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 (16.08.11) All'Infernet in val d'Angrogna, 'paradiso' della nebbia e dei lupi (val Pellice, To)

Baite fatiscenti, tante giornate nebbiose. E i lupi sempre in agguato. Claudio Buffa, un giovane pastore tiene duro sulle sue montagne con le sue pecore. Ha un aiuto pastore, ha due cani Maremmani, chiude le pecore nel recinto elettrico ogni sera. Ma ques'anno ha già subito due attacchi da parte dei lupi.  E non ce la fa più. Deve abbandonare il campo o devono essere tenuti a bada i lupi? Si tratta di una questione etica importante dalla quale può dipendere il futuro della montagna ma con forti implicazioni per tutta la nostra società vai a vedere

 

(21.01.10) Chiarezza sul lupo. L'intoccabilità è solo italiana e l'hanno decisa gli 'esperti' e gli ambientalisti

Il Ministero dell'ambiente risponde picche alle richieste di abbattimenti selettivi inoltrate dalla Regione Piemonte. Lo fa su parere dell'ISPRA che, a sua volta, si rifà ad un Piano nazionale d'azione per la conservazione del lupo (2002) scritto da un gruppo composto da esperti (di regola filoambientalisti) e dalle stesse organizzazione ambientaliste. Ma la cosa più assurda è che per motivare un parere contrario agli abbattimenti il 'Piano d'azione' si appella alla 'mancanza di informazioni sulla consistenza della popolazione'  ma, soprattutto alle 'obiezioni di parte dell'opinione pubblica'. Ora la politica faccia la sua parte e la pianti con la delega agli ambientalisti.

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Organismi sovranazionali, lobby, Ong e 'scienziati' decidono le politiche della natura (sopra la testa delle popolazioni rurali), è la verdocrazia (10.06.09)

Eco pouvoire è stato definito da alcuni studiosi francesi (a proposito delle politiche di reintroduzione di orsi, lupi e linci). Noi la chiamiamo verdocrazia e dimostriamo quanto sia reale illustrando la genesi del "Pacobace" (il protocollo che 'regola' la presenza dell'orso sulle Alpi centrali).  In un campo tutt'altro che marginale, che influenza non poco l'uso e la vivibilità del territorio,  la politica (quella espressa da rappresentanti eletti democraticamente) è stata espropriata dagli 'esperti', dal WWF, dai burocrati 'verdi' e si limita a 'ratificare' a posteriori quello che questi hanno deciso. Ovviamente senza consultare pastori e contadini.  vai a vedere

 

(17.08.11) Per smascherare la natura ideologica del lupismo (e l'uso politico della scienza ad esso connesso) basta studiare il 'forestalismo' anticontadino e antipastorale  del XIX e XX secolo (e la sua matrice totalitaria)

 

Forestalismo e lupismo: ideologie funzionali alla colonizzazione delle Terre alte   

 

di Michele Corti

 

Non vogliamo che passi un secolo - come è successo per il forestalismo   - prima che la natura di falsa scienza della 'mistica del ritorno dei grandi predatori' sia riconosciuta dalla comunità scientifica e nell'arena pubblica come tale

 

Qualche giorno fa ho pubblicato su questo blog il resoconto della mia visita di studio in val d’Angrogna (vai a vedere) dove il giovane e volenteroso pastore Claudio Buffa deve abbandonare le montagne che frequenta da bambino, dove pascola le sue pecore, dove i suoi vecchi hanno pascolato mucche, pecore e capre perché la difesa dagli attacchi dei lupi impone un impegno fisico e psicologico insostenibili.

E se lo farà perché? Chiariamo subito che se non fossero state fatte delle scelte non democratiche a favore della reintroduzione dei grandi predatori (da parte di organismi quali comitati permanenti di convenzioni internazionali, organi tecnici ‘scientifici’ costituiti da ambientalisti, Parchi) il problema non si porrebbe. Del carattere di ‘governance autoritaria’ di queste forme di biopotere che annullano la rappresentanza democratica dei territori ho già parlato in altra sede, alla quale rimando (La reintroduzione dell'orso e del lupo sulle Alpi: le ragioni degli ecologisti e quelle dei pastori e alpigiani ma non solo in: Confronti. Autonomia lombarda: le idee, i fatti, le esperienze (rivista della presidenza della Regione Lombardia, n. 1/2010, pp. 97-124.

 

Una strategia sin troppo trasparente di colonizzazione materiale e simbolica delle Terre alte

 

Se abili lobby super-organizzate a livello mondiale non avessero promosso con accanimento la reintroduzione dei grandi carnivori in Europa e in altre parti del mondo Claudio, come tanti altri pastori, continuerebbe a fare il suo mestiere dove l'aveva sempre fatto e dove l'avevano fatto i suoi avi. Far sloggiare Claudio dall’alpeggio sotto il Gran Truc (2366), cima che separa la val Pellice dalla val Germanasca, dove il nostro pastore pascola in piena estate,  discende da una scelta precisa mirante allo spopolamento della montagna. Una scelta che vuole togliere di mezzo l'impiccio della presenza dei 'nativi' con i loro diritti, con la loro identità. I pastori, i montanari sono come gli indiani d'america. Altri, forti del potere, vogliono cacciarli e prendere il controllo del territorio montano. Il lupo è un astuto grimaldello. Qualcuno penserà che sono ragionamenti dietrologici un po' cervellotici. Allora lo invito ad analizzare il parallelismo tra la 'riforestazione' nel XIX (e XX) secolo e la 'reintroduzione dei grandi predatori" nel XXI secolo. Vi faccio leggere cosa ha scritto una antropologa americana (con patente di progressismo, neh) che si è occupata delle Alpi francesi.

 

 

 “Visto l’interesse dello Stato nei confronti del patrimonio forestale, conveniva giudicare inadeguata le gestione  contadina del territorio. Terreni a pascolo, terre incolte, brughiere e tutti quei terreni che i contadini consideravano pascoli potevano essere considerate come aree da riforestare e da proteggere  dalla ‘devastazione’ delle greggi di pecore. Eserciti di guardie forestali invasero i villaggi per le loro campagne contro l’allevamento ovino. Ai contadini fu impedito di portare al pascolo le pecore e, talvolta, anche le mucche, nei soliti alpeggi. Negli anni Quaranta diminuì il numero delle greggi negli alti villaggi alpini e i contadini furono privati di uno dei loro principali strumenti di acquisizione di denaro e di partecipazione al mercato. Nel suo rapporto del 1841 un sottoprefetto del Brianzonese notava come la regolamentazione sull’uso delle foreste provocasse una crisi di sussistenza dovuta alla rapida diminuzione delle dimensione delle greggi […] La legislazione forestale non fu d’impedimento ai contadini soltanto nelle loro operazioni produttive e mercantili; fu una minaccia anche per le loro finanze. Gli agenti forestali avevano il potere, che spesso usarono, di comminare multe per importi incredibilmente alti.”

H.G. Rosengerg,  Un mondo negoziato. Tre secoli di trasformazioni in una comunità alpina del Queyras, Carrocci editore/MUCGT, Roma/San Michele all’Adige (Tn), 2000, pp.119-120.

 

Ieri il forestalismo, oggi il lupismo (l'uso politico della scienza a favore degli interessi capitalistici)

 

Quello che vogliono oggi gli interessi sociali forti delle èlites urbane è lo stesso di quello che volevano nelle Alpi (francesi ma non solo) del XIX secolo. Acquisire il controllo del territorio espropriando le comunità locali, mettere le mani sulla montana ricca di risorse. L'acqua pura diventerà più preziosa del petrolio? L'energia da biomasse, solare, eolica, idraulica della montagna sarà sempre più concupita? Buone ragioni per togliere di mezzo qualsiasi presenza sociale organizzata in grado di intralciare un rapace colonialismo. Un secolo e mezzo fa si diceva che bisognava rimboschire le montagne devastate dal 'dissesto idrogeologico' sottraendole al pastoralismo. L'uso politico della scienza al servizio degli interessi capitalistici fu allora sbudorato. Mi sia concentito autocitarmi:

 

L’ing. Surell, un amministratore forestale, nel 1841,  con la sua pubblicazione “Etude sur les torrents des Hautes-Alpes”, elabora la teoria del disboscamento provocato dagli incendi e abuso di pascolo quali fattori detrminanti dell’erosione e della torrenzialità.  [Lo studio di Surell] “divenne la bibbia dell’Amministrazione Forestale Dipartimentale. Quello studio fornì le  argomentazioni per sottrarre ai montanari la gestione delle foreste provando come gli usi comunitativi di pascolare le greggi nelle foreste, oltre al taglio e alla pulizia dei boschi, avessero favorito un incremento delle alluvioni che nei  due secoli precedenti avevano eroso grandi aree delle foreste delle Hautes-Alpes”. Le tesi di Surell ebbero notevole risonanza  e dopo il 1860 vennero fatte proprie da illustri geografi e forestali.  La loro confutazione da parte di diversi studiosi, che misero in evidenza . come la minor copertura dei versanti mediterraneo e meridionale delle Alpi rispetto a quello  settentrionale fossero da mettere in relazione a condizioni di suolo e di clima, non impedì che esse  godettero nel corso del XIX secolo di grande credito, costituendo un esempio paradigmatico dell’uso politico della Scienza.

Va anche osservato che le posizioni del forestalismo alla Surell permangono tutt’oggi nell’impronta ideologica di tanta letteratura forestale e botanica che imputa alle “dissennate pratiche” di gestione [...] La Rosemberg nel suo classico lavoro sul Queyras, ha colto con parole di grande. efficacia il i termini politici e sociologici della questione [sono quelle riportate all'inizio di questo articolo] .Ciò che avvenne in Francia si  verificò, in tempi molto più diluiti e con conseguenze meno  drammatiche (in termini di emigrazione forzata  e spopolamento), anche nelle Alpi italiane, dove l’apparato dello stato centralizzato si costituì più tardi e non restò senza conseguenze neppure nel  paese meno centralista delle Alpi: la Svizzera Qui il “forestalismo scientifico”, con i suoi connotati autoritari, determinò l’introduzione di significative limitazioni all’autonomia cantonale e comunale,  creando uno spazio per l’applicazione coercitiva di misure centralistiche “federali”.

(M.Corti, Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema alimentare: il ruolo della capra nelle comunità alpine della Lombardia e delle aree limitrofe in età moderna e contemporanea in: SM Annali di S. Michele, 19, 2006, pp. 235-340).

 

Le biopolitiche di controllo del territorio sono funzionali al potere centralista e all'indebolimento delle identità etnoculturali e delle comunità

 

Ci vuole poco a capire che oggi i 'grandi predatori' hanno sostituito la 'riforestazione' come pretesto naturalistico e scientifico per imporre un nuovo, più radicale controllo economico, sociale, politico e culturale sulle Terre alte, viste come una 'colonia interna' da sottomettere e sfruttare. La scienza, in questo caso, non solo non è stata neutrale dal punto di vista economico (essendo funzionale agli interessi capitalistici, contro gli interessi deboli della ruralità alpina) ma non lo è stata nemmeno sul piano politico. Le politiche 'della natura' sotto il loro camouflage nascondono precise motivazioni politiche. Quello che Berna non è riuscita a strappare ai cantoni, ai comuni in campo aperto, è riuscita a farlo con la pretesa necessità tecnica e scientifica delle misure forestali, vero grimaldello per scardinare la costizuzione reale del paese in senso centralistico.

