Figura
1. 1.3.86
Bugiallo (CO), Andà a smarz
Percorso
rituale con suono di campanacci appesi al collo dei
ragazzi e di corni (tratto da: Valota R., CHIAMARE L'ERBA. Rituali di propiziazione
nel Comasco e nel nord, Italia, Cattaneo Editore, Oggiono
LC, 1991)
Figura
2. 1.3.86
Bugiallo (CO), Andà a smarz
Recita
di formule e preghiere rituali nell'ambito della questa
(tratto da: Valota R., CHIAMARE L'ERBA. Rituali di propiziazione
nel Comasco e nel nord, Italia, Cattaneo Editore, Oggiono
LC, 1991)
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(21.03.09) Da qualche anno c'è una forte ripresa dei tradizionali rituali propiziatori primaverili
Ciamáa
l erba: rivivere collettivamente la scansione delle
stagioni, dire basta ai capannoni. Ecco come la ritualità
tradizionale torna viva e funzionale ai bisogni attuali
Ecologia partecipata e interiorizzata = ecologia ruralista
Parlare
di nuovi-vecchi rituali della primavera significa parlare
di qualcosa che nasce dal basso, che coinvolge la gente
perché tocca corde profonde, evoca simboli e immagini
che la modernità non ha cancellato (almeno del tutto).
Tutto
il contrario dell'ambientalismo urbano, dei suoi astratti
appelli ad un civismo "politicamente corretto"
che non scalda il cuore e finisce per scocciare con
i suoi richiami pedagogici. Di fronte al recupero
di alcune tradizioni qualcuno storce il naso e sputa
le solite sentenze: "folklorismo", "re-invenzione
della tradizione", "ripiegamento localistico
e nostalgico". Lasciamoli dire.
Per
parecchio tempo gli intellettuali urbani hanno discettato
sul fatto che l'unica espressione di ritualità popolare sopravvissuta
al cataclisma antropologico del "crollo" della
società rurale (tra gli anni '50 e '60) fossero le Feste
dell'Unità e simili.
Oggi
sappiamo che il "cataclisma" non ha distrutto
così in profondità come si pensava e che, di fronte
a determinati stimoli e situazioni, c'è un substrato
culturale che può riaffiorare.
Fuori dai musei
Negli
anni '70 del secolo trascorso sono fioriti i "musei
della civiltà contadina" e si è lodevolmente cercato
di raccogliere le testimonianze di una cultura orale
che andava scomparendo. Si è ritenuto che la scomparsa
di certe forme, legate a strumenti e tecniche di lavoro
agricolo superate dalla meccanizzazione, equivalesse
alla scomparsa in toto della cultura rurale e che essa andava
conservata "sotto vetro", come reliquia, negli
archivi e nei musei. In realtà anche fuori dai musei
e dagli archivi è fortunatamente rimasto molto.
La
conferma che la cultura rurale non sia morta e defunta,
ma in grado di trasformarsi e di presentarsi in forme
nuove è venuta di recente da molti segnali. Pur nei
termini di una sostanziale ambiguità il boom dell'agriturismo,
delle fattorie didattiche, dell'agricoltura urbana (vedi
Obama che pianta cavoli al posto delle rose alla Casa
Bianca), dello stesso neoruralismo residenziale (la
"voglia di campagna") ha prodotto conseguenze
non solo di facciata. Ha "tirato fuori dai
musei" tutta una serie di elementi: razze e varietà
in via di estinzione, antiche tecniche di coltivazione
e trasformazione alimentare, "cucine contadine".
Lo ha fatto in una dimensione tale da forzare oggettivamente
il quadro che vorrebbe comprimere questo revival
nei termini della strumentalizzazione mercantile, dell'ideologia
del Mulino Bianco.
Ad
un certo punto la finzione (la rappresentazione
ruffiana e strumentale di ruralità immaginarie) e
la realtà (fatta di bisogni "neorurali" autentici)
finiscono per incontrarsi. Nel frattempo si mettono
in moto dinamiche economiche e culturali che rivendicano
una loro autonomia e si crea una saldatura tra un "vecchio
mondo", non ancora del tutto scomparso (anche se
da decenni qualificato come "residuale", "perdente",
"triste"), e un "nuovo mondo" portatore
di domande sociali nuove di zecca, profondamente critico
e disilluso rispetto ai modelli industrialisti e metropolitani.
