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L'ambigua cultura
del bosco
di
Michele Corti
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La
Foresta Umbra nel Gargano
L'ideologia
del bosco ha radici plurime che richiamano una ... selva di
simboli e di significati archetipici. Di seguito abbiamo preso in
considerazione alcuni aspetti che mettono in evidenza la sconcertante
ambivalenza dell'ideologia boschiva e forestalista, capaci di
ricollegarsi a valori che si collocano agli antipodi. Libertà e
oppressione, peccato e innocenza, razionalità e irrazionalismo,
individualismo e statalismo sono solo alcuni dei termini che
caratterizzano le idee che si sono ispirate al culto della foresta.
Come tutte le suggestioni ambigue, anche il richiamo apparentemente
innocente all'amore per il bosco è capace di suscitare un consenso
manipolato per finalità pericolose. Specie dove, come in Italia, una
cultura popolare del bosco e della natura non esiste ed esistono,
semmai, delle suggestioni letterarie di imprtazione e neo-pagane. Il pericolo, nella concretezza
dell'oggi, è quello che il vago ambientalismo, che si nutre di
stereotipi, come quelli forestalisti non verificati alla luce
dell'ecologia, venga sfruttato per legittimare
il progetto neoliberale di mercificazione e controllo di
estesi territori, attaverso la loro deantropizzazione e
deruralizzazione.
(30.03.19) Esiste
il bosco reale, come prodotto dell'attività umana, dell'interazione -
nella storia - tra fattori sociali e naturali, oggetto di evoluzione,
coltivazione e gestione e c'è il bosco come topos letterario, metafora,
simbolo di una condizione ideale "naturale", primigenia, che diventa proiezione di
ideologie di diverso tipo. Questi due piani, molto spesso, si sono
confusi tra loro. E continuano ad essere confusi. Il perché di
questa confusione, pur nel contesto della civiltà moderna della
proclamata razionalità scientifica, è evidentemente legato a fattori
sociali e politici. L'ambiente, la natura, il clima sono diventati
terreno di scontro politico, arma con la quale si affermano gli
interessi di gruppi sociali a scapito di altri, dove passa il confronto
tra elite e popolo, che la prima, ovviamente, ha interesse a mascherare,
forte della sua egemonia culturale e mediatica.
La natura, sia quella
"incontaminata" che quella pesantemente manipolata, è diventata un
elemento interno al mercato, oggetto di brevetto e finanziarizzazione.
Pertanto oggi si parla di biocapitalismo, di biopolitica, di bioetica.
Una dimensione naturale staccata dall'economia, dalla politica non
esiste. Per farlo capire è necessario decostruire i miti ambientalisti.
La
Foresta (sic) demianiale del Monte Limbara
in Sardegna. Ma è macchia mediterranea, paesaggio pastorale prodotto
del pascolo e dell'incendio controllato appiccato dai pastori
Di recente abbiamo commentato l'esultanza dei media di regime per il
continuo espandersi della superficie "forestale" a scapito di quella
agricola (vai a vedere). Tale esultanza prescinde dalla reale condizione ecologica
della "foresta" ma ripropone la secolare polemica (moralistica e
strumentale) delle classi dominanti contro i contadini, supposti
colpevoli della storica riduzione del manto forestale italiano, e gli
altrettanto secolari auspici al recupero di una ideale condizione
di forestazione. Come abbiamo avuto modo più volte di osservare, gli
estesi disboscamenti tra Sette e Ottocento furono opera di speculatori
borghesi. Quando i contadini procedettero a disboscare lo fecero sotto
la pressione costrittiva dello stato e del mercato (tasse, iniqui rapporti di
scambio).
In realtà chiamare "foreste" le formazioni a copertura
arboreo-arbustiva che caratterizzano buona parte delle superfici
italiane è un (ridicolo) esercizio ideologico e letterario. La
densa, continua copertura arborea che caratterizza le estese
formazioni, per di più ad elevata maturità strutturale, dei paesi
a nord delle Alpi (quando non è applicata la selvicoltura industriale),
non è "naturale" in ambiente mediterraneo. Anche sulle Alpi, dove la
piovosità è elevata, le condizioni orografiche (valli strette e
dirupate) impediscono spesso la formazione delle foreste. Non a caso,
in Italia, le foreste sono rare e hanno un nome: "Foresta del
Cansiglio", "Foresta umbra", "Foresta di Vallombrosa", "Foreste
casentinesi". Sono le eccezioni alla regola. In Italia vi sono boschi,
boscaglie, pinete, macchia mediterranea. Ma tutto quello che supera
qualche centinaio di ettari ed è ricoperto da alberi e arbusti, sia
pure radi, in Italia è "foresta". Voglio ma non posso, subalternità culturale ai modelli prestigiosi dell'Europa.
Insieme alla termininologia ("foresta" è parola di origine germanica)
sono state mutuati dall'ambiente culturale germanico anche elementi di
ideologia forestalista. Curiosa questa passione per le foreste e il
forestalismo in un paese si identifica nella luminosa civiltà
mediterranea di matrice greca e spregia le tetraggini teutoniche, che
si è identificata (e si identifica) nel "bel paesaggio" dei campi
coltivati, delle geometrie dei vigneti, con il bosco confinato sullo
sfondo. Quel paesaggio codificato nell'affresco allegorico del Buon governo del Lorenzettinel XIV
sec. Dovrebbe peraltro bastere il ricordo della terrificante sconfitta
delle legioni nella Foresta di Teotoburgo, nel 9. d.c., a indurre
una certa inquietudine in chi si proclama erede della romanità.
Bosco e foresta hanno rappresentato elementi distinti e contrapposti
mentre oggi vengono confusi in un'unica ambigua connotazione di
"naturalità ritrovata".
L'etimologia può però aiutare a capire gli schemi mentali di
rappresentazione del territorio e come e perché sono cambiati.
"Bosco" è parola di origine greca e ha significato di "pascolo",
coerentemente con il carattere rado delle formazioni arboreo-arbustive
mediterranee. I latini avevano diversi termini per indicare le
superfici arborate: silva, saltus, lucus. La silva, anche nel medioevo, è il
bosco coltivato, sottoposto a taglio regolare, ma anche il castagneto.