Più in generale i Parchi nazionali, le regole sull'utilizzo del territorio sono state in molti paesi giocate contro le minoranze etnolinguistiche, per scardinare le fonti delle loro autonomia economica, per sottomettere alla regolazione di agenzie e organismi centralistici con la finalità di svuotare anche l'anima, l'identità etnoculturale delle popolazioni rurali e montane. Tutti questi 'agenti' veicolano culture cittadine, 'nazionali', 'globali' finalizzate a sradicare le comunità locali dal loro stesso territorio. Un gioco sin troppo scoperto. Al quale le autonomie hanno reagito, associando queste politiche 'della natura' con il centralismo. Basti vedere come gli orsi in Francia sono diventati gli orsi 'di Parigi' e come l'insofferenza per Convenzioni e Direttive che impongono la reintroduzione dei predatori senza poterli tenere a bada sono in diversi paesi viste come un 'regalo di Bruxelle' che alimenta l'avversione all'eurocrazia.

 

Perchè lo fanno?

 

Gli scienziati e i sedicenti tali sono sempre ben disposti a prestarsi a queste operazioni al servizio del potere. In cambio di finanziamenti di progetti, posti fissi ben pagati, cattedre, consulenze, realizzazione di piccoli 'feudi' quali riserve naturali, parchi, centri dei grandi carnivori ecc. ecc.  Ma non solo. Sarebbe riduttivo pensare che i fautori della reintroduzione dei grandi carnivori siano mossi solo da queste motivazioni venali. In loro, come nei forestali (ottocenteschi e novecenteschi), come negli agronomi sovietici, c'è una bramosia di potere, di proiezione, di autoaffermazione. Il potere di cambiare la geografia, di spostare masse umane, di trasformare il territorio; la vertigine prometeica e superominista di forgiare natura e società, di sentirsi esseri superiori in grado di condizionare la vita di masse umane, reputate amorfe e 'inferiori'. È una storia che viene avanti dall'illuminismo, dal giacobinismo (che in Francia ha fatto radici profonde). Che si è espressa in modo tragico con collettivizzazione forzata dell'agricoltura sovietica causa di immani carestie e di distruzione della fertilità del 'granaio d'Europa'. Una storia che ha una costante: la mistificazione sistematica, la manipolazione di dati e fatti in forza di un sentimento di una superiorità intellettuale e morale che giustifica tutto in nome dei propri fini, assolutizzati.

 

Una costante: l'ipocrisia

 

In Ucraina nel 1932-33 morirono sette milioni di contadini in seguito alla carestia provocata dalla requisizione di tutte le scorte alimentari da parte dei comunisti. Era lo ‘sterminio per fame’ , l’holodomor voluto da Stalin e dai suoi. Ma i corrispondenti del New York Times, da bravi ‘progressisti’ filocomunisti scrivevano “Non c’è una vera fame né vi sono morti per fame, ma c’è una larga mortalità da malattie dovute a denutrizione”. (E. Lyons, La stampa camuffa una carestia, 1937, cit. da F. Argentieri ‘Robert Conquest e “The Harvest of Sorrow” Come fu rotta la congiura del silenzio. Presentazione a R. Conquest, Raccolto di dolore, Edizioni Liberal, Roma, 2004, pp. VII-XXIII.

Oggi, per lo più, il conformismo intellettuale impedisce che il  pensiero omologato, con la patente progressista, politicamente corretta, ambientalista, possa essere messo in discussione. E anche a destra ci si adegua. Nel '68 vi era una frangia intellettuale che grazie all'etichetta 'progressista' e di sinistra aveva potuto contestare l'autoritarismo, la tecnocrazia, l'uso politico della scienza al servizio del capitalismo. Nulla di ciò è rimasto. A contestare l'ortodossia si diventa eretici. Solo pochissimi intellettuali  osano proferire parole non in sintonia con il credo ambientalista, parchista (penso a Paolo Rumiz, a Giorgio Conti).

Il pensiero dominante consiglia, se proprio vi piacciono i contadini e i pastori, di adottate (a debita distanza) quelli dei paesi 'poveri'; ma non rompete le scatole a voler difendere i contadini e i pastori nostrani. Non sono mica compañeros campesinos, magari sono anche attaccati a localistiche identità culturali e linguistiche non sempre raccomandabili... (e qui l’irresistibile tendenza della sinistra a dare pagelle di ‘buoni’ e ‘cattivi’ non può fare a meno di riemergere). Paradossalmente mentre il ‘cibo contadino’ è oggetto di quasi unanime e superficiale consenso, mentre si celebrano con ondate successive di revival rurali le perdute e pericolanti civiltà contadine, prosegue – con consenso altrettanto trasversale ed esteso – la pulizia etnica di contadini e pastori fatta di regole ‘igieniche’, burocrazia, sovvenzioni dirottate all’industria camuffata da agricoltura, Parchi, Sic, Zps, Riserve, Reti 2000 e… come ‘soluzione finale’ le care bestiole per le quali le pulsioni affettive sono istillate senza distinguere troppo tra animali in carne, ossa, pelo, artigli e zanne e un peluche (vedasi le campagne del WWF “adotta un cucciolo riceverai un peluche”. Così la confusione tra Winnie Pooh e un bestione che ammazza un cavallo con una ‘carezza’ è completa. 

 

 In Francia vi è una una maggiore autonomia politico-culturale rurale

 

Sfortunatamente poi non siamo in Francia dove sì lo stato giacobino ha martellato, ma dove la ruralità ha avuto sempre una sua cittadinanza, sia pure sotto controllo e funzionale ai fini delle costruzione di un nazionalismo di massa. In Italia destra e sinistra sono sempre state unite dal disprezzo antropologico per la dimensione rurale considerata al massimo con compiacenza paternalistica fin tanto che resta confinata, beninteso, in  unadimensione folklorica e gastronomica. In Francia è la Confederation paysanne (di sinistra) in prima fila a contestare la reintroduzione dei grandi predatori e a giustificare il bracconaggio come atto di resistenza sociale; in Francia si parla apertamente di eco-fascismo e di eco-pouvoire. Niente di ciò in Italia dove, se osi spezzare una lancia a favore dei rurali sei stigmatizzato. Il potere urbano e inossidabile e riesce a far passare per democratico, ecopacifista ciò che è agli antipodi.

Così la pecora e il pastore passano per prevaricatori prepotenti e il lupo e i suoi sponsor per delle vittime.

 

Perennemente a rischio di estinzione?

 

Sempre della serie delle mistificazioni semantiche senza pudore tocca sentire che "in Piemonte il lupo è a rischio di estinzione". Ma come se non c'era più da un secolo, se ha colonizzato tutte le valli di Cuneo e di Torino, se è proseguito in Val d'Aosta, se fa capolino anche in val Sesia e in Ossola? Se i branchi continuano ad aumentare? Cosa significa "pericolo di estinzione" riferito a una specie che non c'era più e che sta colonizzando baldanzosamente il territorio? Come si fa ad essere così farisei? Eppure su La Stampa Giuseppe Canavese vice-direttore del Parco delle Alpi Marittime (la centrale del lupo) ha avuto l'aridire di sostenere che "il lupo in Piemonte è ancora al di sotto del numero minimo". "Minimo per chi". Chi ha stabilito che per ogni km2 ci devono essere tot lupi? Chi ha stabilito che il lupo deve ricolonizzare tutto l'arco alpino se non le lobby autoreferenziali ammantate di scientificità (ma pronte a piegare i dati alle loro convinzioni ideologiche come è avvenuto per la sottovalutazione numerica delle presenza del lupo in Italia, giustificata dalla necessità di tutulare una specie ancora "in pericolo".

E se qualcuno osa obiettare che c’è una questione di equità sociale, con i pastori costretti a vivere come secoli fa per difendere le pecore e i fan del lupo che se ne compiacciono seduti in poltrona in case riscaldate, passa per reazionario, antidemocratico. Il partito del lupo è sostenuto da lobby potenti a livello internazionale e da una opinione pubblica abilmente manipolata dalla propaganda.  Così si ottiene il duplice vantaggio della manipolazione del consenso e della promozione di un 'consumismo verde' fatto di riviste patinate, dvd, ecc.

 

Una strategia ben orchestrata

 

La lobby dei grandi carnivori da anni persegue una politica di manipolazione dei media che consente di avere in ogni redazione o quasi (compresi i quotidiani locali) dei referenti in grado di ‘addolcire’ o censurare le notizie sgradite e di passare ed enfatizzare quelle atte ad implementare la simpatia del pubblico per la reintroduzione dei grandi carnivori. Le istruzioni su come manipolare i media, anestetizzare i contadini e i pastori sono contenute persino in progetti finanziati dall’Unione europea. A conferma della forza di queste cerchie (WWF e dintorni). Praticamente il cliché è uguale in tutto il mondo: nella prima fase della reintroduzione (spontanea o ‘aiutata’ da lanci illegali) la preoccupazione dei lupofili (orsofili e lincio fili) è quella di evitare a tutti i costi che si sappia qualcosa. In questa fase le organizzazioni nazionali e internazionali consigliano a quelle locali di “tenere un basso profilo”. In un ‘campo’ tenutosi in Piemonte lo scorso anno si raccomandava ai membri del WWF in Lombardia di evitare qualsiasi clamore sul lupo. Ciò a differenza del Parco delle Orobie bergamasche che da tempo sbandiera come un trionfo la presenza di diverse femmine e l’avvenuta formazione di piccoli branchi. Il WWF ha una visione più strategica, il Parco deve giustificare le spese e la presa in forza di una esperta orsolupologa.

 

La tattica dei due tempi e quella del carciofo

 

I lupi all’inzio non si fanno notare perché le prede selvatiche sono sufficienti. Poi quando la presenza è consolidata e i danni si fanno sensibili si passa alla fase due: ormai il lupo c’è, è una benedizione del cielo e bisogna tenerlo e rispettarlo come un dio: i pastori si rassegnassero e si equipaggiassero con mute di cani, reticolati ecc. Chi non gradisce assoggettarsi alle misure di ‘protezione delle greggi’ cambi mestiere. La forza del partito del lupo consiste in un coordinamento mondiale, la debolezza dei pastori e dei montanari nella mancanza di reti, di contatti di organizzazione. Facendo conto su quest’ultima il partito del lupo persegue la strategia del carciofo (anch’essa appresa, come le tecniche di disinformatzia e di propaganda, dai regimi e dalle ideologie totalitarie e dalle loro tristemente famose polizie segrete: Gestapo, Gpu, Ceka, Kgb, Stasi).  