Il rito rivive
Queste
sono le premesse del ritorno d'attualità di ritualità
collettive legate alla cultura rurale. Delle "Feste
del fieno" abbiamo già diffusamente parlato (vedi
FenFesta
a Monno). Le
"Feste del Fieno" pur collegandosi gerericamente
alle feste del raccolto rappresentano modalità sostanzialmente
nuove, pensate per portare all'attenzione della comunità
il problema della cura dei prati, della scomparsa del
bestiame dalle piccole stalle e dai villaggi (e della
corrispondente concentrazione in grandi strutture intensive
nei fondovalle). I riti propiziatori primaverili,
invece, vengono fatti rivivere mantenendo alcuni schemi
che li caratterizzavano e sovrapponendovi nuovi significati.
Nella fattispecie ci riferiamo a quei rituali (ciamaa
l'erba, sunaa da marz, andaa a smarz, calen' marz, bater
marzo) diffusi soprattutto in Valtellina e nelle
aree limitrofe del comasco e nei grigioni (valli
lombardofone ed Engadina).
Altri
riti primaverili erano diffusi nel veneto (specie nel
Veronese), in Friuli e in alcune aree della Padania.
L'azione principale è costituita dal compiere
percorsi rituali nell'ambito delle diverse unità della
comunità (frazioni e nuclei rurali isolati) utilizzando
"strumenti" legati all'allevameno e alla pastorizia
(principalmente i campanacci delle mucche - sampùgn
- ma anche corni musicali da pastore ricavati dalle
corna dei becchi). Il suono fragoroso di tali strumenti
ha la funzione di destare l'erba dal suo sonno invernale
e spingerla a riprendere il ciclo vegetativo per poter
crescere e consentire la fienagione indispensabile per
mantenere il bestiame. Dal momento che il rito si svolgeva
spesso il primo marzo (o all'inizio del mese) l'erba
"chiamata" si trovava sotto una coltre di
neve (e questo spiega il fragore). Si tratta di manifestazioni
legate al ciclo di morte e rinascita dello spirito della
vegetazione volte ad esorcizzare i demoni che
potrebbero impedire la rinascita. A latere di questo
nucleo il rito prevede diverse altre azioni e, quasi
sempre una questua accompagnata da formule di benedizione
e propiziazione o - in caso di rifiuto - da formule
di maledizione (del tipo “Piena la
ca’ de rat, piena la ca’ de sciat”).
Alla questua si accompagnavano spesso preghiere
(o formule magiche) e consumo collettivo di particolari
cibi preparati per l'occasione (oltre al vino e alle
altre cibarie raccolte con le offerte).
Ciamáa l erba oggi
Il rito
era attestato (limitatamente alla Valtellina) ad Albosaggia,
Albaredo, Forcola, Val Masino, Tresivio, Spriana, Teglio,
Chiuro, Arigna di Ponte V. (Roberto
Valota, Andà a smarz. Chiamare l'erba. Rituali
di propiziazione nel Comasco e nel nord, Italia, Cattaneo
Editore, Oggiono - LC -, 1991). L'elenco di Valota non
è però completo perché, per esempio, è ben conosciuto
anche a Gerola alta. Oggi viene praticato in diverse
località della Valmalenco, nella costa dei Cèch,
nelle valli del Bitto, a Teglio, Ponte, Aprica. Recuperato
da qualche anno come elemento ludico (a volte con finalità
turistiche) e persino "replicata" (con evidente
finalità turistica) anche in estate, oggi, il ciamáa
l erba pare
assumere un significato di consapevole associazione
a nuovi espliciti significati. E' significativo che
dopo gli "eventi" di Gerola alta, Albaredo
e dei Cèch gli "agricoli" della zona
abbiano inteso organizzare un Ciamáa
l erba "cittadino"
o "mandamentale" il giorno
21 marzo (oggi) nella cittadina di Morbegno.
Innanzitutto
è una manifestazione della volontà di farsi visibili
e di voler riaffermare che, per quanto poco numerosa,
la categoria dei "contadini" o "imprenditori
agricoli" (l'autodefinizione di "agricoli"
rappresenta una sintesi "neutra") c'è
e che, di fronte alle proclamate volontà di "valorizzare
il cibo locale" e "curare il territorio",
sarebbe doveroso riconoscere che per troppo tempo ne
è sottovalutata l'importanza trattandola quale un corpo
a sé.
La
sampugnéra (la sonata con i campanacci)
attraverserà le vie cittadine terminando nell'area del
Polo fieristico e sugli ultimi prati rimasti della vasta
area agricola rappresentata dal conoide di deiezione
del Bitto (i nucluo urbano era in cima al conoide).
I suoni metallici dei campanacci hanno anche il
significato di difendere l'erba e i prati dai nuovi
"spiriti maligni", ovvero dall'ulteriore infierire
del morbo della capannonite che, non solo a Morbegno,
ma in tutta la bassa Valtellina, ha impeversato in modo
patologico (e continua ad imperversare nonostante
la crisi economica).
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