Tutt'oggi la selva è, nelle
lingue parlate locali, la selva castanile. Il saltus, invece, è il
territorio sfruttato per lo più a pascolo, caratterizzato da
copertura mista: erbacea, arbustiva, arborea. E' contrapposto all'ager, il territorio a campi
coltivati. Solo il lucus è
identificabile con la foresta, con formazioni arboree dense e allo
stato naturale. Il lucus
è il
bosco sacro che nella cultura e nella religione romana, dove ha
senz'altro
più spazio che in Grecia. Tanto è vero che il cristianesimo deve
imporre nel IV secolo con l'imperatore cristiano Teodosio,
l'abbattimento dei boschi sacri e il divieto di praticare riti intorno
agli alberi. Questi divieti andavano ovviamente contro anche alle
espressioni religiose celtiche.
L'immaginario
legato ai boschi e alla
natura è stato profondamente influenzato dalla mitologia greca, ripresa, sia pure in termini
estetizzanti, nel rinascimento. Lo sviluppo della civiltà greca
,centrata sulla polis, alla quale facevano da appendice i villaggi
rurali, la triade
frumento, vino, olio, con il paesaggio accuratemente sistemato e
fortemente antropizzato, ha relegato la dimensione boschiva su un piano
di disordine, ferinità, trasgressione, oscurità. Al bosco vennero
associati i culti legati alla fertilità, di matrice
preistorica, cui presidevevano inquietanti divinità di serie
B. Dioniso, le baccanti, i satiri rappresentano la dimensione
istintuale, la sfrenatezza, l'eccesso che si contrappone alla calma e
alla serenità apollinee. Ci vollero Freud e Nietzsche, molto
tempo dopo, alla fine di un ciclo della civiltà occidentale a
rivalutare la dimensione dionisiaca.
Con
l'avvento del cristianesimo anche nelle campagne (dopo
diversi secoli dalla sua affermazione nelle città), i contadini e le
contadine furono costretti a celebrare i loro
riti di fertilità, di matrice pagana, nel profondo dei boschi. Con la
minore tolleranza della chiesa cattolica tridentina rispetto a
quella medievale, la chiesa fu pronta a collegare queste trasgressioni
alla mitologia greca delle divinità boschive, previa assimilazione di
Pan e dei satiri ai diavoli. L'ambiguità inquietante viene sostituita
dalla demonizzazione: il bosco diventa occasione di tentazione, è
popolato da
presenze malvagie. Tutti gli esseri fatati dei boschi, derivati dalle
figure delle antiche mitologie, una volta elaborati dal folklore,
assumono, sotto l'influsso del cattolicesimo post-tridentino, un
connotato malvagio, negativo. E lo manterranno a lungo. Il bosco,
analogamente al deserto, era
già stato in precedenza assunto dal cristianesimo quale luogo di
tentazione dove l'eremita si metteva alla prova. Francesco costituisce
un caso a sé.
La demonizzazione del bosco è però moderna ed è frutto dei secoli bui della
modernità, quelli della caccia alle streghe che si inserisce in un
quadro di rigorismo (sia da parte cattolica che protestante)
finalizzato a un maggior controllo sociale, a favorire
l'assoggettamento alla disciplina del lavoro industriale, a
comprimere i consumi e a imporre una complessiva morigeratezza (meno giorni festivi, meno feste, meno bevande
alcooliche, sostituite da the e caffè che tengono svegli sul lavoro e
ingrossavano i profitti monopolistici delle compagnie coloniali).
Il bosco, associato con presenze inquietanti e a riti demoniaci, era
anche il rifugio di marginali, banditi (messi al bando, esiliati) e ribelli, il
teatro d'operazioni di bracconieri e cacciatori. Queste figure, ma
anche quelle più "professionali" che operavano nel bosco: i boscaioli e
i carbonai, che per mesi si sottraevano dal controllo sociale del
villaggio e del prete, erano, nel loro insieme, considerate con un certo
sospetto. Frequentare i boschi era pericoloso, fisicamente e moralmente
e le "paure", le storie terrificanti che si raccontavano nelle
veglie invernali nelle stalle, contribuivano a creare una sorta di tabù
("non mi portare nel bosco di sera, ho paura nel bosco
di sera").
Il processo di associazione di valenze negative alla realtà boschiva è
stato possibile in forza di un crescente distacco dell'esperienza
comune dalla fruizione del bosco. Sarebbe stato impensabile nell'alto
medioevo, quando il saltus era
tornato a occupare le terre già dissodate e coltivate in epoca romana,
quando l'incolto, il bosco fornivano abbondanti risorse che
consentivano alla popolazione contadina di fruire di una quantità di
carne elevata, tanto che solo nella seconda metà del Novecento si
tornerà a quei livelli di consumo. I boschi, ampiamente diffusi anche
in pianura, offrivano non solo una grande quantità di ghiande e faggiole
per pascere i maiali ma anche abbondante selvaggina.
Tutto cambia
verso la fine del primo millenio, quando la ripresa dei commerci, delle
città, dell'agricoltura iniziarono a far sentire la loro pressione sui
boschi. Le città necessitavano di legname da costruzione, le terre
tendevano ad espandersi a danno dell'incolto. Signori e città misero le
mani sui boschi decretando la fine dei diritti d'uso di cui avevano
sinora goduto le comunità contadine (pascolo, legnatico, focatico,
raccolta di strame, caccia). Si introdussero divieti e pesanti pene per
i trasgressori. Nascevano le riserve, con significato al tempo stesso
forestale e faunistico (come gli attuali parchi naturali da loro
derivati), che poi non erano altro che "foreste", ovvero boschi chiusi,
riservati, secondo l'originaria etimologia germanica custoditi dal forestarius del latino medioevale,
il guardiano al servizio del signore (poi dello stato, che ai signori è
subentrato).
