gregge può spingersi verso i 2000 m della cresta tra il Monte Marnotto e il Bregagno. Una zona "vocata" per le capre che, su queste creste e cime, convergono da Garzeno, grosso paese della valle Albano sopra Dongo, da Pianello e da Musso (sulla riviera lariana).

Parlando di capre Carlo Panatti (nella foto sotto impegnato a mungere una capra) e il sindaco confermano notizie che avevo raccolto diversi anni fa circa la "circolazione" dei becchi che, per seguire le capre in calore a fine estate passano da una valle all'altra. "Ho recuperato un giovane becco verzasco che era partito di qui ed era arrivato sopra Musso" mi racconta il sindaco. Sono sette km in linea d'aria.


Purtroppo, per non perdere il contributo per le razze in via di estinzione. anche qui all'alpe di Rozzo i becchi sono neri (verzaschi o presunti tali). La stessa situazione che si verificava anche al di là del Bregagno, all'alpe Sumero, una quindicina di anni fa quando scattai la foto sotto: in un gregge di capre del ceppo locale (capra lariana o di Livo) si notano tre becchi neri. La capra verzaschese, il cui registro anagrafico risale al 1997  era già stata inserita nel nel piano di sviluppo rurale 1992-1999 mentre quella lariana, il cui registro risale al 2001, venne inserita solo nell'annata 2003-2004.


Ma allora perché le capre lariane di Rozzo (e di tutta la val Cavargna) oggi non possono accedere al premio? I motivi sono politici e ne conosciamo e possiamo intuire alcuni. Fatto sta che il censimento delle capre lariane, eseguito da chi scrive per conto della provincia di Como (2003), dimostrava come la popolazione era presente non solo in val Cavargna (allora nella comunità montana delle Alpi Lepontine, ma anche in Tremezzina e in valle Intelvi. Il censimento fu eseguito, con tanto di misure biometriche e di rilievo delle caratteristiche esteriori che confermarono la sovrapposizione delle sottopopolazioni. Per scelta politica degli enti interessati, però, le rilevanze della ricerca sul campo vennero ignorate e lo studio restò nei cassetti. Uno dei motivi dell'esclusione della comunità montana del Lario intelvese dall'accesso ai contributi per la capra lariana  era rappresentato dalla preferenza dell'ex presidente per le razze "gentili" (essendo un veterinario si era lasciato influenzare dai proprio orientamenti tecnici produttivistici). Non so perché l'ex comunità montana delle Lepontine (Porlezza) non chiese mai per i propri allevatori l'attivazione del premio (forse perché a Porlezza si considerava importante solo la vacca da latte) ma sospetto anche che l'ex comunità montana dell'alto Lario occidentale ci tenesse ad un'esclusiva campanilistica. Ora, però, essa è stata fusa con le ex Lepontine nella nuova comunità "Valli del Lario e Ceresio" (svuotata di ruoli come tutte peraltro). Così siamo all'assurdo che, nella stessa comunità montana, con i becchi che passano dalla zona ammessa a contributo a quella non ammessa, la val Cavargna resta esclusa.

Gli allevatori  conserverebbero volentieri le capre "nostrane " ma chi glielo fa  fare di perdere il contributo uniformandole al mantello nero?  Come esempio di conservazione della variabilità genetica non c'è male.  Nello studio per la provincia avevo anche evidenziato come il motivo dell'appartenenza delle capre lariane dell'alto, medio e basso Lario era chiaramente riconducibile alle modalità storiche di allevamento. In passato accadeva per le capre come per le vacche: il piccolo e piccolissimo allevatore non poteva permettersi di tenere i becchi e neppure di allevare la rimonta. Così si andava alla famosa fiera di Gravedona e si acquistavano le capre gravide. Me lo raccontò nel 2001 un capraio novantenne di Sala comacina che si ricordava benissimo (aveva una memoria di ferro) che ancora negli anni Sessanta andava a Gravedona a comprare le capre in fiera (intervista a Miro Puricelli).

Tra le ombre non c'è solo il mancato contributo per le capre "colorate". Carlo Panatti, nella foto sotto nella cantina  ancora semivuota, lamenta come in alpeggio i controlli dlel'ATS sul caseificio siano molto stringenti. Una circostanza che dipende dal fatto che il caseificio dell'alpe ha il bollo CE mentre a casa l'allevatore trasforma con la SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Dal momento che la vendita dei loro formaggi è diretta (la moglie Simona partecipa diversi giorni alla settimana ai mercatini contadini della pianura comasca) a loro il bollo non serve. Ma il bollo implica maggiori adempimenti per la tracciabilità (e non solo).



Sia il caseificio (con tutte le attrezzature nuove in inox) che la cantina comunque sono ben sistemati e non dovrebbero esserci particolari difficoltà a rispettare le prescrizioni. La produzione spazia dal formaggio semigrasso (misto capra) alla semüda, alle formaggette di capra al burro.  Di solito la semüda è prodotta in inverno e quindi questa d'alpeggio è una specialità. La semüda artigianale è come nella foto sotto, molto diversa da quella industriale prodotta dalla Latteria alto Lario di Dongo che è una succursale della Latteria Valtellina di Delebio. Putroppo il disciplinare è stato redatto non tenendo conto del prodotto artigianale ma di quello del caseificio.


