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Materiali
I bergamini e la transumanza bovina lombarda - di Michele Corti
(Atti del I seminario di studio sulla transumanza e l'alpeggio, Asiago, VC, settembre 2006)
I bergamì - di Luigi Volpi (PDF)
(Rivista di Bergamo, giugno 1930, pp.261-266)
Luigi Volpi,
I BERGAMÌ Note folkloristiche
(Rivista di Bergamo,
giugno 1930, pp 261-266)
VERAMENTE figli delle nostre montagne sono questi uomini rudi e solitari che portano il nome della nostra terra quasi a significarne una
caratteristica. Originari dalla Val Brembana essi hanno costituito un'industria
nomade che esercitano da secoli col più curioso degli attaccamenti, e dalla
quale rivolgimenti sociali o mutate condizioni economiche non sono riusciti a
staccarli. Per questo essi rappresentano rispetto alle altre attività sociali
una strana forma anacronistica, una persistenza o una sopravvivenza del passato.
Quando colla primavera alpina le vaste praterie, limitate
fra gli ultimi boschi e le roccie, rinverdiscono al crescente tepore, e le alte
vette, i picchi e le creste sembrano rinascere con novella possanza alla festa
di verde tenue e di azzurro purissimo, i bergamini lasciano la pianura dove
hanno trascorso l'inverno e dal basso milanese, dal cremonese o dal lodigiano
vanno colle loro mandrie verso le nostre montagne.
Attraversano le città nelle vie meno battute portando ai
cittadini chiusi nei loro alveari di case e nei loro labirinti di vie assolate
la nota festosa delle loro campanelle che li annunzia con gravi tocchi
cadenzati, ed il senso della loro vita semplice e libera.
È uno spettacolo quanto mai pittoresco il passaggio della
lunga colonna di bestie che prosegue docilmente mentre i mandriani con
esclamazioni aspre e gutturali dirigono ed animano, coadiuvati dal fedelissimo
cane.
Chiudono il corteo i carri sui quali stanno le donne, i
fanciulli e i neonati bovini, e gli attrezzi della loro industria grosse
caldaie per la cottura del formaggio, zangole - i penacc - per il burro,
secchi in legno, fasci di collari - i gambise - ed altre poche suppellettili.
Per tutta la buona stagione, sulle loro eccelse dimore
essi si dedicano ai lavori della pastorizia e del caseificio.
Lassù in completa solitudine ove il silenzio è rotto solo
dallo stillicidio dei nevai che si confonde col murmure dei ruscelli, la loro
vita sembra sublimarsi in un sorriso delizioso di pace serena.
La famiglia composta dai bergamini, dalle donne, dai
famigli e dai piccoli - i bocia - trova ricovero nelle «baite» costruzioni
primordiali e diroccate ove si riposano su letti di frasche e di foglie secche
sospesi per aria. Nella baita si lavora il formaggio, si fa la tradizionale
polenta, loro cibo principale, e vi si ospitano le bestie malate. La mandria
viene raccolta nel «barech» specie di fortilizio delimitato da muri a secco o
da tronchi d'albero intrecciati con lunghi rami.
Ogni giorno i bergamini attendono al pascolo delle
bestie, dirigendo gli spostamenti della mandria verso le zone erbose non
ancora sfruttate, o guidandole alla «posa» specie di vasca circolare ove si
raccoglie l'acqua piovana.
Nelle lunghe ore di inattività essi
riposano appoggiandosi ai loro bastoni di abete e c'è in questa loro positura
caratteristica qualche cosa di. solenne e di grave, che ci fa pensare a statue
messe là a rendere più maestosa la scena.
Ogni tanto scendono al paese coi muli
per vendere i prodotti della loro industria, il formaggio semigrasso di monte,
il burro e la ricotta.
A settembre scendono in pianura per svernare. Questa
speciale forma di -vita nomade è detta transumante ed è comune ai
pastori di molte regioni d'Italia.
La zona che i bergamini occupano nella stagione estiva è
vastissima e si aggira sui 270 Kmq. Comprendendo quasi tutte le nostre Prealpi
dai 2000 ai 2500 metri ed estesa dalle Valli di Valtorta o di
Foppolo a quelle della Val Seriana e di Scalve.
Insieme con i pastori - nomadi nel vero senso della
parola - i bergamini costituiscono una classe di persone che hanno mantenuto le
loro abitudini di vita patriarcale e primitiva; isolati dalle altre classi
sociali, con scarso senso associativo, legati alla loro attività da un eredità
secolare di tradizioni e di pregiudizi.
In essi rivive un po' della vita delle passate
generazioni per le quali la pastorizia doveva essere una delle occupazioni
preminenti.
Polibio ci descrive la pianura Padana cosparsa di acque
stagnanti, solcata da fiumi, ricca di querce, di alberi resinosi, di noci, di
miglio e di maiali. Le nostre vallate erano coperte di fitte foreste delle
quali ora poco ci resta.
I primi a salire le nostre valli furono forse quegli
stessi che, come vuole la leggenda, si rifugiarono sui nostri colli dopo la
distruzione della loro città - Barra - o furono invece popoli vicini che vi
immigrarono.
Certo è che questi primi dovean essere pastori i quali
utilizzarono i magri pascoli naturali delle nostre montagne. Le loro abitazioni
erano capanne di sassi coperte di corteccie d'abeti; il loro soggiorno durava
solo colla buona stagione; in seguito però alcuni di essi vi si saranno
stabiliti costituendo i primi nuclei delle nostre popolazioni montane, mentre
gli altri hanno preferito continuare la loro vita nomade; così i pastori. I
bergamì ci ripetono abbastanza fedelmente questo sistema di vita. Montanari per
origine e per abitudini, proprietari di bestiame ed allevatori, coll'aumentare
delle loro mandrie essi hanno dovuto chiedere alla pianura il sussidio per
l'alimentazione invernale della bergamina, trasmettendo poi di generazione in
generazioni le abitudini di vita transumante. Sono quindi dei proprietari di bestiame,
talora con capitale ingente che non hanno beni nè in pianura nè in montagna.