In italiano era derivata (dal latino medioevale) anche un
altra voce utilizzata per definire il bosco chiuso: "gaggio" (il "boscho ingazato"
degli antichi statuti); essa è di origine longobarda e caratterizza
molti toponimi in Lombardia e non solo.
I gaggi, indicati anche
come "boschi tensi" (nel significato di chiusi, soggetta a rigida
regolamentazione della fruizione, anche da parte dei membri della
comunità) erano stabiliti anche nell'ambito delle libere comunità che,
nelle Alpi, si erano sottratte al dominio feudale. In questo caso la
creazione di boschi rigidamente regolamentati aveva il significato di
garantire la protezione dei villaggi (dalle frane e dalle slavine) o
una riserva
strategica di legname da opera.
Se, per i poteri cittadini, la "protezione del bosco" rappresentava una
esigenza di ordine economico, per i signori proprietari dei boschi essa
era anche una esigenza simbolica: essi dovevano affermare la
superiorità sociale aristocratica attraverso i riti della caccia, che
perpetuavano quelle virtù guerriere che avevano rappresentato
la legittimazione del potere feudale. Vi era, ovviamente, una
contraddizione tra la cultura aristocratica di ascendenza barbarica e
quella cristiana, che affermava valori di mansuetudine e che alla
cultura venatoria e del consumo di carne contrapponeva la civiltà
dell'olio, della vite, del pane, tutti elementi che il cristianesimo
erano indispensabili per le pratiche liturgiche e che costringevano i
popoli del nord a importare, a caro prezzo, pessimo olio d'oliva.
Come nella Grecia classica, anche in Europa due stratificazioni
culturali sono costrette a convivere, con la differenza che - nel
medioevo cristiano - la cultura nordica era quella dei dominatori.
La città ideale del Rinascimento interpretata da
Piero della Francesca: il trionfo delle rigorose geometrie e
dell'impronta di un progetto intellettuale che plasma la materia
Nello sviluppo della civiltà europea questa contraddizione tenderà a
rimanere presente anche se , con il rinascimento, l'illuminismo, il
neoclassicismo, lungo un periodo che va dalla fine del medioevo
all'inizio del XIX secolo, il riferimento alla cultura greca, alla
civiltà urbana, alla razionalità tenterà a prevalere e la cultura della
natura e del bosco sarà oggetto da una parte di giochi letterari
(l'arcadia), dall'altra di razionalizzazione scientifica, con la nascita
della scienza forestale e delle scuole forestali. Il bosco
"illuminista" diventa una piantagione artificiale con rigorosi calcoli
che definiscono gli impianti, le riprese, i turni.
La società europea
occidentale stava conoscendo una grave crisi energetica, il bosco era
visto principalmente come un potenziale fornitore di energia; al più
gli si riconosceva una funzione protettiva, ma sempre nella logica
economica: la compromissione dell'assetto idro-geologico avrebbe
comportato danni alle strutture produttive e alle infrastrutture, la
riduzione della copertura boschiva, determinando paventati cambiamenti
climatici (nihil novum...) avrebbe danneggiato le attività economiche.
Ogni altro valore associato al bosco era ignorato.
La reazione romantica
La reazione
romantica, al razionalismo, all'illuminismo, al nascente
industrialismo si è manifestata in
forme artistiche, letterarie, filosofiche. La
circolazione delle opere romantiche (si pensi ad alcuni
romanzi storici o alle fiabe del fratelli Grimm) non fu limitata elle
elite ma raggiunse strati popolari). Ha
rappresentato la principale corrente culturale dell'Ottocento,
influendo profondamente sul costume, sui rapporti sociali e famigliari
e lasciando una duratura influenza sulla cultura occidentale e sulle
singole culture nazionali. La reazione al culto della razionalità,
della regolarità di forme, dell'artificioso, del luminoso, indusse i
romantici a costruire un'immagine della natura funzionale al
ribaltamento di valori da essi auspicato. La natura
romantica è spesso tetra se non lugubre, minacciosa, lunare. Il bosco
con i grandi alberi contorti è lo sfondo ideale della sensibilità
romantica. I manufatti presenti nella scena sono spesso rovine.
Troviamo tutti questi temi nel massimo pittore romantico tedesco Caspar
David Friedrich (sotto un paesaggio).
Il bosco, la foresta, non erano solo soggetto dei
pittori ma, esercitando influenze ancora profonde, divennero lo scenario della
trasposizione operistica wagneriana delle saghe nibelungiche. Il
romanticismo esaltando i peculiari caratteri nazionali germanici contro
il cosmopolitismo settecentesco, ma anche contro l'imperialismo
napoleonico, rappresentò un modello per la rinascita dello
spirito nazionale anche di altri popoli.
Sigfrido nella foresta
L'econazionalismo germanico
L'esaltazione degli antichi germani, che seppero sconfiggere le legioni
romane nella foresta di Teotoburgo, diede vita a un "econazionalismo"
strettamente intrecciato al culto della natura, della foresta, degli
alberi.
Il ciclopico monumento ad Arminio domina
sulle foreste
Sorto come reazione all'invasione napoleonica, il nazionalismo tedesco
non ebbe certo all'origine quei caratteri aggressivi e
imperialistici che assumerà con il secondo e il terzo reich. Filoni
nazionalistici seppero, al di là del militarismo e del della retorica
nazionalista guglielmina, che si espresse con grandiosi monumenti,
mantenere questo nesso tra libertà e identità nazionale. Alla luce, di
queste ben diverse accezioni di nazionalismo va letta anche la
relazione tra nazionalismo tedesco e foresta.
Georg Friedrich Kesting: volontari per la libertà
anti-napoleonici (frei-korps)
Alla fine del XIX sec. da questo humus si formò il movimento
Wandervögel (uccello vagabondo), un movimento di studenti liceali e
universitari di ispirazione neo-romantica e protoecologista che
praticava forme "controculturali": naturismo, vegetarianesimo,
cure naturali, omosessualismo, organizzando (per primi e mezzo secolo prima degli hippies) ostelli,
campeggi, concerti all'aperto, raduni nei boschi in nome della libertà
della natura e della rottura delle convenzioni della società borghese
(nella sua versione guglielmina particolarmente oppressiva e
autoritaria).