La tattica del carciofo consiste nell’impedire che si formi una massa critica di resistenza contadina-pastorale-montanara. Nelle valli dove il lupo (e l’orso) non ci sono ancora si deve evitare il più possibile di parlarne. Non è un caso che i media nazionali osservino una rigida censura (con poche eccezioni) anche su episodi di una certa gravità che hanno coinvolto ‘incontri ravvicinati’ e spiacevoli tra orsi e umani. Dove la presenza dei grandi predatori è incipiente la cautela del partito che sostiene la loro diffusione si fa ancora più forte. La consegna è: “Dare sempre la colpa ai cani finché le prove della presenza dei lupi non possono essere più nascoste”. Una tattica applicata dall’Emilia al Piemonte con le stesse modalità. Quando la presenza dei predatori è consolidata e ormai conclamata allora si passa alla strategia delle minimizzazione dei danni e dei rischi “Da duecento anni non ci sono episodi che coinvolgono l’uomo”. “Gli orsi/lupi non attaccano mai l’uomo”. Balle raccontate in perfetta malafede da gente consapevole di ingannare il prossimo ma che si sente ‘superiore’, che si sente alfiere di una causa ‘superiore’. La plebe non vale nulla e non capisce nulla, balla più balla meno… Agli allevatori e ai pastori si racconta che la convivenza è possibile. L’ipocrisia semantica tipica degli ‘unti del signore’ è lampante. Per ‘convivere’ è necessario che due soggetti decidano autonomamente di farlo. Il lupo non è soggetto consapevole e quindi non può né desiderare, né non desiderare di convivere con le pecore e i pastori. Ad esso interessa riempirsi la pancia nel modo più comodo e meno rischioso. Ma l’altro soggetto, sino a prova contraria è in grado di esprimere un assenso volontario o consapevole. Anche se forse gli intellettuali urbani – che hanno sempre dipinto il rurale come mosso da puri istinti animali, individualisti, utilitaristi - dubitano ancora che il contadino e il pastore abbia una coscienza della stessa qualità della loro. Questa storia della ‘convivenza con il lupo’ assomiglia maledettamente a quella dei contadini "che non morivano di fame ma di denutrizione". La scuola è sempre quella.

 

"Gli altri pastori hanno imparato a convivere, fatevene una ragione"

 

I lupofili poi contano sulla rassegnazione, sul fatto che i pastori 'gettino la spugna'. Così mentre nelle valli dove il lupo non c'è ancora o c'è ma è tenuto in sordina la gente non ha stimoli per mobilitarsi, in quelle già ben colonizzate dal lupo cade nella rassegnazione. Le sole valli nella fase critica, quando la presenza del lupo diventa una tragica realtà da sole non fanno massa, la loro voce, per quanto esasperata non ha la potenza di arrivare ai palazzi. Un altro aspetto 'classico' della strategia della setta del lupo (ma sono cose che valgono anche per l'orso) consiste nel sfruttare le difficoltà di contatti tra gli ambienti rurali di diversi stati e persino regioni. In Lombardia ai pastori gli ambientalisti raccontano che "in Piemonte i pastori hanno adottato i mezzi di difesa e non hanno più molti problemi". In Svizzera raccontano che in Italia c'è una idillica convivenza tra lupi e pecore. In Italia raccontano che i Francesi, grazie a ricchi risarcimenti, si sono 'calmati'. E via discorrendo.

Menzogne pianificate a freddo e cinicamente, da "scuola del male".

Ultimamente, però, in Piemonte (ma non solo) le cose stanno cambiando. Le valli stanno prendendo coscienza che ci si può opporre alla strategia della setta del lupo e la politica ha registrato il grido di dolore. Le voci contro la politica autoritaria e tecnicartica di imposizione della presenza del lupo cominciano a filtrare nel dibattito pubblico. E tra i i lupologi, lupofili, lupomani che credevano nella lotro superiorità intellettuale di sentirsi invincibili un po' di nervosismo comincia a serpeggiare.

 

 Una musica già suonata

 

Oggi fanno alla bisogna gli orsologi, i lupologi, in passato i forestali. Ma le storie sono del tutto parallele. Nel XIX secolo l'anatema contro i contadini e pastori alpini 'deforestatori' (in realtà le responsabilità erano delle industrie siderurgiche e della speculazione, ovvero da parte di interessi urbani) venne lanciato a Nord, come a Sud, a Est come a Ovest delle Alpi. Non importa se le condizioni pedologiche e climatiche fossero radicalmente diverse (per non parlare di quelle economico-sociali). La capra (e in parte la pecora) erano i colpevoli e la 'medicina' era la riforestazione. Oggi la 'medicina' taumaturgica è la reintroduzione delle fiere, dei grandi carnivori. Anche in questo caso ci si attende un miracoloso riequilibrio ambientale, un assunto dato per scontato quale dogma. In realtà i nostri orsolupologi sanno benissimo che la storiella del 'vertice della catena alimentare è buona per i bambini. Gli habitat dove si trovano le prede selvatiche che il lupo e l'orso dovrebbero 'mantenere in equilibrio' sono i più diversi e poi c'è la frammentazione ecologica che inficia il quadretto 'teorico' dei nostri mistificatori. Ci sono situazioni dove per influenze antropiche difficilmente eliminabili (facile è togliere i pastori, meno le autostrade, le Tav volute dagli stessi interessi capitalistici che benedicono la presenza dell'orso e del lupo) le prede vengono a trovarsi in condizioni di difficoltà (in qualche caso anche di vantaggio) di modo che in un caso la predazione può determinare una pericolosa contrazione demografica mentre nell'altro non incide minimamente sulle dinamiche di popolazione.

 

La mistica del 'riequilibrio biologico ad opera del grande predatore'

 

Il non automatismo del controllo dei predatori sugli erbivori selvatici vale anche in condizioni 'naturali', a maggior ragione in condizioni che naturali non sono e non lo torneranno mai perché non esiste una ‘natura’ a prescindere dall’uomo che dell’ecosistema è parte integrante  (a volte sin troppo preponderante, solo che sono ben altri i terreni dove l’uomo deve ridurre la sua impronta e distruggere il pastoralismo va in direzione opposta a quella di un recupero di un rapporto meno distruttivo con il resto della biosfera) .  Basti pensare alle centinaia di piante spontaneizzatesi in Europa dopo il neolitico, alle specie animali ad esse associate. Quanto è ‘innaturale’ il concetto di naturalità dei ‘naturalisti’. A parte le interpretazioni su cosa è ‘naturale’ e cosa è ‘antropico’ resta il fatto incontrovertibile che prede e predatori frequentano quartieri estivi e quartieri invernali. In nche se i pascoli estivi venissero del tutto riconsegnati al folle disegno di ‘ritorno alla wilderness’ l’interazione prede-predatori avverrebbe sempre nei quartieri invernali dove questi ultimi l'impatto antropico e senz'altro più forte e dove, date le condizioni stagionali, la sopravvivenza delle prede è potenzialmente più a rischio. Una volta abbandonata la pastorizia il 'gioco in condizioni teoriche' dell'equilibrio prede-predatori può sempre saltare quindi in inverno. E salterebbe anche qualora i fondovalle venissero desertificati perché il totale abbandono delle attività agropastorali comporterebbe una drastica riduzione delle risorse trofiche per le popolazioni di erbivori selvatici. L’abbandono di ogni coltivazione agricola comporta la riduzione della presenza di formazioni vegetali miste, di fasce ecotonali per lasciare il posto a una compatta e monotona copertura forestale poco adatta al sostentamento degli animali erbivori specie nelle stagioni critiche quali la primavera. Il deserto verde auspicato dal WWF (che protesta per ogni pianta tagliata e non lasciata marcire sul posto consentendo il ritorno della foresta vergine) non è un paradiso per la fauna autoctona che ha sempre prosperato grazie all’uomo che ha dal mesolitico ‘facilitato’ la diffusione dei cervidi (si tratta di conoscenze ecologiche ed eco storiche di base ma che i nostri amici naturalisti fanno finta di ignorare).  Cosa succederebbe con una montagna abbandonata? Che gli erbivori selvatici scenderebbero in pianura e i lupi dietro di loro. Il cervo che ha fatto irruzione in un negozio del centro di Bolzano tre anni fa e i cinghiali a passeggio per le strade di Genova (ma anche di località piemontesi) sono solo l’avvisaglia di questo fenomeno. Un fenomeno, però, che non è compatibile con il comodo gioco alla wilderness in cui, tanto, ci rimettono quei trogloditi dei pastori.

Vorrei tanto che i lupologi, lupofili, lupomani si trovassero un lupo nel giardino di casa della villetta suburbana. Ma a questo punto il gioco lo farebbero finire gli interessi economici forti che oggi lisciano il pelo all’ambientalismo grazie alla oggettiva convergenza di interessi. Ribadisco oggettiva perché non si strumentalizzi quanto da me asserito trasformando nella caricatura di lupologi direttamente pagati dai biechi capitalisti speculatori desiderosi di mettere le mani sulla montagna. .

Ci hanno già provato a caricaturalizzare le mie posizioni ma li invito – nuovamente – a trovare argomentazioni più serie contro le mie.

 

 

           

 

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Il Ministero dell'ambiente risponde picche alle richieste di abbattimenti selettivi inoltrate dalla Regione Piemonte. Lo fa su parere dell'ISPRA che, a sua volta, si rifà ad un Piano nazionale d'azione per la conservazione del lupo (2002) scritto da un gruppo composto da esperti (di regola filoambientalisti) e dalle stesse organizzazione ambientaliste. Ma la cosa più assurda è che per motivare un parere contrario agli abbattimenti il 'Piano d'azione' si appella alla 'mancanza di informazioni sulla consistenza della popolazione'  ma, soprattutto alle 'obiezioni di parte dell'opinione pubblica'. Ora la politica faccia la sua parte e la pianti con la delega agli ambientalisti.

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Organismi sovranazionali, lobby, Ong e 'scienziati' decidono le politiche della natura (sopra la testa delle popolazioni rurali), è la verdocrazia (10.06.09)

Eco pouvoire è stato definito da alcuni studiosi francesi (a proposito delle politiche di reintroduzione di orsi, lupi e linci). Noi la chiamiamo verdocrazia e dimostriamo quanto sia reale illustrando la genesi del "Pacobace" (il protocollo che 'regola' la presenza dell'orso sulle Alpi centrali).  In un campo tutt'altro che marginale, che influenza non poco l'uso e la vivibilità del territorio,  la politica (quella espressa da rappresentanti eletti democraticamente) è stata espropriata dagli 'esperti', dal WWF, dai burocrati 'verdi' e si limita a 'ratificare' a posteriori quello che questi hanno deciso. Ovviamente senza consultare pastori e contadini.  vai a vedere

 

(17.08.11) Per smascherare la natura ideologica del lupismo (e l'uso politico della scienza ad esso connesso) basta studiare il 'forestalismo' anticontadino e antipastorale  del XIX e XX secolo (e la sua matrice totalitaria)

 

Forestalismo e lupismo: ideologie funzionali alla colonizzazione delle Terre alte   

 

di Michele Corti

 

Non vogliamo che passi un secolo - come è successo per il forestalismo   - prima che la natura di falsa scienza della 'mistica del ritorno dei grandi predatori' sia riconosciuta dalla comunità scientifica e nell'arena pubblica come tale

 

Qualche giorno fa ho pubblicato su questo blog il resoconto della mia visita di studio in val d’Angrogna (vai a vedere) dove il giovane e volenteroso pastore Claudio Buffa deve abbandonare le montagne che frequenta da bambino, dove pascola le sue pecore, dove i suoi vecchi hanno pascolato mucche, pecore e capre perché la difesa dagli attacchi dei lupi impone un impegno fisico e psicologico insostenibili.