Le diversità sono non da poco, a partire dalla scrematura. Il prodotto artigianale è ottenuto con latte parzialmente scremato (entrambe le munte), ha lo scalzo molto più basso e nettamente convesso.

Il suocero di Carlo chiarisce: "io sono un gran mangiatore disemüda, quella che chiamano adesso semüda è tutta un'altra cosa". Anche in questo caso, come in quello più noto e clamoroso del bitto, una denominazione, un patrimonio di tradizione locale è stato espropriato. Con la benedizione delle istituzioni.


Purtroppo la semüda non è ancora stagionata a sufficienza e non è stato possibile assaggiarla. Dopo pranzo ci spostiamo verso la Müdata di Rozzo (1615 m). In precedenza solo una stazione alta dell'alpe di Rozzo (come dice il nome). Nel 1950 vennero però realizzati dei fabbricati, tutt'ora esistenti, che ne facevano un'alpe a sé. Salendo verso la Müdata incontriamo la mandria delle vacche da latte composta da pezzate rosse e grigie.


L'alpe oggi, che comprende anche i pascoli di Aigua (alpe alla testata della valle non raggiunta da piste) è caricata con capre da latte, vacche da latte e vacche nutrici (che hanno il "campo alla Müdata). Il carico non è alto  considerando l'estensione  ma molte superfici sono state  perse per l'espansione dell'ontano alpino e del rododendro. Oggi i pascoli sono in contrazione e il bosco, anticipato dagli arbusteti, avanza. Va però tenuto presente che ne corso della storia degli alpeggi, dal neolitico ad oggi, vi sono stati vari cicli di disboscamento, riconquista del bosco, nuovi disboscamenti. Proprio qui all'alpe del Rozzo, nell'ambito di recenti indagini sistematiche sull'archeologia del paesaggio (2), sono state individuate delle carbonaie  del XVI secolo (sulla base della radiodatazione dei carboni).


In totale sono state individuate 22 carbonaie, realizzate spesso con muretti a secco a monte e a valle per garantire la superficie pianeggiante. Grazie ad essa, alla maggiore umidità rispetto alle superfici circostanti, che assicura la migliore crescita dell'erba, il bestiame ha continuato a frequentare queste piazzole mantenendole sgombre dalla vegetazione arbustiva e consentendone la identificazione aerofotogrammetrica. Le carbonaie arrivavano a 1600-1700 m e, culla base dei carboni analizzati, utilizzavano prevalentemente abete bianco (che diminuisce a vantaggio dell'abete rosso e del larice alle quote superiori). Se ne deve dedurre che qui, alla fine del XVI secolo vi fosse bosco. Ma il taglio intensivo, legato verosimilmente all'uso industriale (fusione del minerale di ferro) determinò la distruzione dei boschi rimpiazzati dal pascolo e dal "boom" dell'economia dell'alpeggio nel XVII-XVIII secolo. Va rilevato che l'attività estrattiva e siderurgica ebbe comunque ancora forte importanza nel XVIII secolo e si esaurì all'inizio del XIX (3)


Oggi, nonostante le proclamate politiche a sostegno dell'alpeggio, assistiamo, almeno in val Cavargna alla crisi di questa forma di economia che, in forza del suo carattere ecologico e multifunzionale dovrebbe essere in gran ripresa. nella foto sopra, al di sopra del ripido versante opposto a quello dove ci troviamo, ci sono i pascoli di Sebòl. Non risultano caricati per via del meccanismo a doppio taglio dei contributi. Causa il "refresh" (le verifiche da satellite della congruità delle superfici pascolabili rispetto a quelle dichiarate ai fini del contributo) chi caricava gli scorsi anni ha perso i titoli Pac. nella foto si vede a destra in alto la mole del Pizzo di Gino. Alla sua base l'alpe Piazza Vacchera. A 1774 m è l'alpe più alta della valle.  E' stata dotata di strutture moderne in anni recentissimi ed anche di alloggi agrituristici. Per l'accesso venne realizzata una pista larghissima, camionabile ("un errore", sottolinea il sindaco di Cusino che aggiunge: "le piste devono essere come queste che abbiamo realizzato noi, ci deve passare il fuoristrada"). Le piste di 2,5 m di calibro percorribili solo da fuoristrada hanno, in effetti, un impatto molto contenuto. La "rete" della viabilità dell'alpe procede anche oltre la Müdata sino a 1800 m di quota in prossimità della val Senagra. C'era (e rimane) il progetto di proseguire lungo la testata dell' alta val Senagra, attraverso l'alpe (abbandonata) di Marnotto, per arrivare a Nesdale (alpe di Plesio, collegata). Un malinteso ambientalismo ha però frenato questo collegamento con Nesdale (alpe ben caricata e anch'essa con struttura agrituristica). L'opera, oltre che rappresentare un comodo collegamento anche per Rozzo, consentirebbe di valorizzare meglio e recuperare parte dei pascoli della stessa alpe Nesdale.
Ma torniamo all'alpe Piazza vacchera. Nonostante le strutture, l'agriturismo, lo stradone, lo scorso anno, è sempre il sindaco Curti a informarmi, l'alpe è stata caricata solo ad agosto con pecore da carne ("il minimo di 45 giorni per poter incassare i contributi"). L'azienda che la caricava ai tempi della realizzazione dell'agriturismo (una dozzina di anni fa) aveva assunto un orientamento più intensivo e rinunciato all'alpeggio e quindi... è cascato l'asino. La riprova che in montagna prima delle strutture vengono gli uomini, vanno costruiti sistemi agricoli a misura di territorio che offrano ai produttori valide alternative (in termini di reddito ma anche motivazionali) al "produttivismo" (mangimi, stalloni).  Qui, invece, a Rozzo non dovrebbero esserci queste brutte sorprese. L'azienda Simona Maffioli (la moglie di Carlo) è nata con le capre, con la vocazione per il pascolo, la trasformazione di latte e carni (alleva anche suini), la vendita diretta. E' stato per aggiudicarsi l'alpeggio che l'azienda si è dotata di vacche da latte, realizzando a casa una nuova struttura per il ricovero delle bovine. Difficile un percorso inverso, di "fuga dall'alpeggio" perché il modello aziendale ha un suo equilibrio e coerenza.