I wandervögel
non furono l'unico gruppo protecologista della Germania dei primi
decenni del XX sec. Nel periodo successivo alla prima guerra mondiale,
prima e durante la repubblica di Weimar, fiorirono, nella grave crisi
economica, sociale e politica che travagliava la Germania, vari gruppi
econazionalisti. Difficile da comprendere, se si è intrappolati in
certi schemi ("progressismo", "reazionarismo"), come in questi gruppi
convivessero impulsi nazionalisti, ecologisti, libertari.
Nella Germania,
prima dell'avvento del potere del partito nazionalsocialista (NSDAP),
erano comuni i raduni nelle foreste dei vari gruppi paramilitari
nazionalisti ma vi erano anche gruppi propriamente ecologisti come la
Lega per la protezione delle foreste che così sollecitava
l'arruolamento di volontari: In ogni petto tedesco la foresta tedesca
trema con le sue caverne e forre, rocce e massi, acque e venti,
leggende e racconti fatati, con le sue canzoni e melodie e risveglia un
potente desiderio per la patria: in tutte le anime tedesche la
foresta tedesca vive e tesse con la sua profondità e respiro, la
sua tranquillità e la sua forza, la sua potenza e dignità, la sua
ricchezza e la sua bellezza – è la fonte dell’interiorità tedesca,
dell’anima tedesca, della libertà tedesca.
Fatto sta che ai wandervögel si devono alcune
"innovazioni" che saranno adottate dal nazionalsocialismo: la camicia
bruna e il saluto sieg heil.
Il movimento wandervögel, come gli scout e tutti
i gruppi giovanili, fu sciolto nel 1933 ma migliaia di membri e di
quadri del NSDAP provenivano dai wandervögel. La
sacra foresta del popolo tedesco rendeva emblematico il rapporto tra
stirpe e territorio e segnava le distanze dagli ebrei, popolo senza
territorio e originario delle steppe.
Una emblematica realizzazione del 1938, scoperta solo
nel 1992
Non si può però fingere di ignorare che, all'interno del regime, vi fosse
una forte corrente ecologista capeggiata da Richard Walther Darré
che, per tutta una fase politica godette di importanti posizioni (fu
ministro dell'agricoltura e delle foreste) . La corrente "verde" del
nazionalsocialismo promosse l'agricoltura biologica e biodinamica, la
protezione delle foreste e della fauna dotando la Germania della prima
legge al mondo sul benessere animale e proibendo, ancora una volta prima nazione al
mondo, nel 1936, la caccia del lupo. Anche in questo caso decenni prima del mondo anglosassone.
La natura e la
foresta nell'ideologia americana
Negli Stati Uniti, l'assenza di
testimonianze storiche e di monumenti del passato, spinse a utilizzare i
grandiosi paesaggi naturali quali elementi dell'identità americana in
stretta relazione con il mito della frontiera. La pittura romantica
ebbe un importante rappresentante in Thomas Cole (1801-1848) che, nato
nell'Inghilterra settentrionale, da ragazzo aveva conosciuto gli
effetti dell'industrializzazione. Fondatore della scuola di pittura
paesaggistica americana, Cole è anche considerato un ispiratore, con la
sua pittura, del movimento conservazionista.
Thomas Cole: Casa
nel bosco
Più diretta
fu l'influenza sul movimento conservazionista, ed ecologista in generale,
dello scrittore e pensatore Henry Thoreau (1817-1862), le cui opere principali: Walden, ovvero la vita nei boschi,
e Disobbedienza civile,
rimarcano l'esistenza di un filone di forestalismo "libertario" e
individualista coerente con quella rappresentazione di uno spirito
americano libero dei condizionamenti sociali della vecchia Europa
(almeno in apparenza). L'opera Walden
è frutto dell'esperienza di "vita nei boschi" dell'autore che trascorse,
in quasi eremitaggio, due
anni in una casa isolata nel bosco alla ricerca dell'essenzialità.
Thoreau fu tra i primi a sostenere che la conservazione della wilderness
è necessaria (per motivi spirituali) per il genere umano. Scrisse
anche opere minori dedicate a I
boschi del Maine e Cape Cod,
un luogo dell’anima americana. Esse influenzarono non poco John Muir
(fondatore del Sierra Club e fautore dei primi parchi nazionali
americani) e il presidente Theodore Roosevelt, cui si deve la
creazione - nei primi anni del Novecento, di una vasta rete di aree
protette.
Forestalismo all'italiana
Il
forestalismo in Italia è forestalismo
d'importazione. Nasce in Toscana, nel clima di assolutismo illuminato
con la dinastia dei Lorena e le prime accademie e nel XIX sec. assorbe
l'influenza del forestalismo francese (che attribuiva ai montanari ogni
sorta di nefandezze) e poi di quello "scientifico" di area tedesca
modellato sulle gestioni intensive e i popolamenti di conifere. Va
subito detto, però, che quello fascista non rappresenta una emulazione
del forestaliemo
nazional-socialista. Il regime, infatti, sin dal 1923, emanò la nuova
legge
forestale, il d.l. 30.12.1923 nº 3267 ( "Riordinamento e riforma
della legislazione in materia di boschi e di terreni montani",
ricordata come "Legge Serpieri" in quanto opera di Arrigo Serpieri, il
valente tecnico
che legò il suo nome alla bonifica integrale e che ricoprì anche la
carica di sottosegretario all'agricoltura. La Legge Serpieri era
ispirata a criteri tecnocratici e di dirigismo statale e restò in
vigore sino al 1952 quando fu aggiornata, senza sostanziali modifiche.