E se lo farà perché? Chiariamo subito che se non fossero state fatte delle scelte non democratiche a favore della reintroduzione dei grandi predatori (da parte di organismi quali comitati permanenti di convenzioni internazionali, organi tecnici ‘scientifici’ costituiti da ambientalisti, Parchi) il problema non si porrebbe. Del carattere di ‘governance autoritaria’ di queste forme di biopotere che annullano la rappresentanza democratica dei territori ho già parlato in altra sede, alla quale rimando (La reintroduzione dell'orso e del lupo sulle Alpi: le ragioni degli ecologisti e quelle dei pastori e alpigiani ma non solo in: Confronti. Autonomia lombarda: le idee, i fatti, le esperienze (rivista della presidenza della Regione Lombardia, n. 1/2010, pp. 97-124.

 

Una strategia sin troppo trasparente di colonizzazione materiale e simbolica delle Terre alte

 

Se abili lobby super-organizzate a livello mondiale non avessero promosso con accanimento la reintroduzione dei grandi carnivori in Europa e in altre parti del mondo Claudio, come tanti altri pastori, continuerebbe a fare il suo mestiere dove l'aveva sempre fatto e dove l'avevano fatto i suoi avi. Far sloggiare Claudio dall’alpeggio sotto il Gran Truc (2366), cima che separa la val Pellice dalla val Germanasca, dove il nostro pastore pascola in piena estate,  discende da una scelta precisa mirante allo spopolamento della montagna. Una scelta che vuole togliere di mezzo l'impiccio della presenza dei 'nativi' con i loro diritti, con la loro identità. I pastori, i montanari sono come gli indiani d'america. Altri, forti del potere, vogliono cacciarli e prendere il controllo del territorio montano. Il lupo è un astuto grimaldello. Qualcuno penserà che sono ragionamenti dietrologici un po' cervellotici. Allora lo invito ad analizzare il parallelismo tra la 'riforestazione' nel XIX (e XX) secolo e la 'reintroduzione dei grandi predatori" nel XXI secolo. Vi faccio leggere cosa ha scritto una antropologa americana (con patente di progressismo, neh) che si è occupata delle Alpi francesi.

 

 

 “Visto l’interesse dello Stato nei confronti del patrimonio forestale, conveniva giudicare inadeguata le gestione  contadina del territorio. Terreni a pascolo, terre incolte, brughiere e tutti quei terreni che i contadini consideravano pascoli potevano essere considerate come aree da riforestare e da proteggere  dalla ‘devastazione’ delle greggi di pecore. Eserciti di guardie forestali invasero i villaggi per le loro campagne contro l’allevamento ovino. Ai contadini fu impedito di portare al pascolo le pecore e, talvolta, anche le mucche, nei soliti alpeggi. Negli anni Quaranta diminuì il numero delle greggi negli alti villaggi alpini e i contadini furono privati di uno dei loro principali strumenti di acquisizione di denaro e di partecipazione al mercato. Nel suo rapporto del 1841 un sottoprefetto del Brianzonese notava come la regolamentazione sull’uso delle foreste provocasse una crisi di sussistenza dovuta alla rapida diminuzione delle dimensione delle greggi […] La legislazione forestale non fu d’impedimento ai contadini soltanto nelle loro operazioni produttive e mercantili; fu una minaccia anche per le loro finanze. Gli agenti forestali avevano il potere, che spesso usarono, di comminare multe per importi incredibilmente alti.”

H.G. Rosengerg,  Un mondo negoziato. Tre secoli di trasformazioni in una comunità alpina del Queyras, Carrocci editore/MUCGT, Roma/San Michele all’Adige (Tn), 2000, pp.119-120.

 

Ieri il forestalismo, oggi il lupismo (l'uso politico della scienza a favore degli interessi capitalistici)

 

Quello che vogliono oggi gli interessi sociali forti delle èlites urbane è lo stesso di quello che volevano nelle Alpi (francesi ma non solo) del XIX secolo. Acquisire il controllo del territorio espropriando le comunità locali, mettere le mani sulla montana ricca di risorse. L'acqua pura diventerà più preziosa del petrolio? L'energia da biomasse, solare, eolica, idraulica della montagna sarà sempre più concupita? Buone ragioni per togliere di mezzo qualsiasi presenza sociale organizzata in grado di intralciare un rapace colonialismo. Un secolo e mezzo fa si diceva che bisognava rimboschire le montagne devastate dal 'dissesto idrogeologico' sottraendole al pastoralismo. L'uso politico della scienza al servizio degli interessi capitalistici fu allora sbudorato. Mi sia concentito autocitarmi:

 

L’ing. Surell, un amministratore forestale, nel 1841,  con la sua pubblicazione “Etude sur les torrents des Hautes-Alpes”, elabora la teoria del disboscamento provocato dagli incendi e abuso di pascolo quali fattori detrminanti dell’erosione e della torrenzialità.  [Lo studio di Surell] “divenne la bibbia dell’Amministrazione Forestale Dipartimentale. Quello studio fornì le  argomentazioni per sottrarre ai montanari la gestione delle foreste provando come gli usi comunitativi di pascolare le greggi nelle foreste, oltre al taglio e alla pulizia dei boschi, avessero favorito un incremento delle alluvioni che nei  due secoli precedenti avevano eroso grandi aree delle foreste delle Hautes-Alpes”. Le tesi di Surell ebbero notevole risonanza  e dopo il 1860 vennero fatte proprie da illustri geografi e forestali.  La loro confutazione da parte di diversi studiosi, che misero in evidenza . come la minor copertura dei versanti mediterraneo e meridionale delle Alpi rispetto a quello  settentrionale fossero da mettere in relazione a condizioni di suolo e di clima, non impedì che esse  godettero nel corso del XIX secolo di grande credito, costituendo un esempio paradigmatico dell’uso politico della Scienza.

Va anche osservato che le posizioni del forestalismo alla Surell permangono tutt’oggi nell’impronta ideologica di tanta letteratura forestale e botanica che imputa alle “dissennate pratiche” di gestione [...] La Rosemberg nel suo classico lavoro sul Queyras, ha colto con parole di grande. efficacia il i termini politici e sociologici della questione [sono quelle riportate all'inizio di questo articolo] .Ciò che avvenne in Francia si  verificò, in tempi molto più diluiti e con conseguenze meno  drammatiche (in termini di emigrazione forzata  e spopolamento), anche nelle Alpi italiane, dove l’apparato dello stato centralizzato si costituì più tardi e non restò senza conseguenze neppure nel  paese meno centralista delle Alpi: la Svizzera Qui il “forestalismo scientifico”, con i suoi connotati autoritari, determinò l’introduzione di significative limitazioni all’autonomia cantonale e comunale,  creando uno spazio per l’applicazione coercitiva di misure centralistiche “federali”.

(M.Corti, Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema alimentare: il ruolo della capra nelle comunità alpine della Lombardia e delle aree limitrofe in età moderna e contemporanea in: SM Annali di S. Michele, 19, 2006, pp. 235-340).

 

Le biopolitiche di controllo del territorio sono funzionali al potere centralista e all'indebolimento delle identità etnoculturali e delle comunità

 

Ci vuole poco a capire che oggi i 'grandi predatori' hanno sostituito la 'riforestazione' come pretesto naturalistico e scientifico per imporre un nuovo, più radicale controllo economico, sociale, politico e culturale sulle Terre alte, viste come una 'colonia interna' da sottomettere e sfruttare. La scienza, in questo caso, non solo non è stata neutrale dal punto di vista economico (essendo funzionale agli interessi capitalistici, contro gli interessi deboli della ruralità alpina) ma non lo è stata nemmeno sul piano politico. Le politiche 'della natura' sotto il loro camouflage nascondono precise motivazioni politiche. Quello che Berna non è riuscita a strappare ai cantoni, ai comuni in campo aperto, è riuscita a farlo con la pretesa necessità tecnica e scientifica delle misure forestali, vero grimaldello per scardinare la costizuzione reale del paese in senso centralistico.

Più in generale i Parchi nazionali, le regole sull'utilizzo del territorio sono state in molti paesi giocate contro le minoranze etnolinguistiche, per scardinare le fonti delle loro autonomia economica, per sottomettere alla regolazione di agenzie e organismi centralistici con la finalità di svuotare anche l'anima, l'identità etnoculturale delle popolazioni rurali e montane. Tutti questi 'agenti' veicolano culture cittadine, 'nazionali', 'globali' finalizzate a sradicare le comunità locali dal loro stesso territorio. Un gioco sin troppo scoperto. Al quale le autonomie hanno reagito, associando queste politiche 'della natura' con il centralismo. Basti vedere come gli orsi in Francia sono diventati gli orsi 'di Parigi' e come l'insofferenza per Convenzioni e Direttive che impongono la reintroduzione dei predatori senza poterli tenere a bada sono in diversi paesi viste come un 'regalo di Bruxelle' che alimenta l'avversione all'eurocrazia.

 

Perchè lo fanno?

 

Gli scienziati e i sedicenti tali sono sempre ben disposti a prestarsi a queste operazioni al servizio del potere. In cambio di finanziamenti di progetti, posti fissi ben pagati, cattedre, consulenze, realizzazione di piccoli 'feudi' quali riserve naturali, parchi, centri dei grandi carnivori ecc. ecc.  Ma non solo. Sarebbe riduttivo pensare che i fautori della reintroduzione dei grandi carnivori siano mossi solo da queste motivazioni venali. In loro, come nei forestali (ottocenteschi e novecenteschi), come negli agronomi sovietici, c'è una bramosia di potere, di proiezione, di autoaffermazione. Il potere di cambiare la geografia, di spostare masse umane, di trasformare il territorio; la vertigine prometeica e superominista di forgiare natura e società, di sentirsi esseri superiori in grado di condizionare la vita di masse umane, reputate amorfe e 'inferiori'. È una storia che viene avanti dall'illuminismo, dal giacobinismo (che in Francia ha fatto radici profonde). Che si è espressa in modo tragico con collettivizzazione forzata dell'agricoltura sovietica causa di immani carestie e di distruzione della fertilità del 'granaio d'Europa'. Una storia che ha una costante: la mistificazione sistematica, la manipolazione di dati e fatti in forza di un sentimento di una superiorità intellettuale e morale che giustifica tutto in nome dei propri fini, assolutizzati.