Prendono in affitto per un periodo consuetudinario di nove anni i pascoli della
montagna dai privati o dai comuni, e zone del piano dai proprietari di laggiù.
Questa continua spola fra le montagne ed il piano ha
fatto sì che molte famiglie montanare si fissassero in pianura. Così i Magenes
di Valleve, gli Avogadro della Val Seriana, i Papetti di Foppolo, ecc. Il
fenomeno della fissazione dei bergamì al piano preveduto dal Jacini verso la
metà del secolo passato, è ora notevolmente accentuato sì da segnare il lento
scomparire di questa particolare attività.
Che gli Orobi si dedicassero in passato alla pastorizia
ed all'allevamento del bestiame, è provato dal fatto che nel nostro dialetto
si nota una ricchezza mancante nella lingua italiana ed in altri dialetti di
voci e vocaboli riferentisi alla vita pastorale e cacciatrice, documenti
altresì di vita nomade come negli slavi e nei magiari. I nostri vernacoli
ritengono infatti un gran numero di vocaboli con riferimento a qualità o
caratteristiche di ani mali, così: sgatinà, ranà, carognà, sluma, loc,
furmigà. Altri documenti inoppugnabili sono: la tipica pecora bergamasca,
ed il nostro cane pastore dagli occhi albini, dal pelo lungo, col mantello
grigio-chiaro, la cui origine viene stabilita sull'Altipiano di Clusone. Ancora
ci restano i ricordi di una reputatissima ed estesa industria della pannina.
I bergamì sono robusti, di carnagione fresca e vermiglia,
non mai scalzi come del resto la gente di montagna, con rozzi vestiti e col
tipico grembiale azzurro. Si vedono ancora nelle nostre valli dei vecchi con
l'antico costume da pastore che abbiamo anche osservato nelle esibizioni dei
costumi di Parre, il paese che più d'ogni altro ha conservato costumi
pastorali. Cappello scuro e rotondo, giacchettino corto, calzoncini al
ginocchio, uose che rivestono tutta la gamba, calze rosse, camicia bianca
ricamata, ed i caratteristici anellini alle orecchie, immancabile è il capace
ombrellone rosso.
Usato è pure il tabarro, o la «polaca» che anticamente
aveva uno speciale significato specialmente come segno di lutto per questo
veniva portato varie domeniche di seguito.
Le donne oltre alla cuffietta, portano il busto ed una
lunga gonna pieghettata.
Nel loro linguaggio essi usano il nostro dialetto rustico
con molte voci antiquate e molti vocaboli che fanno parte del furbesco, usato
dai pastori anche oggi.
Il furbesco detto «gaì o spasèl» è un sottodialetto, una
parlata convenzionale, esso è formato da voci di lingue antiche o straniere,
dai furbeschi di Francia o di Germania oppure da parlate zingariche, o di
popoli nomadi come gli slavi e gli ungheresi, infine da traslati, da svisamenti
e da voci onomatopeiche.
Antonio Tiraboschi ha raccolto molte di queste voci in
due opuscoletti dai quali togliamo questi pochi esempi:
«Gróle - castagne; monèl - ladro; stoblà - bere; io - sì
(tedesco ja); barbina o fedola - pecora; loghit - svelto; cainà - rubare; tui -
ucciso; raspancc - polli, galline; paper - carta, libri; fiais - carne; verdus
-prato; bredà - piangere; Brodec - orso; ecc.».
I pastori usano il furbesco come mezzo di difesa contro
le altre classi agricole che mal sopportano le loro ladronerie.
Le fortissime tendenze conservative dei bergamini -
comuni del resto a tutto il mondo agricolo - ci spiegano come essi non abbiano
ancora adottato i nostri sistemi di misure, ma nei loro scambi usino solo pesi
e misure antiquate o convenzionali. Così per il latte usano «ol pis» che
equivale ad 8 Kg. e viene suddiviso in 100 parti dette «lire». Certuni usano
ancora « ol bras, ol ster », e la libbra.
I pascoli vengono valutati in «paghe» e una «paga»equivale all'area sufficiente per mantenere un bovino adulto durante tutta lastagione d'alpeggio. Questa misura non è mai costante, cosicchè si hanno altremisure affini.
Tutte le loro manifestazioni cerebrali ci ricordanol'abito mentale delle genti di montagna che dalla pastorizia han tratto
l'origine.
Nelle credenze dei bergamini persistono per quanto
attenuati molti ricordi pagani e medioevali. Una grande importanza hanno per
essi gli astri ed in modo speciale la luna, dell'influsso della quale è tenuto
gran conto nella conservazione del formaggio e nel taglio della legna. Certe
affezioni del bestiame sono ancor oggi chiamate «mal della luna»; molte
malattie sono poi interpretate come dovute ad un particolare agente patologico
e sono attribuite al così detto «cölp de morbe». La cura di esse malattie è
totalmente empirica e spesso straordinariamente ingenua. Molta importanza hanno
per essi gli elementi climatici che entrano in quasi tutti i loro proverbi. Lo
sfondo sul quale intrecciano le loro «storie» e le loro leggende è
terrificante: draghi, streghe, orchi, animali dalle forme inverosimili e
grottesche, le narrazioni delle gesta dei quali fa battere di paura il cuore
dei piccoli. Vi è poi un vero florilegio di racconti di paurose visioni di
anime di trapassati « confinate» o vaganti la notte per la montagna e che
talvolta si fanno « sentire » anche nella baita.
Molte e varie sono anche le loro superstizioni.