Arriviamo alla Müdata. La sòstra è degli anni Cinquanta ma è solida, realizzata in blocchi di pietra (tranne le architravi delle aperture in calcestruzzo). La copertura, una vecchia lamiera, è in alcuni punti ammalorata e l'acqua si infiltra danneggiando le travature in legno. Altri lavori da mettere in conto. Quello che amareggia Francesco Curti, però, è l'aver perso un finanziamento che avrebbe consentito di completare la realizzazione di un rifugio agrituristico. Il progetto comportava l'utilizzo del sottotetto della sòstra e la realizzazione di un servizio igienico. La baita, un tempo utilizzata per la lavorazione del latte e l'alloggio degli alpigiani, è stata completamente ristrutturata (sotto) ma è tuttora priva di un bagno. L'amministrazione precedente non volle accendere un mutuo per investire 50 mila € di cofinanziamento.


Tra le vacche nutrici qui alla Müdata prevalgono gli incroci. Vacche leggere con fabbisogni contenuti ma abbastanza latte per i redi.


Anche qui, però, a dimostrazione della crescente penetrazione della razza, troviamo questa grigia con il figlio.


Sotto, infine, vediamo la mandria delle "nutrici" che riprende a pascolare. Il pascolo, come si vede, sta regredendo. Il rododendro è il primo a "mangiare" il pascolo, poi si insediano i densi cespugli di ontano alpino e quindi gli alberelli pionieri. Si dovrebbe decidere dove mantenere il pascolo (le zone più accessibili e di migliore giacitura) e operare attivamente per questo scopo, lasciando che il bosco di reinsedi sulle altre superfici.




Note

(1) Il 25 maggio 1840 un “sotto-capo”, tal Vigliani, scortato da 5 Guardie Boschive (componenti una "squadriglia"), sorprende, nel bosco comunale di Tagliate [toponimo, come visto, ricorrente], 55 capre che vi si trovavano al pascolo abusivamente e le fa condurre al caseggiato dell’Alpe Lugone. Nel trambusto che ne segue accorrono, tra gli altri, due deputati  comunali: tali Vische e Guerra (specie di assessori dell'epoca). I deputati chiesero che le capre fossero consegnate a loro e si resero garanti con un’obbligazione pari al valore delle capre sequestrate, equivalente a L. milanesi 275. Il Vischi “dichiarò che la custode delle capre invenzionate era certa donna sornomata Nina, dovea essere facile il rinvenirla per poi avere dalla medesima le notizie dei proprietari delle invenzionate capre”. In seguito i deputati dichiararono che le capre, ritornate “a piacere” alle case dei proprietari, furono da questi ultimi vendute o “mangiate”. Fu parimenti impossibile “per quanto avevano indagato” individuare la “Nina” e così “essendo ignoti i contravventori, ne scorgendo come possano venire scoperti” la Pretura di Menaggio, aveva deliberato “non potersi ulteriormente procedere nell’inquisizione”. L’Ispettore dei Boschi reclamò contro la Pretura, ma senza esito. (Archivio di stato di Milano, agricoltura p.m. c.82).

(2) 
L. Castelletti, S. Motella De Carlo /a cura di) Il fuoco e la montagna. Archeologia del paesaggio dal Neolitico all'Età moderna in alta Val Cavargna. Como, Università dell'Insubria, 2012

(3)
G. Grandi, Il travaglio del ferro in val Cavargna e dintorni: minière, forni, fucine, bosci e carbonaie : materiali per una storia delle antiche attività minerarie e sidurgiche nel Settecento e Ottocento, Cavargna : Associazione Amici di Cavargna, 2004




 

 

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