 

Una costante: l'ipocrisia

 

In Ucraina nel 1932-33 morirono sette milioni di contadini in seguito alla carestia provocata dalla requisizione di tutte le scorte alimentari da parte dei comunisti. Era lo ‘sterminio per fame’ , l’holodomor voluto da Stalin e dai suoi. Ma i corrispondenti del New York Times, da bravi ‘progressisti’ filocomunisti scrivevano “Non c’è una vera fame né vi sono morti per fame, ma c’è una larga mortalità da malattie dovute a denutrizione”. (E. Lyons, La stampa camuffa una carestia, 1937, cit. da F. Argentieri ‘Robert Conquest e “The Harvest of Sorrow” Come fu rotta la congiura del silenzio. Presentazione a R. Conquest, Raccolto di dolore, Edizioni Liberal, Roma, 2004, pp. VII-XXIII.

Oggi, per lo più, il conformismo intellettuale impedisce che il  pensiero omologato, con la patente progressista, politicamente corretta, ambientalista, possa essere messo in discussione. E anche a destra ci si adegua. Nel '68 vi era una frangia intellettuale che grazie all'etichetta 'progressista' e di sinistra aveva potuto contestare l'autoritarismo, la tecnocrazia, l'uso politico della scienza al servizio del capitalismo. Nulla di ciò è rimasto. A contestare l'ortodossia si diventa eretici. Solo pochissimi intellettuali  osano proferire parole non in sintonia con il credo ambientalista, parchista (penso a Paolo Rumiz, a Giorgio Conti).

Il pensiero dominante consiglia, se proprio vi piacciono i contadini e i pastori, di adottate (a debita distanza) quelli dei paesi 'poveri'; ma non rompete le scatole a voler difendere i contadini e i pastori nostrani. Non sono mica compañeros campesinos, magari sono anche attaccati a localistiche identità culturali e linguistiche non sempre raccomandabili... (e qui l’irresistibile tendenza della sinistra a dare pagelle di ‘buoni’ e ‘cattivi’ non può fare a meno di riemergere). Paradossalmente mentre il ‘cibo contadino’ è oggetto di quasi unanime e superficiale consenso, mentre si celebrano con ondate successive di revival rurali le perdute e pericolanti civiltà contadine, prosegue – con consenso altrettanto trasversale ed esteso – la pulizia etnica di contadini e pastori fatta di regole ‘igieniche’, burocrazia, sovvenzioni dirottate all’industria camuffata da agricoltura, Parchi, Sic, Zps, Riserve, Reti 2000 e… come ‘soluzione finale’ le care bestiole per le quali le pulsioni affettive sono istillate senza distinguere troppo tra animali in carne, ossa, pelo, artigli e zanne e un peluche (vedasi le campagne del WWF “adotta un cucciolo riceverai un peluche”. Così la confusione tra Winnie Pooh e un bestione che ammazza un cavallo con una ‘carezza’ è completa. 

 

 In Francia vi è una una maggiore autonomia politico-culturale rurale

 

Sfortunatamente poi non siamo in Francia dove sì lo stato giacobino ha martellato, ma dove la ruralità ha avuto sempre una sua cittadinanza, sia pure sotto controllo e funzionale ai fini delle costruzione di un nazionalismo di massa. In Italia destra e sinistra sono sempre state unite dal disprezzo antropologico per la dimensione rurale considerata al massimo con compiacenza paternalistica fin tanto che resta confinata, beninteso, in  unadimensione folklorica e gastronomica. In Francia è la Confederation paysanne (di sinistra) in prima fila a contestare la reintroduzione dei grandi predatori e a giustificare il bracconaggio come atto di resistenza sociale; in Francia si parla apertamente di eco-fascismo e di eco-pouvoire. Niente di ciò in Italia dove, se osi spezzare una lancia a favore dei rurali sei stigmatizzato. Il potere urbano e inossidabile e riesce a far passare per democratico, ecopacifista ciò che è agli antipodi.

Così la pecora e il pastore passano per prevaricatori prepotenti e il lupo e i suoi sponsor per delle vittime.

 

Perennemente a rischio di estinzione?

 

Sempre della serie delle mistificazioni semantiche senza pudore tocca sentire che "in Piemonte il lupo è a rischio di estinzione". Ma come se non c'era più da un secolo, se ha colonizzato tutte le valli di Cuneo e di Torino, se è proseguito in Val d'Aosta, se fa capolino anche in val Sesia e in Ossola? Se i branchi continuano ad aumentare? Cosa significa "pericolo di estinzione" riferito a una specie che non c'era più e che sta colonizzando baldanzosamente il territorio? Come si fa ad essere così farisei? Eppure su La Stampa Giuseppe Canavese vice-direttore del Parco delle Alpi Marittime (la centrale del lupo) ha avuto l'aridire di sostenere che "il lupo in Piemonte è ancora al di sotto del numero minimo". "Minimo per chi". Chi ha stabilito che per ogni km2 ci devono essere tot lupi? Chi ha stabilito che il lupo deve ricolonizzare tutto l'arco alpino se non le lobby autoreferenziali ammantate di scientificità (ma pronte a piegare i dati alle loro convinzioni ideologiche come è avvenuto per la sottovalutazione numerica delle presenza del lupo in Italia, giustificata dalla necessità di tutulare una specie ancora "in pericolo".

E se qualcuno osa obiettare che c’è una questione di equità sociale, con i pastori costretti a vivere come secoli fa per difendere le pecore e i fan del lupo che se ne compiacciono seduti in poltrona in case riscaldate, passa per reazionario, antidemocratico. Il partito del lupo è sostenuto da lobby potenti a livello internazionale e da una opinione pubblica abilmente manipolata dalla propaganda.  Così si ottiene il duplice vantaggio della manipolazione del consenso e della promozione di un 'consumismo verde' fatto di riviste patinate, dvd, ecc.

 

Una strategia ben orchestrata

 

La lobby dei grandi carnivori da anni persegue una politica di manipolazione dei media che consente di avere in ogni redazione o quasi (compresi i quotidiani locali) dei referenti in grado di ‘addolcire’ o censurare le notizie sgradite e di passare ed enfatizzare quelle atte ad implementare la simpatia del pubblico per la reintroduzione dei grandi carnivori. Le istruzioni su come manipolare i media, anestetizzare i contadini e i pastori sono contenute persino in progetti finanziati dall’Unione europea. A conferma della forza di queste cerchie (WWF e dintorni). Praticamente il cliché è uguale in tutto il mondo: nella prima fase della reintroduzione (spontanea o ‘aiutata’ da lanci illegali) la preoccupazione dei lupofili (orsofili e lincio fili) è quella di evitare a tutti i costi che si sappia qualcosa. In questa fase le organizzazioni nazionali e internazionali consigliano a quelle locali di “tenere un basso profilo”. In un ‘campo’ tenutosi in Piemonte lo scorso anno si raccomandava ai membri del WWF in Lombardia di evitare qualsiasi clamore sul lupo. Ciò a differenza del Parco delle Orobie bergamasche che da tempo sbandiera come un trionfo la presenza di diverse femmine e l’avvenuta formazione di piccoli branchi. Il WWF ha una visione più strategica, il Parco deve giustificare le spese e la presa in forza di una esperta orsolupologa.

 

La tattica dei due tempi e quella del carciofo

 

I lupi all’inzio non si fanno notare perché le prede selvatiche sono sufficienti. Poi quando la presenza è consolidata e i danni si fanno sensibili si passa alla fase due: ormai il lupo c’è, è una benedizione del cielo e bisogna tenerlo e rispettarlo come un dio: i pastori si rassegnassero e si equipaggiassero con mute di cani, reticolati ecc. Chi non gradisce assoggettarsi alle misure di ‘protezione delle greggi’ cambi mestiere. La forza del partito del lupo consiste in un coordinamento mondiale, la debolezza dei pastori e dei montanari nella mancanza di reti, di contatti di organizzazione. Facendo conto su quest’ultima il partito del lupo persegue la strategia del carciofo (anch’essa appresa, come le tecniche di disinformatzia e di propaganda, dai regimi e dalle ideologie totalitarie e dalle loro tristemente famose polizie segrete: Gestapo, Gpu, Ceka, Kgb, Stasi).  

La tattica del carciofo consiste nell’impedire che si formi una massa critica di resistenza contadina-pastorale-montanara. Nelle valli dove il lupo (e l’orso) non ci sono ancora si deve evitare il più possibile di parlarne. Non è un caso che i media nazionali osservino una rigida censura (con poche eccezioni) anche su episodi di una certa gravità che hanno coinvolto ‘incontri ravvicinati’ e spiacevoli tra orsi e umani. Dove la presenza dei grandi predatori è incipiente la cautela del partito che sostiene la loro diffusione si fa ancora più forte. La consegna è: “Dare sempre la colpa ai cani finché le prove della presenza dei lupi non possono essere più nascoste”. Una tattica applicata dall’Emilia al Piemonte con le stesse modalità. Quando la presenza dei predatori è consolidata e ormai conclamata allora si passa alla strategia delle minimizzazione dei danni e dei rischi “Da duecento anni non ci sono episodi che coinvolgono l’uomo”. “Gli orsi/lupi non attaccano mai l’uomo”. Balle raccontate in perfetta malafede da gente consapevole di ingannare il prossimo ma che si sente ‘superiore’, che si sente alfiere di una causa ‘superiore’. La plebe non vale nulla e non capisce nulla, balla più balla meno… Agli allevatori e ai pastori si racconta che la convivenza è possibile. L’ipocrisia semantica tipica degli ‘unti del signore’ è lampante. Per ‘convivere’ è necessario che due soggetti decidano autonomamente di farlo. Il lupo non è soggetto consapevole e quindi non può né desiderare, né non desiderare di convivere con le pecore e i pastori. Ad esso interessa riempirsi la pancia nel modo più comodo e meno rischioso. Ma l’altro soggetto, sino a prova contraria è in grado di esprimere un assenso volontario o consapevole. Anche se forse gli intellettuali urbani – che hanno sempre dipinto il rurale come mosso da puri istinti animali, individualisti, utilitaristi - dubitano ancora che il contadino e il pastore abbia una coscienza della stessa qualità della loro. Questa storia della ‘convivenza con il lupo’ assomiglia maledettamente a quella dei contadini "che non morivano di fame ma di denutrizione". La scuola è sempre quella.