La politica forestale italiana fascista è stata
caratterizzata da un’accentuazione di una forte presenza pubblica in
tutto il settore forestale,
anche per gli aspetti operativi e tecnici. Da questo punto di vista
vennero istituite l'ASFD, l'azienda
di stato per le foreste demaniali e la Milizia forestale. Quest'ultima
afferiva alla Milizia volontaria per
la sicurezza nazionale ovvero alla milizia di partito. I
forestali erano a tutti gli effetti camicie nere e, ovviamente,
dovevanmo essere membri del PNF. I diritti di proprietà venivano
limitati attraverso il vincolo idrogeologico e veniva resa
obbligatoria la predisposizione dei piani economici (o di assestamento
forestale) per la
gestione dei boschi pubblici, veniva incentivata la formazione di
aziende speciali e consorzi forestali. Lo stato, inoltre, si assumeva
l'onere della gestione diretta degli interventi di sistemazione
idraulica forestale dei bacini montani. Il rimboschimento da parte dei
privati veniva incentivato attraverso l'esenzione dell'imposta
fondiaria, la direzione tecnica gratuita, la fornitura delle piantine
da mettere a dimora.
Nel 1923
veniva resa obbligatoria la Giornata dell'albero, che era stata
istituita all'inizio del secolo ma che prevedeva solo delle circolari
ministeriali che invitavano le scuole a celebrarla. La Giornata
dell'albero (Arbor day) era stata istituita da tempo in diversi paesi e aveva preso
avvio negli Stati Uniti, nel Nebraska nel 1872 sull'onda di un
ecologismo libertario alla Thoreau che nulla aveva a che fare con
l'econazionalismo germanico e le saghe nibelungiche.
Non vi era quindi nessuna
particolare ispirazione ideologica dietro l'interesse del fascismo per
la "rinascita forestale" se non l'idea che, solo con un intervento
deciso dello stato, e con un forte apparato autoritario, sarebbe stato
possibile compensare i danni del depauperamento del patrimonio boschivo
nazionale. In realtà il fratello minore del duce, Arnaldo che tra le
varie cariche ricopriva quella di presidente del Comitato nazionale
forestale e che promosse
la Giornata (obbligatoria) dell'albero, avrebbe voluto di più, non era
interessato solo agli aspetti economici ed ecologici del rimboschimento
ma desiderava inculcare negli italiani il culto dell'albero.
Il rito del Màs, l'albero del primo maggio a Ponte Nossa in val Seriana
In realtà il culto dell'albero, a livello etnografico, era ed è
tutt'ora praticato in Italia, da nord a sud. Si tratta di un culto
celebrato il 1° maggio in coincidenza con l'antichissima festa della
stagione luminososa, della fertilità e dell'amore (beltane per i
celti). Nella festa si ravvisano tanti significati simbolici;
innanzitutto il ciclo della vita e della morte (l'albero, dopo essere
stato tagliato e portato in paese viene riportato su una cima montuosa
e alimenta un falò). L'albero era scelto molto alto e diritto (evidente
la simbologia fallica). In questa sede ci preme mettere in evidenza,
però, come la "festa dell'albero" fosse intesa a livello popolare con il
taglio dell'albero, che poi diveniva anche "albero della cuccagna",
caricato di ogni ben di dio a propiziazione di fertilità e abbondanza
(magia simpatica).
Dobbiamo concludere che per il contadino l'unico
albero buono è quello tagliato? Affatto. Il contadino quando poteva era lieto di piantare intorno alla
casa (anche alle dimore temporanee) alberi da frutta utili che
fornissero ombra e frescura, frutti secchi e fresci, rami da
somministrare come foraggio, prodotti per la fitoterapia
contadina. I nuovi alberi erano piantati in occasione della nascita dei
figli. Questa era la "festa dell'albero" contadina. Quella che
celebrano tutt'oggi Legambiente o Casa Pound sono solo la
scimmiottatura delle tante americanate.
I neofascisti di
Casa Pound sono assidui nel celebrare la festa dell'albero
attraverso il gruppo
ecofascista Azione FCA foresta che avanza.
Il
fascismo, lungi da incutere negli italiani il "culto dell'albero" li
allontanò ancora di più dal bosco. Il secolare processo di esproprio
delle comunità montane delle loro risorse boschive che per intervento
dello stato furono privatizzate o passarono da proprietà collettiva a
proprieta pubblica comunale (poi largamente finita sotto il diretto
controllo dello stato centrale), ha fatto si che il montanaro
percepisse il bosco come qualcosa diventa estranea e ostile, che non
poteva più utilizzare, che erano i tecnoburocrati a gestire a tavolino
sulla base di pregiudizi tecnicoscientifici spesso rivelatisi fallaci,
che gli "mangiava" il pascolo. In questo contesto tagliare una pianta
"di sfroso" o praticare il pascolo dove era proibito dalle autorità era
una forma di resistenza sociale e di trasgressione sanzionata
positivamente dalla comunità locale dove difficilmente qualcuno faceva
la spia.
In definitiva il forestalismo fascista si
inserì nel filone del forestalismo illuminista-giacobino o, se
vogliamo, napoleonico, in cui il razionalismo tecnico-scientifico e
l'intervento dall'alto dello stato si coniugano con una buona dose di
tecnicismo e militarismo (e di disprezzo dei contadini e
montanari).
I forestali erano entusiasticamente fascisti perché il fascismo
ha conferito loro importanza e perché il forestalismo ha profonde
radici tecnocratiche e poliziesche (il forestarius nasce come sgherro a
difesa delle riserve dei signorotti medievali) che risultano empatiche
con il fascismo. Comprensibile che i forestali ringraziassero il duce
in vari modi. Sotto la gigantesca scritta "dux" sul monte Giano nel
reatino, scritta visibile sino a Roma.
Dopo un
incendio (antifascista?) che ha danneggiato la scritta , duecento
volontari di Casa Pound hanno provveduto a ripristinarla. Il rettangolo
sotto la scritta è stato realizzato negli anni '50 per rendere meno
evidente la scritta senza cancellarla. La duratura e reciproca
corrispondenza di amorosi sensi tra fascismo e corpo forestale è
sopravvissuta alla sconfitta e al dopoguerra. Nel 1970, nella notte tra
il 7 e l'8 dicembre 200 allievi guardie forestali della scuola di
Cittaducale, la stessa della scritta sul monte Giano, erano in marcia
sulla sede della Rai che avrebbero dovuto occupare per trasmettere un
proclama golpista del comandante principe Junio Valerio Borghese (X
Mas). La partecipazione del Corpo forestale è tutt'oggi una delle poche
cose accertate del mancato golpe che è passato alla storia anche come
"golpe dei forestali". Tra i partiti quello che aveva particolarmente
a cuore il Corpo era il Msi, poi il referente politico è diventato il
WWF, potente lobby globale che nasce per impulso non proprio "democratrico" di teste coronate, petrolieri, servizi britannici.