Nulla di caratteristico nelle loro festicciole e nelle
cerimonie. Quando alla Madonna d'agosto i mandriani scendono al paese per trattare
l'affitto dell'alpe, e la compartita, cioè la partizione delle quote di ognuno,
essi sogliono chiudere la giornata con una « sbornia » che se è solenne è
invero poco austera. Quando nel paese si festeggia qualche avvenimento
religioso, essi al tramonto accendono sui loro monti dei grandi fuochi - i falò
- che fanno durare per lungo tempo; mescolando così inconsciamente ad una
tradizione cristiana un simbolismo di marca pagana.
Accade spesso di osservare bastoni, «basoi», secchie,
cucchiai in legno, intagliati con un paziente lavoro di coltello. Raramente
questi lavori - che di solito consistono in ornamentazioni primitive -
raggiungono forme di un qualche valore artistico. Essi lavori però ci rivelano
gli inizi di una rozza arte rustica che colla sua evoluzione ci porterà alle
pregevoli opere dei nostri artigiani.
Il tempo ha parecchio modificate le occupazioni della
nostra gente di montagna. Più non echeggiano nelle nostre vallate i colpi dei
magli, nè ardono i bracieri delle innumerevoli fucine. Poche vestigia ci
restano delle antiche fabbriche d'armi e dei tanti forni dei quali parlano i
documenti. I valligiani non convogliano più il loro legname per mezzo delle
acque dei fiumi, e non vanno a prestare la loro forza nei porti marittimi.
Solo la pastorizia ci resta come un , vivente documento
del passato.
E quando «i bergamì» chiudono la loro giornata
raccogliendosi nella baita a pregare Iddio che ha loro dato prosperità e -
salute essi devono sentirsi figli prediletti della terra nostra - che madre
generosa - dà loro il pane e l'esistenza serena e libera.
|
(03.01.01) La cultura cittadina, non certo da oggi, è poco disposta a riconoscere come la montagna abbia contribuito in modo determinante a costruire l'economia, la società, la cultura delle nostre regioni. E' ora di farglielo sapere.
Montagna e città, passato e futuro: i bergamini e i legami esemplari tra il cuore di Milano e le valli orobiche
Tra gli alpeggi dell'alta val Brembana e il cuore della capitale della Lombardia una serie di legami. La Contrada dei bergamini, Carlo Cattaneo, fino alla maledetta bomba del 12 dicembre 1969
di Michele Corti
La strage di Piazza Fontana alla Banca
dell'Agricoltura fece scoprire ai milanesi che Milano, nonostante 150 anni di
industrializzazione era una città agricola dove, come in tutti centri agricoli
che si rispettano, I 'rurali' convergono in Piazza a 'fare mercato' a giorni
fissi.
Il pezzo della Cederna sulla strage: 'Una bomba
contro il popolo', che è diventato un classico del giornalismo, elenca le
categorie di frequentatori della Banca Nazionale dell'Agricoltura che finirono,
insieme agli impiegati nella lunga lista dei caduti e dei feriti. Tra queste
bergamini e malghesi. Cosa c'entravano?
Un bagliore sinistro getta
una luce su figure destinate all'oblio
“La guerra, sì,
come la guerra, i bombardamenti, il caos, il massacro, il macello. In banca
c'erano tutti gli habitués del giorno di mercato. Eran sensali,
proprietari o fittabili di aziende agricole, bergamini o malghesi, coltivatori diretti, commercianti in mangimi,
granaglie, macchine agricole o lubrificanti per trattori, che vengono dalla bassa e dal lodigiano, tutti quelli che ancora
qualche anno fa portavano il tabarro[…]
Camilla Cederna, Una bomba contro
il popolo, L’Espresso, 21 dicembre 1969
Chissà quanti lettori dell'Espresso,
pubblicazione rivolta agli 'intellettuali di sinistra',
sapevano chi erano i bergamini
o malghesi? Ovvero i mandriani transumanti cha da cinque secoli
scendevano dalle valli orobiche a 'svernare' nel milanese e nel lodigiano
acquistando il fieno per le loro vacche da latte? Ben pochi di certo. Ma nel 1969, ormai, anche ben pochi milanesi, ormai, erano al corrente di questa storia.
La Cederna, citando nell'elenco delle 'figure rurali' anche bergamini e malghesi ha di certo voluto indulgere in un tocco di 'colore', ma la menzione ai 'bergamini e malghesi' era
non solo appropriata quanto dovuta. Tra le vittime della bomba troviamo dei Papetti, dei Magenes, dei
Cattaneo, un Arioli, cognomi che rimandano a note dinastie di bergamini
dell'alta val Brembana oltre a parecchi altri
ricollegabili ad origini orobiche più o meno remote. L'infame che collocò la bomba sotto il grande tavolo della sala (il 'cratere' dell'esplosione) sapeva bene che prprio per agevolare la clientela 'rurale' concvenuta per il 'mercato' (che in precedenza era al sabato) la chiusura al venerdì era posticipata. Così alle 16.30 ora della deflagrazione molti furono falciati mentre compilavano moduli al grande tavolo-trappola.
La Cederna, in ogni caso, come tutti i
'vecchi milanesi' aveva imparato a conoscere i bergamini o malghesi prima della
guerra, quando erano ancora numerosi e molto 'folkloristici' (quindi
'visibili'. Va precisato che la Cederna era del 1911 e, per di più,
di famiglia di origini valtellinese (e quindi con una certa
sensibilità per le cose di montagna che non può non averla influenzata).
In Piazza Fontana cunt i zuculass e l bastun
Nel 1936 quando Camilla aveva già 25 anni, un ex-bergamino di nome Mario Magenes, che ho avuto la fortuna di intervistare qualche anno fa,
iniziava a frequentare Piazza Fontana.