 

"Gli altri pastori hanno imparato a convivere, fatevene una ragione"

 

I lupofili poi contano sulla rassegnazione, sul fatto che i pastori 'gettino la spugna'. Così mentre nelle valli dove il lupo non c'è ancora o c'è ma è tenuto in sordina la gente non ha stimoli per mobilitarsi, in quelle già ben colonizzate dal lupo cade nella rassegnazione. Le sole valli nella fase critica, quando la presenza del lupo diventa una tragica realtà da sole non fanno massa, la loro voce, per quanto esasperata non ha la potenza di arrivare ai palazzi. Un altro aspetto 'classico' della strategia della setta del lupo (ma sono cose che valgono anche per l'orso) consiste nel sfruttare le difficoltà di contatti tra gli ambienti rurali di diversi stati e persino regioni. In Lombardia ai pastori gli ambientalisti raccontano che "in Piemonte i pastori hanno adottato i mezzi di difesa e non hanno più molti problemi". In Svizzera raccontano che in Italia c'è una idillica convivenza tra lupi e pecore. In Italia raccontano che i Francesi, grazie a ricchi risarcimenti, si sono 'calmati'. E via discorrendo.

Menzogne pianificate a freddo e cinicamente, da "scuola del male".

Ultimamente, però, in Piemonte (ma non solo) le cose stanno cambiando. Le valli stanno prendendo coscienza che ci si può opporre alla strategia della setta del lupo e la politica ha registrato il grido di dolore. Le voci contro la politica autoritaria e tecnicartica di imposizione della presenza del lupo cominciano a filtrare nel dibattito pubblico. E tra i i lupologi, lupofili, lupomani che credevano nella lotro superiorità intellettuale di sentirsi invincibili un po' di nervosismo comincia a serpeggiare.

 

 Una musica già suonata

 

Oggi fanno alla bisogna gli orsologi, i lupologi, in passato i forestali. Ma le storie sono del tutto parallele. Nel XIX secolo l'anatema contro i contadini e pastori alpini 'deforestatori' (in realtà le responsabilità erano delle industrie siderurgiche e della speculazione, ovvero da parte di interessi urbani) venne lanciato a Nord, come a Sud, a Est come a Ovest delle Alpi. Non importa se le condizioni pedologiche e climatiche fossero radicalmente diverse (per non parlare di quelle economico-sociali). La capra (e in parte la pecora) erano i colpevoli e la 'medicina' era la riforestazione. Oggi la 'medicina' taumaturgica è la reintroduzione delle fiere, dei grandi carnivori. Anche in questo caso ci si attende un miracoloso riequilibrio ambientale, un assunto dato per scontato quale dogma. In realtà i nostri orsolupologi sanno benissimo che la storiella del 'vertice della catena alimentare è buona per i bambini. Gli habitat dove si trovano le prede selvatiche che il lupo e l'orso dovrebbero 'mantenere in equilibrio' sono i più diversi e poi c'è la frammentazione ecologica che inficia il quadretto 'teorico' dei nostri mistificatori. Ci sono situazioni dove per influenze antropiche difficilmente eliminabili (facile è togliere i pastori, meno le autostrade, le Tav volute dagli stessi interessi capitalistici che benedicono la presenza dell'orso e del lupo) le prede vengono a trovarsi in condizioni di difficoltà (in qualche caso anche di vantaggio) di modo che in un caso la predazione può determinare una pericolosa contrazione demografica mentre nell'altro non incide minimamente sulle dinamiche di popolazione.

 

La mistica del 'riequilibrio biologico ad opera del grande predatore'

 

Il non automatismo del controllo dei predatori sugli erbivori selvatici vale anche in condizioni 'naturali', a maggior ragione in condizioni che naturali non sono e non lo torneranno mai perché non esiste una ‘natura’ a prescindere dall’uomo che dell’ecosistema è parte integrante  (a volte sin troppo preponderante, solo che sono ben altri i terreni dove l’uomo deve ridurre la sua impronta e distruggere il pastoralismo va in direzione opposta a quella di un recupero di un rapporto meno distruttivo con il resto della biosfera) .  Basti pensare alle centinaia di piante spontaneizzatesi in Europa dopo il neolitico, alle specie animali ad esse associate. Quanto è ‘innaturale’ il concetto di naturalità dei ‘naturalisti’. A parte le interpretazioni su cosa è ‘naturale’ e cosa è ‘antropico’ resta il fatto incontrovertibile che prede e predatori frequentano quartieri estivi e quartieri invernali. In nche se i pascoli estivi venissero del tutto riconsegnati al folle disegno di ‘ritorno alla wilderness’ l’interazione prede-predatori avverrebbe sempre nei quartieri invernali dove questi ultimi l'impatto antropico e senz'altro più forte e dove, date le condizioni stagionali, la sopravvivenza delle prede è potenzialmente più a rischio. Una volta abbandonata la pastorizia il 'gioco in condizioni teoriche' dell'equilibrio prede-predatori può sempre saltare quindi in inverno. E salterebbe anche qualora i fondovalle venissero desertificati perché il totale abbandono delle attività agropastorali comporterebbe una drastica riduzione delle risorse trofiche per le popolazioni di erbivori selvatici. L’abbandono di ogni coltivazione agricola comporta la riduzione della presenza di formazioni vegetali miste, di fasce ecotonali per lasciare il posto a una compatta e monotona copertura forestale poco adatta al sostentamento degli animali erbivori specie nelle stagioni critiche quali la primavera. Il deserto verde auspicato dal WWF (che protesta per ogni pianta tagliata e non lasciata marcire sul posto consentendo il ritorno della foresta vergine) non è un paradiso per la fauna autoctona che ha sempre prosperato grazie all’uomo che ha dal mesolitico ‘facilitato’ la diffusione dei cervidi (si tratta di conoscenze ecologiche ed eco storiche di base ma che i nostri amici naturalisti fanno finta di ignorare).  Cosa succederebbe con una montagna abbandonata? Che gli erbivori selvatici scenderebbero in pianura e i lupi dietro di loro. Il cervo che ha fatto irruzione in un negozio del centro di Bolzano tre anni fa e i cinghiali a passeggio per le strade di Genova (ma anche di località piemontesi) sono solo l’avvisaglia di questo fenomeno. Un fenomeno, però, che non è compatibile con il comodo gioco alla wilderness in cui, tanto, ci rimettono quei trogloditi dei pastori.

Vorrei tanto che i lupologi, lupofili, lupomani si trovassero un lupo nel giardino di casa della villetta suburbana. Ma a questo punto il gioco lo farebbero finire gli interessi economici forti che oggi lisciano il pelo all’ambientalismo grazie alla oggettiva convergenza di interessi. Ribadisco oggettiva perché non si strumentalizzi quanto da me asserito trasformando nella caricatura di lupologi direttamente pagati dai biechi capitalisti speculatori desiderosi di mettere le mani sulla montagna. .

Ci hanno già provato a caricaturalizzare le mie posizioni ma li invito – nuovamente – a trovare argomentazioni più serie contro le mie.

 

 

           

 

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Organismi sovranazionali, lobby, Ong e 'scienziati' decidono le politiche della natura (sopra la testa delle popolazioni rurali), è la verdocrazia (10.06.09)

Eco pouvoire è stato definito da alcuni studiosi francesi (a proposito delle politiche di reintroduzione di orsi, lupi e linci). Noi la chiamiamo verdocrazia e dimostriamo quanto sia reale illustrando la genesi del "Pacobace" (il protocollo che 'regola' la presenza dell'orso sulle Alpi centrali).  In un campo tutt'altro che marginale, che influenza non poco l'uso e la vivibilità del territorio,  la politica (quella espressa da rappresentanti eletti democraticamente) è stata espropriata dagli 'esperti', dal WWF, dai burocrati 'verdi' e si limita a 'ratificare' a posteriori quello che questi hanno deciso. Ovviamente senza consultare pastori e contadini.  vai a vedere

 

(17.08.11) Per smascherare la natura ideologica del lupismo (e l'uso politico della scienza ad esso connesso) basta studiare il 'forestalismo' anticontadino e antipastorale  del XIX e XX secolo (e la sua matrice totalitaria)

 

Forestalismo e lupismo: ideologie funzionali alla colonizzazione delle Terre alte   

 

di Michele Corti

 

Non vogliamo che passi un secolo - come è successo per il forestalismo   - prima che la natura di falsa scienza della 'mistica del ritorno dei grandi predatori' sia riconosciuta dalla comunità scientifica e nell'arena pubblica come tale

 

Qualche giorno fa ho pubblicato su questo blog il resoconto della mia visita di studio in val d’Angrogna (vai a vedere) dove il giovane e volenteroso pastore Claudio Buffa deve abbandonare le montagne che frequenta da bambino, dove pascola le sue pecore, dove i suoi vecchi hanno pascolato mucche, pecore e capre perché la difesa dagli attacchi dei lupi impone un impegno fisico e psicologico insostenibili.

E se lo farà perché? Chiariamo subito che se non fossero state fatte delle scelte non democratiche a favore della reintroduzione dei grandi predatori (da parte di organismi quali comitati permanenti di convenzioni internazionali, organi tecnici ‘scientifici’ costituiti da ambientalisti, Parchi) il problema non si porrebbe. Del carattere di ‘governance autoritaria’ di queste forme di biopotere che annullano la rappresentanza democratica dei territori ho già parlato in altra sede, alla quale rimando (La reintroduzione dell'orso e del lupo sulle Alpi: le ragioni degli ecologisti e quelle dei pastori e alpigiani ma non solo in: Confronti. Autonomia lombarda: le idee, i fatti, le esperienze (rivista della presidenza della Regione Lombardia, n. 1/2010, pp. 97-124.

 

Una strategia sin troppo trasparente di colonizzazione materiale e simbolica delle Terre alte

 

Se abili lobby super-organizzate a livello mondiale non avessero promosso con accanimento la reintroduzione dei grandi carnivori in Europa e in altre parti del mondo Claudio, come tanti altri pastori, continuerebbe a fare il suo mestiere dove l'aveva sempre fatto e dove l'avevano fatto i suoi avi. Far sloggiare Claudio dall’alpeggio sotto il Gran Truc (2366), cima che separa la val Pellice dalla val Germanasca, dove il nostro pastore pascola in piena estate,  discende da una scelta precisa mirante allo spopolamento della montagna. Una scelta che vuole togliere di mezzo l'impiccio della presenza dei 'nativi' con i loro diritti, con la loro identità. I pastori, i montanari sono come gli indiani d'america. Altri, forti del potere, vogliono cacciarli e prendere il controllo del territorio montano. Il lupo è un astuto grimaldello. Qualcuno penserà che sono ragionamenti dietrologici un po' cervellotici. Allora lo invito ad analizzare il parallelismo tra la 'riforestazione' nel XIX (e XX) secolo e la 'reintroduzione dei grandi predatori" nel XXI secolo. Vi faccio leggere cosa ha scritto una antropologa americana (con patente di progressismo, neh) che si è occupata delle Alpi francesi.