Alla
scuola di Cittaducale i rituali di un corpo che aveva funzioni tecniche
e che ha saputo rendersi utile alla montagna, anche quando aveva
funzioni repressive, ma che ha preferito le belle uniformi e giocare ai
soldatini (ma anche rischiare di diventare la polizia di partito dei
verdi arruolando fanatici animal-ambientalisti), salvo poi lamentarsi
se fatto confluire in un vero corpo militare dei carabinieri
La nuova idolatria boschiva
Abbiamo
visto come in Germania l'ecologismo e il culto della foresta siano un
tutt'uno con il nazionalismo, indipendentemente dalle forme libertarie
o autoritarie e imperialiste che esso ha poi storicamente assunto. A
complicare le cose c'è l'interesse del nazional-socialismo, quantomeno
di una sua componente, per l'agricoltura biologica, il vegetarianesimo,
l'animalismo, le cure "naturali" ... il culto dell'albero e della
foresta, tutti aspetti che oggi vengono ascritti all'ecologismo
progressista e sanzionati positivamente dal mainstream
neoliberale. Non c'è dubbio che il
capitalismo neoliberale si è impossessato delle tematiche ecologiste
per piegarle a suo vantaggio, per imporre un biocapitalismo in cui,
sotto la finzione della tutela della natura, della biodiversità, del
clima, si trasformi ancora di più il vivente in merce, in strumento di
profitti finanziari.
L'aspetto più preoccupamte è che, grazie ad una
macchina del consenso che ha assoldato le ong ambientaliste, nel mentre
si esaltano, si espandono i cosiddetti diritti dell'individuo,
concepito astrattamente e falsamente come monade indipendente dalle
relazioni sociali, si erodono quei valori di rispetto dell'uomo
concreto, inserito in reti di
relazioni e gruppi sociali che con fatica
il cristianesimo era riuscito ad imporre. Non meraviglia pertanto che,
nell'anestetizzazione totale da nuovo oppio del popolo (ambientalismo),
milioni
di persone vengano cacciate dalle foreste indiane, dalle loro case e
gettate nella miseria e
nella marginalità per far spazio ai "parchi della tigre" (è già
successo e succederà ancora tra pochi mesi, a causa di una sentenza
della corte suprema indiana influenzata dalle lobby globali
conservazioniste)(vai a vedere).
Ecco, allora,
che dietro tendenze apparentemente innocue (l'animalismo,
i culti neo-pagani, l'idolatria per la wilderness, la "foresta" , il
lupo) si nasconde non tanto una giusta e sacrosanta correzione
dell'antropocentrismo
deviato della modernità e di un certo cristianesimo, ma un biocentrismo unilaterale e pericoloso, che legittima
il potere (saldamente neoliberale) ad
anteporre i valori pseudoecologici a quelli umani, affermando un antiumanesimo scivoloso.
Che porta a alpestare i
diritti umani fondamentali (individuali e collettivi), ad annullare il
principio dell'uguale valore degli esseri umani in quanto figli di Dio,
a ripristinare, nel contesto di una specie umana "nociva" a Gaia, la distinzione tra umani superiori e semi-animali.
Non solo l'ambientalismo, additando l'umanità in generale quale
colpevole di ecocidio, mette sullo stesso piano la responsabilità del
campesino che fatica a sopravvivere e di
George Soros, ma di fatto affermando più o meno esplicitamente la
superiorità antropologica dell'elite, apre le porte a "soluzioni
finali", atte a sfoltire l'eccessivo numero di (sub)umani; soluzioni
non così eclatanti come le camere a gas ma più efficaci, preparate
contrabbandando per libertà l'eugenetica, la manipolazione del genoma
umano, l'aborto "post-natale", la sterilizzazione.
Non bastassero questi strumenti, attraverso il controllo della
produzione e distribuzione del cibo (già fortemente controllato da un
pugno di multinazionali), l'aumento della mortalità provocato dalla
concentrazione della popolazione in megalopoli, la scarsità di acqua
pura, l'assunzione di sostanze genotossiche e sterilizzanti attraverso
aria, acqua e cibo inquinati, la diffusione consapevole di malattie, si
prepara l'attuazione di quei programmi malthusiani che, dall'origine,
rappresentano la fissazione dell'ambientalismo che ha già sacrificato
molte vite umane (evidentemente valutate poca cosa) in India e in
Africa per la conservazione della fauna selvatica.
Intanto, sfruttando
la dabbenaggine dei plagiati dall'oppio del popolo ambientalista, si
esalta, e si promuove attivamente, la wildering, si auspica l'istituzione
di enormi aree protette da "liberare" dalla presenza umana. Non solo in
Africa, anche in Europa. E mentre qui si piantano alberi, quando ce ne
sono troppi, e si impedisce di fermare l'avanzata dei boschi , gli
stessi burattinai (la classe capitalistica neoliberale
transnazionale) continuano a disboscare le grandi e vere
foreste della Terra.
Abbiamo potuto constatare come l'ideologia del bosco nasconda,
dietro il buonismo verde, la più inquitante ambiguità ma anche motivi palesemente autoritari e inquietanti. Su questa
ambiguità, sull'intreccio di motivi che si sono intrecciati nel corso
della storia, sull'appello a un richiamo emotivo e ancestrale fa leva
l'attuale ideologia dell'idolatria della natura e della foresta.