[…] mi uu cumincià a quatòrdes an a frequentàa el mercàa de Milàn, quatòrdes an el me papà
prima al ma tiràa adrée e l ma fàa cugnùus la géent, no, pö quànd gh’u avüü
quatòrdes an, lü el gh’avéva témp no, tanti volt el gh’aveva témp nò de ‘ndà in
piazza, el laurà, la stàla, la campàgna, el me mandava mi in piaza a Milàn fàa
el mercàa o l sàbet o l mercoledì.
Quando,
nell'anteguerra Mario inizia a frequentare il mercato di Piazza Fontana la
'divisa' del bergamino era la seguente (sono le sue parole):
“Prima della guerra i
bergamìn prima de tüt gh’éren i uregìn d’òor, bej uregìn, vegnéven
in piazza [Piazza Fontana per l'appunto] cun la scusalìna magàri un scusàa,
quéi scusàa che metéven sü a fa i strachìn, de téla gròsa e i ligàven
chi dedrée cun la tracòlla, vegnéven in piazza cul scusàa magàri gh’e
n’era de quèj che metéva sü anca un para de zuculàs gh’e n’era de
quej che vegnéven sü cun scusàa e bastùn perché el bastùn el
mülàven no, l’utanta per cént di bergamìn vegnéven in piazza cul
bastùn e l’era pròpi un abitùdin”
La descrizione
corrisponde ad una 'divisa' da bergamino che troviamo raffigurata in una
cartolina illustrata dell'alta val Brembana dell'inizio del '900. E si capisce
perché a Milano si usava l'espressione 'te me paret vegnüü giò de la val
Brembana' per indicare il sommo della 'rozzezza'. La usava anche mia nonna
paterna che era piena di pregiudizi antirurali (anche se il marito, direttore
commerciale della Hoepli, era di 'pura razza bergamina', il padre prima
di divenire agricoltore era un lacè, casaro 'autonomo',
la mamma una Locatelli).
Bergamini dell'alta Val Brembana (inizio '900)
É interessante osservare come lo scambio, l'intreccio tra la montagna e la città assuma anche una dimensione simbolica: mentre i bergamini si recano in Piazza Fontana con zoccoli di legno, bastoni e cappellaci da pastore indossavano, però, panciotti 'cittadini' e orologi d'oro con catene
altrettanto d'oro sugli alpeggi. Una conferma della 'divisa' è offerta dall'immagine seguente che ritrae, sempre all'inizio del '900, i bergamini della Valsassina mentre transitano, per la transumanza, da Introbio. Anche in questo caso il personaggio a sinistra indossa gilè e catena d'oro. Una cosa è certa: i bergamini ostentavano
al tempo stesso le loro disponibilità economiche e la loro identità montanara. Fieri del loro rapporto con il latte (il grembiale da casaro non lo toglievano mai, semmai lo spostavano sul fianco) e con le 'bestie' (bastone). Erano esempi (anomali in Italia) di orgoglio contadino, di aristocrazia contadina. Una razza 'strana' alla luce di assodate categorie socioculturali, specie in contesto italico.
Transito dei bergamini in transumanza da Introbio (Valsassina) (inizio '900)
Luigi Formigoni, zio di Roberto, che fu direttore dell'Ispettorato agrario di Como e che - come altri osservatori - manifestò grande stima e rispetto per i bergamini, alla fine degli anni '20 ci consegna una descrizione ancora
più 'arcaica':
“In Piazza Fontana a Milano non è più dato vederli avvolti nei loro
caratteristici mantelloni pelosi di lana
verde; né in primavera e in autunno si vedono più con frequenza, lungo le
strade della Brianza, col loro camiciotto azzurro e con gli zoccoli, marciare
di fianco alla carretta colle poche
masserizie, in coda alla mandra risonante di campani”. L. Formigoni (1930), La
Valsassina e l’allevamento del bestiame bovino di razza Bruna Alpina,
Lecco, p. 7.
Il Formigoni riferì anche che Piazza Fontana era la vera e propria
'centrale operativa', 'il Foro', dei bergamimi. Qui, in un sabato di fine
aprile 'gli anziani ', coordinavano la tempistica della transumanza. Un
coordinamento necessario, altrimenti gli 'stallazzi' ovvero i luoghi di tappa
dei bergamini, frequentati anche dai carrettieri ed in grado di accogliere
uomini e bestie, sarebbero stati overbooked con gravi disagi per i transumanti.
"Le mandrie
si succedevano le une alle altre
seguendo un calendario preordinato stabilito in
precedenza in una riunione degli Anziani in piazza Fontana a Milano, in un
pomeriggio di un sabato di fine aprile. La Piazza Fontana era il
'Foro dei bergamini', tant’è che nelle vicinanze esisteva, ed
esiste una strada a loro dedicata, strada che esiste tuttora." L.Formigoni, I Bergamini nello sviluppo della
classica cascina lombarda” in “L’Informatore Agrario, 2 febbraio 1967
Da Piazza Fontana alla Contrada dei Bergamini
Come non poteva la
Cederna, che era nata nel 1911 non restare impressionata quando era una tusa da questi
personaggi? Va notato anche che, pur essendo nata a Milano, apparteneva a
famiglia valtellinese e che quindi, inevitabilmente, disponeva di certa
sensibilità per le cose di montagna, anche se poi diventò giornalista e
personaggio dei salotti occupandosi prima di moda e poi di politica (fino al 'killeraggio' - come di direbbe oggi - contro Giovanni Leone e Luigi Calabresi).
Camilla Cederna (1911-1997)
Va anche osservato che, prima della guerra, ovvero prima dei devastanti bombardamenti del 1943 (che hanno eliminato i due lati della piazza che vediamo nella foto sotto), Piazza Fontana era molto frequentata, non solo per la posizione cruciale ma anche perché essa stessa era ricca di negozietti che contornavano i tre lati della piazza (quelli non occupati dall'Arcivescovado).