 

 

 “Visto l’interesse dello Stato nei confronti del patrimonio forestale, conveniva giudicare inadeguata le gestione  contadina del territorio. Terreni a pascolo, terre incolte, brughiere e tutti quei terreni che i contadini consideravano pascoli potevano essere considerate come aree da riforestare e da proteggere  dalla ‘devastazione’ delle greggi di pecore. Eserciti di guardie forestali invasero i villaggi per le loro campagne contro l’allevamento ovino. Ai contadini fu impedito di portare al pascolo le pecore e, talvolta, anche le mucche, nei soliti alpeggi. Negli anni Quaranta diminuì il numero delle greggi negli alti villaggi alpini e i contadini furono privati di uno dei loro principali strumenti di acquisizione di denaro e di partecipazione al mercato. Nel suo rapporto del 1841 un sottoprefetto del Brianzonese notava come la regolamentazione sull’uso delle foreste provocasse una crisi di sussistenza dovuta alla rapida diminuzione delle dimensione delle greggi […] La legislazione forestale non fu d’impedimento ai contadini soltanto nelle loro operazioni produttive e mercantili; fu una minaccia anche per le loro finanze. Gli agenti forestali avevano il potere, che spesso usarono, di comminare multe per importi incredibilmente alti.”

H.G. Rosengerg,  Un mondo negoziato. Tre secoli di trasformazioni in una comunità alpina del Queyras, Carrocci editore/MUCGT, Roma/San Michele all’Adige (Tn), 2000, pp.119-120.

 

Ieri il forestalismo, oggi il lupismo (l'uso politico della scienza a favore degli interessi capitalistici)

 

Quello che vogliono oggi gli interessi sociali forti delle èlites urbane è lo stesso di quello che volevano nelle Alpi (francesi ma non solo) del XIX secolo. Acquisire il controllo del territorio espropriando le comunità locali, mettere le mani sulla montana ricca di risorse. L'acqua pura diventerà più preziosa del petrolio? L'energia da biomasse, solare, eolica, idraulica della montagna sarà sempre più concupita? Buone ragioni per togliere di mezzo qualsiasi presenza sociale organizzata in grado di intralciare un rapace colonialismo. Un secolo e mezzo fa si diceva che bisognava rimboschire le montagne devastate dal 'dissesto idrogeologico' sottraendole al pastoralismo. L'uso politico della scienza al servizio degli interessi capitalistici fu allora sbudorato. Mi sia concentito autocitarmi:

 

L’ing. Surell, un amministratore forestale, nel 1841,  con la sua pubblicazione “Etude sur les torrents des Hautes-Alpes”, elabora la teoria del disboscamento provocato dagli incendi e abuso di pascolo quali fattori detrminanti dell’erosione e della torrenzialità.  [Lo studio di Surell] “divenne la bibbia dell’Amministrazione Forestale Dipartimentale. Quello studio fornì le  argomentazioni per sottrarre ai montanari la gestione delle foreste provando come gli usi comunitativi di pascolare le greggi nelle foreste, oltre al taglio e alla pulizia dei boschi, avessero favorito un incremento delle alluvioni che nei  due secoli precedenti avevano eroso grandi aree delle foreste delle Hautes-Alpes”. Le tesi di Surell ebbero notevole risonanza  e dopo il 1860 vennero fatte proprie da illustri geografi e forestali.  La loro confutazione da parte di diversi studiosi, che misero in evidenza . come la minor copertura dei versanti mediterraneo e meridionale delle Alpi rispetto a quello  settentrionale fossero da mettere in relazione a condizioni di suolo e di clima, non impedì che esse  godettero nel corso del XIX secolo di grande credito, costituendo un esempio paradigmatico dell’uso politico della Scienza.

Va anche osservato che le posizioni del forestalismo alla Surell permangono tutt’oggi nell’impronta ideologica di tanta letteratura forestale e botanica che imputa alle “dissennate pratiche” di gestione [...] La Rosemberg nel suo classico lavoro sul Queyras, ha colto con parole di grande. efficacia il i termini politici e sociologici della questione [sono quelle riportate all'inizio di questo articolo] .Ciò che avvenne in Francia si  verificò, in tempi molto più diluiti e con conseguenze meno  drammatiche (in termini di emigrazione forzata  e spopolamento), anche nelle Alpi italiane, dove l’apparato dello stato centralizzato si costituì più tardi e non restò senza conseguenze neppure nel  paese meno centralista delle Alpi: la Svizzera Qui il “forestalismo scientifico”, con i suoi connotati autoritari, determinò l’introduzione di significative limitazioni all’autonomia cantonale e comunale,  creando uno spazio per l’applicazione coercitiva di misure centralistiche “federali”.

(M.Corti, Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema alimentare: il ruolo della capra nelle comunità alpine della Lombardia e delle aree limitrofe in età moderna e contemporanea in: SM Annali di S. Michele, 19, 2006, pp. 235-340).

 

Le biopolitiche di controllo del territorio sono funzionali al potere centralista e all'indebolimento delle identità etnoculturali e delle comunità

 

Ci vuole poco a capire che oggi i 'grandi predatori' hanno sostituito la 'riforestazione' come pretesto naturalistico e scientifico per imporre un nuovo, più radicale controllo economico, sociale, politico e culturale sulle Terre alte, viste come una 'colonia interna' da sottomettere e sfruttare. La scienza, in questo caso, non solo non è stata neutrale dal punto di vista economico (essendo funzionale agli interessi capitalistici, contro gli interessi deboli della ruralità alpina) ma non lo è stata nemmeno sul piano politico. Le politiche 'della natura' sotto il loro camouflage nascondono precise motivazioni politiche. Quello che Berna non è riuscita a strappare ai cantoni, ai comuni in campo aperto, è riuscita a farlo con la pretesa necessità tecnica e scientifica delle misure forestali, vero grimaldello per scardinare la costizuzione reale del paese in senso centralistico.

Più in generale i Parchi nazionali, le regole sull'utilizzo del territorio sono state in molti paesi giocate contro le minoranze etnolinguistiche, per scardinare le fonti delle loro autonomia economica, per sottomettere alla regolazione di agenzie e organismi centralistici con la finalità di svuotare anche l'anima, l'identità etnoculturale delle popolazioni rurali e montane. Tutti questi 'agenti' veicolano culture cittadine, 'nazionali', 'globali' finalizzate a sradicare le comunità locali dal loro stesso territorio. Un gioco sin troppo scoperto. Al quale le autonomie hanno reagito, associando queste politiche 'della natura' con il centralismo. Basti vedere come gli orsi in Francia sono diventati gli orsi 'di Parigi' e come l'insofferenza per Convenzioni e Direttive che impongono la reintroduzione dei predatori senza poterli tenere a bada sono in diversi paesi viste come un 'regalo di Bruxelle' che alimenta l'avversione all'eurocrazia.

 

Perchè lo fanno?

 

Gli scienziati e i sedicenti tali sono sempre ben disposti a prestarsi a queste operazioni al servizio del potere. In cambio di finanziamenti di progetti, posti fissi ben pagati, cattedre, consulenze, realizzazione di piccoli 'feudi' quali riserve naturali, parchi, centri dei grandi carnivori ecc. ecc.  Ma non solo. Sarebbe riduttivo pensare che i fautori della reintroduzione dei grandi carnivori siano mossi solo da queste motivazioni venali. In loro, come nei forestali (ottocenteschi e novecenteschi), come negli agronomi sovietici, c'è una bramosia di potere, di proiezione, di autoaffermazione. Il potere di cambiare la geografia, di spostare masse umane, di trasformare il territorio; la vertigine prometeica e superominista di forgiare natura e società, di sentirsi esseri superiori in grado di condizionare la vita di masse umane, reputate amorfe e 'inferiori'. È una storia che viene avanti dall'illuminismo, dal giacobinismo (che in Francia ha fatto radici profonde). Che si è espressa in modo tragico con collettivizzazione forzata dell'agricoltura sovietica causa di immani carestie e di distruzione della fertilità del 'granaio d'Europa'. Una storia che ha una costante: la mistificazione sistematica, la manipolazione di dati e fatti in forza di un sentimento di una superiorità intellettuale e morale che giustifica tutto in nome dei propri fini, assolutizzati.

 

Una costante: l'ipocrisia

 

In Ucraina nel 1932-33 morirono sette milioni di contadini in seguito alla carestia provocata dalla requisizione di tutte le scorte alimentari da parte dei comunisti. Era lo ‘sterminio per fame’ , l’holodomor voluto da Stalin e dai suoi. Ma i corrispondenti del New York Times, da bravi ‘progressisti’ filocomunisti scrivevano “Non c’è una vera fame né vi sono morti per fame, ma c’è una larga mortalità da malattie dovute a denutrizione”. (E. Lyons, La stampa camuffa una carestia, 1937, cit. da F. Argentieri ‘Robert Conquest e “The Harvest of Sorrow” Come fu rotta la congiura del silenzio. Presentazione a R. Conquest, Raccolto di dolore, Edizioni Liberal, Roma, 2004, pp. VII-XXIII.

Oggi, per lo più, il conformismo intellettuale impedisce che il  pensiero omologato, con la patente progressista, politicamente corretta, ambientalista, possa essere messo in discussione. E anche a destra ci si adegua. Nel '68 vi era una frangia intellettuale che grazie all'etichetta 'progressista' e di sinistra aveva potuto contestare l'autoritarismo, la tecnocrazia, l'uso politico della scienza al servizio del capitalismo. Nulla di ciò è rimasto. A contestare l'ortodossia si diventa eretici. Solo pochissimi intellettuali  osano proferire parole non in sintonia con il credo ambientalista, parchista (penso a Paolo Rumiz, a Giorgio Conti).

Il pensiero dominante consiglia, se proprio vi piacciono i contadini e i pastori, di adottate (a debita distanza) quelli dei paesi 'poveri'; ma non rompete le scatole a voler difendere i contadini e i pastori nostrani. Non sono mica compañeros campesinos, magari sono anche attaccati a localistiche identità culturali e linguistiche non sempre raccomandabili... (e qui l’irresistibile tendenza della sinistra a dare pagelle di ‘buoni’ e ‘cattivi’ non può fare a meno di riemergere). Paradossalmente mentre il ‘cibo contadino’ è oggetto di quasi unanime e superficiale consenso, mentre si celebrano con ondate successive di revival rurali le perdute e pericolanti civiltà contadine, prosegue – con consenso altrettanto trasversale ed esteso – la pulizia etnica di contadini e pastori fatta di regole ‘igieniche’, burocrazia, sovvenzioni dirottate all’industria camuffata da agricoltura, Parchi, Sic, Zps, Riserve, Reti 2000 e… come ‘soluzione finale’ le care bestiole per le quali le pulsioni affettive sono istillate senza distinguere troppo tra animali in carne, ossa, pelo, artigli e zanne e un peluche (vedasi le campagne del WWF “adotta un cucciolo riceverai un peluche”. Così la confusione tra Winnie Pooh e un bestione che ammazza un cavallo con una ‘carezza’ è completa. 