Simbolo di vita e di morte, di peccato e di innocenza, di autoritarismo
e di libertà, di razionalità scientifica e di fantasie soprannaturali
la foresta, come gli animali "carismatici" (il lupo e l'orso) diventa
uno strumento ideologico potente, proprio per la sua profonda
ambiguità, quando è manovrato da chi detiene l'egemomia culturale ed ha
la forza di trasformare l'ambiguità e la contraddizione in
fascinazione. Operazione particolarmente facile in Italia dove una
cultura popolare dell'albero e del bosco, a differenza della Germania
ma anche di altri paesi, non esiste. A chi difende l'uomo, la montagna
dell'uomo, i diritti
popolari, il compito - non facile - della decostruzione controegemonica
delle suggestioni nefaste
dell'ambientalismo neoliberale.
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Ambiente
Idolatria
boschiva: cosa c'è dietro?
(24.03.19) La superficie forestale ha superato nel 2018 quella
agricola, rappresenta il 40% del territorio nazionale contro
l'11% del 1950. L'Italia à dunque un paese ricco di boschi (di
che qualità?) e gli ambientalisti da salotto (ma anche tanti esperti
con il paraocchi) giubilano. leggi
tutto
Ghiacciai
alpini inquinati dai pesticidi
(17.03.19) I risultati di un gruppo di ricerca
dell'Università
Bicocca, ricavati dallo studio delle acque di fusione di sei ghiacciai
alpini, mettono in evidenza la gravità del fenomeno. e
dovrebbero far riflettere chi ha fiducia nell'ambientalismo neoliberale
che fa credere che creando i parchi e reintroducendo il lupo si possa
proteggere e ricreare una natura "incontaminata".
Ambientalismo,
neocolonialismo, capitalismo: violenza ed ecoingiustizia contro gli
ultimi
(23.02.19) La gestione delle aree protette nei paesi ex-coloniali
rappresenta l'ambito nel quale è più evidente la continuità con il
vecchio colonialismo. In nome della tutela della natura le grandi
organizzazioni ambientalistiche gestiscono floridi business e non hanno
esitato a scacciare con l'inganno, a volte anche con la violenza,
milioni di persone dalle loro sedi
ancestrali.
Il
lupo riduce la biodiversità alpina
(29.12.18)
Materiali per un manifesto pro pastoralismo, contro la diffusione del
lupo sulle
Alpi
Le
radici storiche e ideologiche del beceroanimalismo
(09.12.18) L'Italia le circostanze
storico-sociali hanno prodotto
una cultura fortemente antirurale lontana anche dalla dimensione
naturale concreta. Nella realtà contemporanea su questo sfondo si è
sviluppato un animalismo ben poco ecologico, molto ideologico che
sconfina nel culto pagano e che reitera i cliché anticontadini
Animalismo,
biocapitalismo, ecototalitarismo
(30.06.15) Proseguiamo
la riflessione sul biocapitalismo e le ideologie ambientaliste
allargando la riflessione all'animalismo che in modo più esplicito e
violento nega il valore della vita umana. Esso si presenta come un
perfetto strumento per legittimare i paradigmi del nuovo biocapitalismo
in cui l'uomo diventa una merce da fabbricare e la vita umana può
essere rliminata senza particolari scrupoli (come e peggio che nei Gulag e nei Lager)
Gli
orsi sparigliano politica e istituzioni
(01.09.14)
Le destre cavalcano l'animalismo ma rischiano di scottarsi (loro e
la sinistra) La gestione degli orsi trentini è scappata di mano.
Il conflitto sociale, ideologico, territoriale innescato dall'aver
sovraccaricato Life Ursus di valenze di ogni tipo impatta in modo
imprevedibile sulla politica
L'imbroglio
ecologico (IV e ultima parte)
(09.12.13) Nella
storia di Legambiente si rispecchia un ambientalismo di regime,
apparato di controllo sociale e di "acculturazione" funzionale
alla greed economy turbocapitalista. Con un "pensiero
ecologico" debole appiattito sulla modernità e l'ideologia
scientista, tecnocratica. Centralismo comunista accoppiato con i
meccanismi delle corporation. Ma il dissenso cresce.
L'imbroglio
ecologico (parte III)
(02.12.2013) Dalla
critica al capitalismo della prima ecologia politica alla
partecipazione all'affarismo della green economy. L'ambientalismo, nel
solco del progressismo illuminista, come supporto ideologico e
cosmetico al biocapitalismo dello sfruttamento integrale
L'imbroglio
ecologico (parte II)
(16.11.2013) La
nascita dell'ambientalismo come movimento sociale negli anni '80. I
condizionamenti sulla nascita del movimento ambientalista del travaso
dell' "eccesso di militanza" dalla "sinistra rivoluzionaria" e
dell'egemonia culturale del PCI. La divaricazione tra localismo e
ambientalismo quale occasione mancata. La necessità di andare oltre la
sinistra (e la destra) per recuperare spazi di autonomia sociale
L'imbroglio
ecologico (ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali nell'era del
capitalismo neoliberista)(I)
(07.11.2013) Oggi
l' ambientalismo è la proiezione della Green economy capitalista e i
movimenti devono imboccare con coraggio nuove strade, oltre la sinistra
e la destra e oltre l'ambientalismo per una nuova autonomia dei
soggetti e delle comunità popolari. L'imbroglio ecologico è finito
perché il ruolo dell'ambientalismo istituzionale è palesemente di
controllo sociale. Prima parte di un ampio contributo che ripercorre la
storia dei rapporti tra ambientalismo, sinistra, capitalismo e
movimenti sociali dai primordi del movimento ambientalista ad
oggi.
Per
una gestione comunitaria delle risorse e dei problemi ambientali (IV)
(08.01.13) Attorno
ai problemi, dei rischi per la salute legati alla nocività ambientale e
alla volontà di gestire in positivo le risorse territoriali sta
crescendo nel mondo un movimento post-ambientalista.