Piazza Fontana vista dall'Arcivescovado (anni '20)
Cuore pulsante di Milano Piazza Fontana era legata al mondo agricolo perché qui anticamente si trovava il mercato 'delle erbe', il Verzaro. E si chiamava 'Piazza del Verzaro'. Esso su traslocato dove adesso la toponomastica indica il 'Verziere' nel 1766 e, per maggior decoro della Piazza dove si affaccia l'Arcivescovado,
nel
1782 venne eretta la fontana del Piermarini che, da allora, da il nome alla piazza (due diversi tentativi statalisti,
nel 1808 e nel 1860, di cambiare ulteriormente il nome sostituendo alla 'fontana' riferimenti 'nazionali' non ebbero successo tant'è che nemmeno Mussolini vi provò più a modificarlo).
La Via Bergamini vista da Via San Clemente
Se da Piazza Fontana percorriamo la brevissima Via S.Clemente oggi sbocchiamo quasi subito nella Via Larga. Prima della guerra ques'ultima era molto meno larga e allo sbocco della Via San Clemente ci si trovava in un crocicchio ( foto sopra). Questa foto, risalente agli anni '20, presa da Via San Clemente, mostra
d'infilata la Via Bergamini che esiste tutt'oggi e collega Via Larga con l'Università Statale. Il nome non fa riferimento
a qualche illustre personaggio di cognome Bergamini (ce ne sono parecchi peraltro) ma alla categoria professionale. Così come ha dedicato vie agli Speronari, Armorari, Cappellari, Orefici, Milano ha dedicato una contrada anche ai bergamini (sino allunità d'Italia le vie a Milano erano denominate 'contrade').
Chi fossero i 'bergamini' cui era ed è dedicata l'omonima via ce lo dice il Sonzogno (1835).
«Della contrada dè bergamini dirò che in essa stanno i venditori di
caci freschi e di altri latticini, così chiamati dalle mandrie da essi possedute e da noi detti bergamini»
L. Sonzogno, Vicende di Milano rammentate dai nomi delle sue contrade a sia origine
di questi nomi. Milano, 1835, pag 81.
Da queste informazioni ricaviamo l'esistenza di uno stretto rapporto tra l'attività dei bergamini nella loro ruolo polivalente di allevatori, casari, venditori di formaggi. A volte queste attività potevano essere svolte nell'ambito della stessa famiglia; a volte, però, dalle dinastie di bergamini si rendevano indipendenti dei 'rami' che si dedicavano
esclusivamente al caseificio (si chiamavano lacè, lattai) o al commercio (all'ingrosso o al dettaglio) dei latticini (furmagiatt). Anche quando queste attività si rendevano autonome le strategie famigliari prevedevano una forte 'sinergia'. Un fatto abbastanza normale considerando anche che per quattro mesi i transumanti si assentavano per salire in montagna. In ogni caso la confraternita dei formaggi/bergamini aveva sede nella chiesa di S. Bernardino alle Ossa (tra il Verziere
e la Piaza S. Stefano, molto prossima alla Contrada dei Bergamini).
La chiesa di San Bernardino alla Ossa
San Lucio ci riporta sulle montagne
Nella chiesa di S. Bernardino si conservava una tavola cinquecentesca di S. Lucio martire, il pastore casaro della Val Cavargna vissuto tra il XIII e XIV secolo. Da questa tavola si è ispirato I. Manzoni per realizzare nel 1845 il dipinto ancora oggi conservato presso l'oratorio di S: Bernardino Nella foto sotto è raffigurato l’esterno della stalla comunale recentemente costruita a Morterone in Val Taleggio (ma provincia di Lecco). L'iconografia di S. Lucio ci restituisce uno 'strato' ancora più arcaico. Allora (XIII-XIV) secolo i casari non usavano il grembiale di tela azzurra (itrodotto alla fine del XIX secolo) e nemmeno il grembiale di cuoio (usato ancora all'inizio del XX secolo), ma una pelle di pecora.
La copia del dipinto di San Lucio del Manzoni sul Caseificio di Mrterone (Lc)
Come negli affreschi del Santuario del Brichetto di Morozzo (Cn) della fine del XIV secolo di cui abbiamo parlato nell'ultimo articolo
. Sotto vediamo un pastore cuneense con kilt e cornamusa.
Pastore megli affreschi del Brichetto, Cn (fine XV secolo)
La raffigurazione di S. Lucio di Morterone ci consente di mettere in evidenza i tanti intrecci tra Milano e la montagna. Morterone è una delle 'patrie' più emblematiche dei bergamini (la popolazione si trasferiva in massa in pianura secondo un modello di semi-nomadismo).
Da Morterone ha preso le mosse nel 1860 Carlo Invernizzi che ha dato il via a quella che diventerà una delle più grandi aziende lattiero-casearie italiane. Gli ultimi discendenti di Carlo Invernizzi, scomparsi qualche anno orsono, vivevano in un prestigioso palazzo con giardino (con tanto di fenicotteri rosa e pavoni bianchi) nel centro di Milano, in Corso Venezia. Corsi e ricorsi.
Carlo Cattaneo: da bergamini a borghesi
Abbiamo citato Carlo
Invernizzi, bergamino che diete vita ad una dinastia di industriali. Ora tocca
nominare un altro Carlo di discendenza bergamina. Si tratta di Cattaneo. Recentemente
Natale Arioli (il lavoro non è stato ancora pubblicato) ha ricostruito la
genealogia di Cattaneo mettendo in evidenza come il nonno fosse un bergamino
dell’alta Val Brembana .
I Cattaneo si erano stanziati su un fondo nella zona tra Pavia e Milano. La
ricostruzione della genealogia ‘bergamina’ di Carlo, eseguita sulla base dei
documenti degli archivi parrocchiali da parte di Arioli conferma e precisa le
notizie biografiche già contenute nella commemorazione dello storico Gabriele Rosa in: Carlo Cattaneo, Scritti politici ed
epistolario (a cura di G. Rosa e J. White Mario) Vol I, Firenze,1892, p. 12):
“Nelle valli bergamasche sono parecchie famiglie che, dalmestiere dell’armi, nel medio evo, ebbero nome di Capitani, Cattani, o
Cattaneo. Una di esse, dalla Valle Brembana, culla di Tasso, scendeva
patriarcalmente ogni anno con le mandre a svernare nei prati milanesi, dove,
arricchita divenne fittabile a Parabiago sull’Olona; indi, come avviene prese
stanza a Milano, e qui Melchiorre, padre di Carlo, era possessore di una
casa ed orefice nella parrocchia di S. Maria presso S. Celso.”
Gianni Brera nelle sue “Storie dei Lombardi”, sciveva: “Non so quante generazioni
prima che nascesse Carlo i Cattaneo si sono stanziati su un fondo a Casorate
Primo, fra Pavia e Milano”. G. Brera, Storie
dei Lombardi, Milano, 1993, p. 89 . L’Arioli ha
fornito la risposta. Solo due generazioni. Una dimostrazione di rapida
trasformazione e mobilità sociale: in tre generazioni un bergamino diventa
fittabile, suo figlio orefice a Milano e il nipote grande intellettuale. Peccato
che in biografie recenti di Cattaneo questa storia sia stata dimenticata e si
fa genericamente riferimento ad una famiglia di “contadini!” (es. R. Bracalini,
Carlo Cattaneo un federalista per gli
italiani, Milano, 1995).
Prima di riparlare di Cattaneo vogliamo solo notare che egli non è certo l'unico personaggio famoso di origine bergamina (oltre, ovviamente, ai non pochi industriali caseari) . Il pittore Moretto da Brescia era nato in realtà a Rovato (uno dei massi
centri di commercio del bestiame e del formaggio della Lombardia) da padre bergamino di Ardesio (alta Val Seriana). Madre Cabrini (la santa degli emigranti) è di famiglia di 'contadini' di S.Angelo Lodigiano, ma S. Angelo è un altro 'snodo' nelle mappe dei bergamini (importante fiera di bestiame, tappa di transito verso il pavese e Cabrini è cognome originario della Val Seriana.
Cattaneo si erse a ideologo della borghesia cittadina (di cui considerava parte integrante i fittabili delle aziende della 'Bassa', tra i quali si contavano i suoi cugini). Secondo il Cattaneo non erano neppure 'agricoltori' ma intraprenditori di industria agraria.
Una posizione che sottende l'idea che l'agricoltura è espressione dell'infanzia dell'umanità e che sarà superata dall'industrializzazione delle campagna. Un'idea 'progressista' che, purtroppo, ha fatto proseliti (sarà ripresa con conseguenze devastanti per interi popoli e per l'ambiente dai bolscevichi e oggi è accarezzata da chi prefigura l'agricoltura high-tech OGM 'senza contadini').
L'interno di una 'bergamina' della 'bassa'
Ma Cattaneo ha un merito e si riscatta (almeno in parte)
A differenza del fratello Luigi, che aveva in gran spregio i bergamini-casari definiti ignoranti e disonesti, Carlo - di ben altra levatura intellettuale - rese ai bergamini un enorme merito riconoscendo che la classe dei fittavoli in
larga misura derivava da questi montanari.
"se
badiamo al nome di bergamine, dato ancora oggidì agli armenti
stanziati nella Bassa Insubria, benché sian essi interamente oriundi dalla
Svizzera, dobbiamo inferire che vi contribuissero (al formarsi del sistema
d'alta coltura) anche quelle famiglie che dalle prealpi bergamasche li
mandavano a svernare nella pianura. È da credere che a poco a poco
s'avvedessero del vantaggio di trattenervele d'estate; e che quindi l'affitto
del pascolo invernale sfasi esteso prima all'anno intero, e poscia a più anni,
comprendendo tutti i prodotti agricoli. Poiché l'alta cultura doveva più
facilmente cominciare in quelle famiglie che possedevano il primo e più
prezioso strumento di essa, cioè un considerevole capitale investito in
bestiame" (Ivi)
Una 'classica' cascina della 'bassa'. La tipologia dei fienili e dei 'barchi' per il bestiame si è affermata tra XV e XVI secolo nelle aree più 'avanzate' della pianura tra il Ticono e l'Adda
Gli storici accademici solo di recente hanno confermato questa tesi
attraverso gli studi molto accurati di Enrico Roveda sul periodo del XV-XVI secolo
e con riferimento al pavese e al lodigiano. (E. Roveda, Allevamento e transumanza nella pianura
lombarda: i bergamaschi nel pavese tra ‘400 e ‘500, Bollettino della Società Pavese di Storia Patria, 1988, 13-34).
Eppure era sotto gli occhi dei contemporanei come i bergamini abbiano continuato a trasformarsi in fittabili (e proprietari) non solo
per tutto il XIX secolo ma anche nel successivo. Ciò che risultava 'indigesto'
ai rappresentanti intellettuali della borghesia era il fatto che dei
'contadini' potessero avere più successo dei 'borghesi' (e magari
soppiantarli). I motivi della poca simpatia per i bergamini ci divengono chiari
dalla seguente testimionianza che non nasconde un atteggiamento rancoroso.
“[…] erano bergamini che
a furia di stenti e di economie riuscirono a mettere insieme quanto occorreva
per spodestare, offrendo aumento d'affitto al proprietario od a' suoi amministratori
il fittabile che da parecchi anni davo loro l'asilo invernale e vendeva il
fieno per il mantenimento delle loro mandre. Questi mandriani, se furono felici
e contenti di aver posto fine alla loro vita randagia non per ciò abbandonavano
il loro sistema di economia feroce. Economia in tutto e per tutto, salvo che
nella figliolanza, creata prodigalmente”. E. Conti, La proprietà fondiaria nel passato e nel presente, Milano, 1905, p. 202.