Dalla
tecnocrazia alla scienza comunitaria (III)
(02.01.13) La
tecnocrazia ha imposto un modello di scientificizzazione della politica
che svuota la democrazia. Si è imposta anche nella forma di "ecopotere"
con il pretesto della "tutela della natura dall'uomo". La riduzione del
rischio presuppone però una strada diversa, quella di una scienza
civica e comunitaria e più ampi spazi di democrazia
Ripensare
la relazione tra la natura e la società (II)
(02.01.13) L'affermazione
di una gestione partecipata dei problemi ambientali e delle risorse è
indispensabile per fronteggiare crescenti rischi e la tendenza
tecnocratica a concentrare decisioni con pesanti implicazioni sociali
nelle mani di pochi e sulla base di incerti presupposti scientifici.
Per muoversi in questa direzione, però, è necessaria una profonda
revisione di alcuni fondamenti ideologici della modernità e della
"civiltà occidentale" e dello stesso ruolo della scienza.
Oltre
l'ambientalismo istituzionale crescono nuove reti (I)
(01.12.12)
Da una ventina di anni in qua sta emergendo un post-ecologismo "di
base" non ideologico che opera nella dimensione del monitoraggio
ambientale e della stessa gestione sostenibile e partecipata delle
risorse
Il
lupo riduce la biodiversità alpina
(29.12.18)
Materiali per un manifesto pro pastoralismo, contro la diffusione del
lupo sulle
Alpi
Le
radici storiche e ideologiche del beceroanimalismo
(09.12.18) L'Italia le circostanze
storico-sociali hanno prodotto
una cultura fortemente antirurale lontana anche dalla dimensione
naturale concreta. Nella realtà contemporanea su questo sfondo si è
sviluppato un animalismo ben poco ecologico, molto ideologico che
sconfina nel culto pagano e che reitera i cliché anticontadini
Animalismo,
biocapitalismo, ecototalitarismo
(30.06.15) Proseguiamo
la riflessione sul biocapitalismo e le ideologie ambientaliste
allargando la riflessione all'animalismo che in modo più esplicito e
violento nega il valore della vita umana. Esso si presenta come un
perfetto strumento per legittimare i paradigmi del nuovo biocapitalismo
in cui l'uomo diventa una merce da fabbricare e la vita umana può
essere rliminata senza particolari scrupoli (come e peggio che nei Gulag e nei Lager)
Gli
orsi sparigliano politica e istituzioni
(01.09.14)
Le destre cavalcano l'animalismo ma rischiano di scottarsi (loro e
la sinistra) La gestione degli orsi trentini è scappata di mano.
Il conflitto sociale, ideologico, territoriale innescato dall'aver
sovraccaricato Life Ursus di valenze di ogni tipo impatta in modo
imprevedibile sulla politica
L'imbroglio
ecologico (IV e ultima parte)
(09.12.13) Nella
storia di Legambiente si rispecchia un ambientalismo di regime,
apparato di controllo sociale e di "acculturazione" funzionale
alla greed economy turbocapitalista. Con un "pensiero
ecologico" debole appiattito sulla modernità e l'ideologia
scientista, tecnocratica. Centralismo comunista accoppiato con i
meccanismi delle corporation. Ma il dissenso cresce.
L'imbroglio
ecologico (parte III)
(02.12.2013) Dalla
critica al capitalismo della prima ecologia politica alla
partecipazione all'affarismo della green economy. L'ambientalismo, nel
solco del progressismo illuminista, come supporto ideologico e
cosmetico al biocapitalismo dello sfruttamento integrale
L'imbroglio
ecologico (parte II)
(16.11.2013) La
nascita dell'ambientalismo come movimento sociale negli anni '80. I
condizionamenti sulla nascita del movimento ambientalista del travaso
dell' "eccesso di militanza" dalla "sinistra rivoluzionaria" e
dell'egemonia culturale del PCI. La divaricazione tra localismo e
ambientalismo quale occasione mancata. La necessità di andare oltre la
sinistra (e la destra) per recuperare spazi di autonomia sociale
L'imbroglio
ecologico (ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali nell'era del
capitalismo neoliberista)(I)
(07.11.2013) Oggi
l' ambientalismo è la proiezione della Green economy capitalista e i
movimenti devono imboccare con coraggio nuove strade, oltre la sinistra
e la destra e oltre l'ambientalismo per una nuova autonomia dei
soggetti e delle comunità popolari. L'imbroglio ecologico è finito
perché il ruolo dell'ambientalismo istituzionale è palesemente di
controllo sociale. Prima parte di un ampio contributo che ripercorre la
storia dei rapporti tra ambientalismo, sinistra, capitalismo e
movimenti sociali dai primordi del movimento ambientalista ad
oggi.
Per
una gestione comunitaria delle risorse e dei problemi ambientali (IV)
(08.01.13) Attorno
ai problemi, dei rischi per la salute legati alla nocività ambientale e
alla volontà di gestire in positivo le risorse territoriali sta
crescendo nel mondo un movimento post-ambientalista.
Dalla
tecnocrazia alla scienza comunitaria (III)
(02.01.13) La
tecnocrazia ha imposto un modello di scientificizzazione della politica
che svuota la democrazia. Si è imposta anche nella forma di "ecopotere"
con il pretesto della "tutela della natura dall'uomo". La riduzione del
rischio presuppone però una strada diversa, quella di una scienza
civica e comunitaria e più ampi spazi di democrazia
Ripensare
la relazione tra la natura e la società (II)
(02.01.13) L'affermazione
di una gestione partecipata dei problemi ambientali e delle risorse è
indispensabile per fronteggiare crescenti rischi e la tendenza
tecnocratica a concentrare decisioni con pesanti implicazioni sociali
nelle mani di pochi e sulla base di incerti presupposti scientifici.
Per muoversi in questa direzione, però, è necessaria una profonda
revisione di alcuni fondamenti ideologici della modernità e della
"civiltà occidentale" e dello stesso ruolo della scienza.
Oltre
l'ambientalismo istituzionale crescono nuove reti (I)
(01.12.12)
Da una ventina di anni in qua sta emergendo un post-ecologismo "di
base" non ideologico che opera nella dimensione del monitoraggio
ambientale e della stessa gestione sostenibile e partecipata delle
risorse
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redazione@ruralpini.it
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