Sappiamo che in diversi
casi i bergamini sono subentrati ai fittavoli, che a volte prestavano loro
denaro, che non si toglievano il cappello di fronte ai proprietari fondiari
(cosa che gli affittuari erano tenuri a fare per contratto). Questi 'conservatori', 'patriarcali' mettevano un po' in discussione la rigida gerarchia della cascina (e l'ordine sociale ad essa sotteso).
E' comprensibile che qualcuno desiderasse che 'tornassero nelle loro valli'. Lo
disse apertamente lo Jacini, il grande esponente politico ed intellettuale 'illuminato'
della proprietà fondiaria lombarda:
[…]
è assai probabile che in pianura, migliorandosi sempre più l'agricoltura e
accrescendosi per conseguenza l'estensione dei prati e del bestiame, il quale
oltre all'abbondante concimazione dà un così ricco prodotto in latticinj, quei
proprietari ed affittuari che ora ricorrono alle mandre delle montagne
penseranno ad emanciparsene, anche per timore delle malattie che suol portar
seco il bestiame di montagna, e stimeranno più conveniente di possedere essi
medesimi una proporzionata vaccheria. […]
Che avverrà allora dei mandriani di cui discorriamo? Saranno costretti di abbandonare il loro
mestiere o di trovar tutti nelle valli il foraggio sufficiente per l'inverno,
come ad alcuni già riesce di fare. Insomma si può ritenere che il
mestiere del mandriano, nel modo in cui s'intende oggidì, ha contati i suoi
giorni, e che le valli dovranno offrire i mezzi per fare svernare le mandre, e
ciò con miglior prospettiva per l'avvenire dell'allevamento. S. Jacini (1996) La
proprietà fondiaria e le classi agricole in Lombardia. Scritti economici, a
cura di F. Della Peruta, Milano, (ed. or. 1853).
Previsioni smentite dalla realtà
Ma lo stesso Jacini dopo
trent'anni, nella relazione di quella famosa Inchiesta Agraria che passò alla
storia con il suo nome, dovette ricredersi. Dipinse ancora
i bergamini come 'primitivi' ma al tempo stesso 'moderni'. In questa ambivalenza colta dallo Jacini si apprezza la sua
profonda capacità di intuizione e onestà intellettuale (tanto più da apprezzare
se confrontate al paraocchi ideologico che ha poi impedito ai marxisti di
analizzare i rapporti sociali nelle campagne al di fuori di rigidi schemi
ideologici). Disse Jacini:
“Sono gli ultimi
rappresentanti della società preistorica in mezzo al mondo moderno” […] “La
vita nomade di quei mandriani in mezzo alla nostra stabile civiltà, sembra,
quasi un anacronismo. Ma analizzandone tutte le condizioni, vien fatto di
riconoscere che i malghesi rappresentano un'idea economica eminentemente
moderna, quella della divisione del
lavoro, ed attuano l'alleanza naturale della montagna colla pianura,
facendo sì che l'una serva., fino ad un certo punto, di complemento all'altra”
S.Jacini, La regione delle montagne,
in Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe
agricola, Roma, Forzani, 1883, Vol VI, Tomo I, Fascicolo I, p. 22 e 25.
Cattaneo, a differenza di Jacini aveva presentato un quadro dei bergamini tutto proiettato al passato come se la
storia della sua famiglia valesse come caso generale; un quadro con molta indulgenza alle note pittoresche (effetto, almeno in parte, del romanticismo, va concesso):
“Alcune delle
estreme valli sono troppo alpestri per l'agricoltura; la neve le ingombra nove
mesi dell'anno, ma le trova deserte e silenziose. Chiusi i pòveri casolari, il
pastore discende per le valli
coll'armento; gli uòmini appiedi; le donne sui cavalli, cogli infanti nelle
ceste come le tribù dell'oriente. A
brevi giornate di cammino la carovana si arresta dove il contadino del piano
l'aspetta; le vacche alpine stanziano qualche giorno a brucare gli esausti
prati; poi, inseguite dalle brìne, pàssano a più bassi campi, fino ai prati
perenni. Quando la natura sì riapre, la
famiglia ritorna al suo viaggio, rivede fioriti i campi che lasciò bruni e
squàllidi; risale lungo i tortuosi torrenti, trova i pochi che rimàsero nella
valle a diradare le selve, e sudare alle fucíne; e si sparge sulle alpi, che così chiama ancora quei
pàscoli dove la primitiva communanza non conosce altra disugualità che il
numero degli armenti” C. Cattaneo Notizie
naturali e civili sulla Lombardia in Milano e l’Europa. Scritti
1839-1848, a cura di D. Castelnuovo
Frigessi, Torino, 1972, ” p. 465.
La produzione del fieno in una cascina del lodigiano (anni '20)
Con queste premesse non
meraviglia che nel '900 ai bergamini si sono interessati prevalentemente gli
etnografi. Tra loro merita un riferimento Luigi Volpi, bergamasco, che nel 1930
pubblicò un interessante articolo sui Bergamì che riproduco integralmente
(colonna a sinistra e link a file PDF in alto). Non meraviglia che con queste
premesse gli storici abbiano a lungo 'snobbato' il tema. Solo di recente, come
ricordato, sono state affrontare dagli storici le origini del fenomeno nel
secolo XV. Sulla storia più recente dalle forti implicazioni sociali c'è ben
poco. Il motivo? Politico, culturale e ideologico. Per diverso tempo la
dominante scuola marxista ha seguito Cattaneo nell'esaltazione del 'fittabile'
delle grandi aziende della pianura irrigua tra il Ticino e l'Adda. Era il
'campione' che, primo in Italia, introduceva uno schema di rapporti sociali
'avanzati' nelle campagne, uno schema dove le figure sociali tendono a
corrispondere ai concetti ideali dell'economia classica e marxista:
Rendita, Profitto, Salario. Le figure 'spurie' che tanto danno fastidio ai
marxisti (i massari, mezzadri) erano state finalmente eliminate. Che fare dei
bergamini che erano sì contadini ma con un bel capitale (bestiame e moneta). La
visione ideologica astratta dei rapporti sociali nelle campagne spiega gli
orientamenti negativi nei confronti del ruolo dei contadini indipendenti
ritenuti aprioristicamente portatori di istanze regressive.
La rivincita dei contadini
Per i marxisti i contadini 'autonomi' sono un ‘residuo del passato’ o un‘prodotto’ di condizioni condizioni di ‘'marginalità’ e di forme indirette di sfruttamento. In questo schema non c’è certo
posto per i bergamini che non rappresentano una storia di ‘proletarizzazione’,
ma semmai di sviluppo imprenditoriale ‘dal basso’ di matrice rurale,
palesemente in contraddizione con il dogma dello sviluppo che procede dalla
città . Così, mentre si sono dedicati innumerevoli studi a braccianti, mondine, leghe, scioperi nulla o quasi è stato dedicato ai bergamini. Fortunatamente in tempi
recenti si è fatta strada una ‘rilettura’ della storia. Le figure
contadine indipendenti non vengono più considerate come ‘residui del
passato’, ostacoli al progresso ma come le portatrici di un dinamismo economico
e sociale non effimero che spiega il successo di ampi settori dell’economia
delle regioni centro-settentrionali. Così i mezzadri dell’alta pianura e
della fascia pedemontana lombarda sono stati ‘sdoganati’ grazie a studi come
quello di Corner (P.R. Corner, Contadini
e industrializzazione. Società rurale e impresa in Italia dal 1840 al 1940, Roma-Bari, 1993). seguiti da una serie di lavori di studiosi di
matrice cattolica che hanno messo in evidenza come l' 'albero degli zoccoli’
rappresentasse solo un lato della medaglia (Cfr per esempio: S. Fontana, La riscossa dei lombardi. Le origini del
miracolo economico nella regione più laboriosa d’Europa 1929-59,
Milano, 1998). Questi studi, non senza implicazioni nel recente
dibattito politico-culturale, hanno evidenziato il ruolo propulsivo della forma
sociale della famiglia mezzadrile dell’alta pianura e della fascia pedemontana
lombarde nell’ambito dei processi di nascita della piccola e media impresa e
dei ‘distretti industriali’, sottolineando come proprio l’‘attaccamento alla
terra’ e ai ‘valori tradizionali’, al ‘patriarcalismo’ lungi dal rappresentare
un freno allo sviluppo, abbiano rappresentato condizioni favorevoli all’incubazione di esperienze imprenditoriali.
I bergamini stanno i mezzadri stanno al sistema delle PMI industriali come i bergamini stanno ai moderno sistema zoocaseario lombardo, sempre più strategico nell'economia regionale.
Il riconoscimento, sia pur tardivo, dell’ ‘epopea’ dei bergamini (e del ruolo della montagna) appare non solo doveroso ma anche utile in frangenti di riposizionamenti
identitari e di valorizzazione delle risorse materiali ed immateriali di lungo
periodo.
Ma ci sono anche implicazioni di più strigente attualità: la rivalutazione di 'modi di produzione contadina', dell'indipendenza contadina dalle soffocanti filiere agroindustriali e della globalizzazione rappresenta uno stimolo a tornare
a riprodurre all'interno dell'azienda agricola molti dei propri mezzi di produzione in modo 'economico', a trasfrormare e commercializzare in propri, a cogliere - sui un piano che va oltre quello aziendale - le nuove concrete possibilità di affermazione di una nuova ruralità. Stabilendo nuovi rapporti con la città.
Sosta durante una delle ultime transumanze a piedi di bergamini di Morterone
Bibliografia citata
R. Bracalini,
Carlo Cattaneo un federalista per gli
italiani, Milano, 1995.
G. Brera, Storie
dei Lombardi, Milano, 1993.
C. Cattaneo Notizie
naturali e civili sulla Lombardia in Milano e l’Europa. Scritti
1839-1848, a cura di D. Castelnuovo
Frigessi, Torino, 1972.
C. Cederna, Una bomba contro
il popolo, L’Espresso, 21 dicembre 1969.
E. Conti, La proprietà fondiaria nel passato e nel presente, Milano, 1905.
S. Fontana, La riscossa dei lombardi. Le origini del
miracolo economico nella regione più laboriosa d’Europa 1929-59,
Milano, 1998.
L. Formigoni, La
Valsassina e l’allevamento del bestiame bovino di razza Bruna Alpina,
Lecco, 1930.
L. Formigoni, I Bergamini nello sviluppo della
classica cascina lombarda, L’Informatore Agrario, 2 febbraio 1967.
S. Jacini, La
proprietà fondiaria e le classi agricole in Lombardia. Scritti economici, a
cura di F. Della Peruta, Milano, 1996, (ed. or. 1853).
S. Jacini, La regione delle montagne,
in Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe
agricola, Roma, Forzani, 1883, Vol VI, Tomo I, Fascicolo I.
G. Rosa, Commemorazione di Carlo Cattaneo in: Carlo Cattaneo, Scritti politici ed
epistolario (a cura di G. Rosa e J. White Mario) Vol I, Firenze,1892.
E. Roveda, Allevamento e transumanza nella pianura
lombarda: i bergamaschi nel pavese tra ‘400 e ‘500, Bollettino della Società Pavese di Storia Patria, 1988, 13-34.
L. Sonzogno, Vicende di Milano rammentate dai nomi delle sue contrade a sia origine
di questi nomi. Milano, 1835.
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