 

 In Francia vi è una una maggiore autonomia politico-culturale rurale

 

Sfortunatamente poi non siamo in Francia dove sì lo stato giacobino ha martellato, ma dove la ruralità ha avuto sempre una sua cittadinanza, sia pure sotto controllo e funzionale ai fini delle costruzione di un nazionalismo di massa. In Italia destra e sinistra sono sempre state unite dal disprezzo antropologico per la dimensione rurale considerata al massimo con compiacenza paternalistica fin tanto che resta confinata, beninteso, in  unadimensione folklorica e gastronomica. In Francia è la Confederation paysanne (di sinistra) in prima fila a contestare la reintroduzione dei grandi predatori e a giustificare il bracconaggio come atto di resistenza sociale; in Francia si parla apertamente di eco-fascismo e di eco-pouvoire. Niente di ciò in Italia dove, se osi spezzare una lancia a favore dei rurali sei stigmatizzato. Il potere urbano e inossidabile e riesce a far passare per democratico, ecopacifista ciò che è agli antipodi.

Così la pecora e il pastore passano per prevaricatori prepotenti e il lupo e i suoi sponsor per delle vittime.

 

Perennemente a rischio di estinzione?

 

Sempre della serie delle mistificazioni semantiche senza pudore tocca sentire che "in Piemonte il lupo è a rischio di estinzione". Ma come se non c'era più da un secolo, se ha colonizzato tutte le valli di Cuneo e di Torino, se è proseguito in Val d'Aosta, se fa capolino anche in val Sesia e in Ossola? Se i branchi continuano ad aumentare? Cosa significa "pericolo di estinzione" riferito a una specie che non c'era più e che sta colonizzando baldanzosamente il territorio? Come si fa ad essere così farisei? Eppure su La Stampa Giuseppe Canavese vice-direttore del Parco delle Alpi Marittime (la centrale del lupo) ha avuto l'aridire di sostenere che "il lupo in Piemonte è ancora al di sotto del numero minimo". "Minimo per chi". Chi ha stabilito che per ogni km2 ci devono essere tot lupi? Chi ha stabilito che il lupo deve ricolonizzare tutto l'arco alpino se non le lobby autoreferenziali ammantate di scientificità (ma pronte a piegare i dati alle loro convinzioni ideologiche come è avvenuto per la sottovalutazione numerica delle presenza del lupo in Italia, giustificata dalla necessità di tutulare una specie ancora "in pericolo".

E se qualcuno osa obiettare che c’è una questione di equità sociale, con i pastori costretti a vivere come secoli fa per difendere le pecore e i fan del lupo che se ne compiacciono seduti in poltrona in case riscaldate, passa per reazionario, antidemocratico. Il partito del lupo è sostenuto da lobby potenti a livello internazionale e da una opinione pubblica abilmente manipolata dalla propaganda.  Così si ottiene il duplice vantaggio della manipolazione del consenso e della promozione di un 'consumismo verde' fatto di riviste patinate, dvd, ecc.

 

Una strategia ben orchestrata

 

La lobby dei grandi carnivori da anni persegue una politica di manipolazione dei media che consente di avere in ogni redazione o quasi (compresi i quotidiani locali) dei referenti in grado di ‘addolcire’ o censurare le notizie sgradite e di passare ed enfatizzare quelle atte ad implementare la simpatia del pubblico per la reintroduzione dei grandi carnivori. Le istruzioni su come manipolare i media, anestetizzare i contadini e i pastori sono contenute persino in progetti finanziati dall’Unione europea. A conferma della forza di queste cerchie (WWF e dintorni). Praticamente il cliché è uguale in tutto il mondo: nella prima fase della reintroduzione (spontanea o ‘aiutata’ da lanci illegali) la preoccupazione dei lupofili (orsofili e lincio fili) è quella di evitare a tutti i costi che si sappia qualcosa. In questa fase le organizzazioni nazionali e internazionali consigliano a quelle locali di “tenere un basso profilo”. In un ‘campo’ tenutosi in Piemonte lo scorso anno si raccomandava ai membri del WWF in Lombardia di evitare qualsiasi clamore sul lupo. Ciò a differenza del Parco delle Orobie bergamasche che da tempo sbandiera come un trionfo la presenza di diverse femmine e l’avvenuta formazione di piccoli branchi. Il WWF ha una visione più strategica, il Parco deve giustificare le spese e la presa in forza di una esperta orsolupologa.

 

La tattica dei due tempi e quella del carciofo

 

I lupi all’inzio non si fanno notare perché le prede selvatiche sono sufficienti. Poi quando la presenza è consolidata e i danni si fanno sensibili si passa alla fase due: ormai il lupo c’è, è una benedizione del cielo e bisogna tenerlo e rispettarlo come un dio: i pastori si rassegnassero e si equipaggiassero con mute di cani, reticolati ecc. Chi non gradisce assoggettarsi alle misure di ‘protezione delle greggi’ cambi mestiere. La forza del partito del lupo consiste in un coordinamento mondiale, la debolezza dei pastori e dei montanari nella mancanza di reti, di contatti di organizzazione. Facendo conto su quest’ultima il partito del lupo persegue la strategia del carciofo (anch’essa appresa, come le tecniche di disinformatzia e di propaganda, dai regimi e dalle ideologie totalitarie e dalle loro tristemente famose polizie segrete: Gestapo, Gpu, Ceka, Kgb, Stasi).  

La tattica del carciofo consiste nell’impedire che si formi una massa critica di resistenza contadina-pastorale-montanara. Nelle valli dove il lupo (e l’orso) non ci sono ancora si deve evitare il più possibile di parlarne. Non è un caso che i media nazionali osservino una rigida censura (con poche eccezioni) anche su episodi di una certa gravità che hanno coinvolto ‘incontri ravvicinati’ e spiacevoli tra orsi e umani. Dove la presenza dei grandi predatori è incipiente la cautela del partito che sostiene la loro diffusione si fa ancora più forte. La consegna è: “Dare sempre la colpa ai cani finché le prove della presenza dei lupi non possono essere più nascoste”. Una tattica applicata dall’Emilia al Piemonte con le stesse modalità. Quando la presenza dei predatori è consolidata e ormai conclamata allora si passa alla strategia delle minimizzazione dei danni e dei rischi “Da duecento anni non ci sono episodi che coinvolgono l’uomo”. “Gli orsi/lupi non attaccano mai l’uomo”. Balle raccontate in perfetta malafede da gente consapevole di ingannare il prossimo ma che si sente ‘superiore’, che si sente alfiere di una causa ‘superiore’. La plebe non vale nulla e non capisce nulla, balla più balla meno… Agli allevatori e ai pastori si racconta che la convivenza è possibile. L’ipocrisia semantica tipica degli ‘unti del signore’ è lampante. Per ‘convivere’ è necessario che due soggetti decidano autonomamente di farlo. Il lupo non è soggetto consapevole e quindi non può né desiderare, né non desiderare di convivere con le pecore e i pastori. Ad esso interessa riempirsi la pancia nel modo più comodo e meno rischioso. Ma l’altro soggetto, sino a prova contraria è in grado di esprimere un assenso volontario o consapevole. Anche se forse gli intellettuali urbani – che hanno sempre dipinto il rurale come mosso da puri istinti animali, individualisti, utilitaristi - dubitano ancora che il contadino e il pastore abbia una coscienza della stessa qualità della loro. Questa storia della ‘convivenza con il lupo’ assomiglia maledettamente a quella dei contadini "che non morivano di fame ma di denutrizione". La scuola è sempre quella.

 

"Gli altri pastori hanno imparato a convivere, fatevene una ragione"

 

I lupofili poi contano sulla rassegnazione, sul fatto che i pastori 'gettino la spugna'. Così mentre nelle valli dove il lupo non c'è ancora o c'è ma è tenuto in sordina la gente non ha stimoli per mobilitarsi, in quelle già ben colonizzate dal lupo cade nella rassegnazione. Le sole valli nella fase critica, quando la presenza del lupo diventa una tragica realtà da sole non fanno massa, la loro voce, per quanto esasperata non ha la potenza di arrivare ai palazzi. Un altro aspetto 'classico' della strategia della setta del lupo (ma sono cose che valgono anche per l'orso) consiste nel sfruttare le difficoltà di contatti tra gli ambienti rurali di diversi stati e persino regioni. In Lombardia ai pastori gli ambientalisti raccontano che "in Piemonte i pastori hanno adottato i mezzi di difesa e non hanno più molti problemi". In Svizzera raccontano che in Italia c'è una idillica convivenza tra lupi e pecore. In Italia raccontano che i Francesi, grazie a ricchi risarcimenti, si sono 'calmati'. E via discorrendo.

Menzogne pianificate a freddo e cinicamente, da "scuola del male".

Ultimamente, però, in Piemonte (ma non solo) le cose stanno cambiando. Le valli stanno prendendo coscienza che ci si può opporre alla strategia della setta del lupo e la politica ha registrato il grido di dolore. Le voci contro la politica autoritaria e tecnicartica di imposizione della presenza del lupo cominciano a filtrare nel dibattito pubblico. E tra i i lupologi, lupofili, lupomani che credevano nella lotro superiorità intellettuale di sentirsi invincibili un po' di nervosismo comincia a serpeggiare.

 

 Una musica già suonata

 

Oggi fanno alla bisogna gli orsologi, i lupologi, in passato i forestali. Ma le storie sono del tutto parallele. Nel XIX secolo l'anatema contro i contadini e pastori alpini 'deforestatori' (in realtà le responsabilità erano delle industrie siderurgiche e della speculazione, ovvero da parte di interessi urbani) venne lanciato a Nord, come a Sud, a Est come a Ovest delle Alpi. Non importa se le condizioni pedologiche e climatiche fossero radicalmente diverse (per non parlare di quelle economico-sociali). La capra (e in parte la pecora) erano i colpevoli e la 'medicina' era la riforestazione. Oggi la 'medicina' taumaturgica è la reintroduzione delle fiere, dei grandi carnivori. Anche in questo caso ci si attende un miracoloso riequilibrio ambientale, un assunto dato per scontato quale dogma. In realtà i nostri orsolupologi sanno benissimo che la storiella del 'vertice della catena alimentare è buona per i bambini. Gli habitat dove si trovano le prede selvatiche che il lupo e l'orso dovrebbero 'mantenere in equilibrio' sono i più diversi e poi c'è la frammentazione ecologica che inficia il quadretto 'teorico' dei nostri mistificatori. Ci sono situazioni dove per influenze antropiche difficilmente eliminabili (facile è togliere i pastori, meno le autostrade, le Tav volute dagli stessi interessi capitalistici che benedicono la presenza dell'orso e del lupo) le prede vengono a trovarsi in condizioni di difficoltà (in qualche caso anche di vantaggio) di modo che in un caso la predazione può determinare una pericolosa contrazione demografica mentre nell'altro non incide minimamente sulle dinamiche di popolazione.

 

La mistica del 'riequilibrio biologico ad opera del grande predatore'

 

Il non automatismo del controllo dei predatori sugli erbivori selvatici vale anche in condizioni 'naturali', a maggior ragione in condizioni che naturali non sono e non lo torneranno mai perché non esiste una ‘natura’ a prescindere dall’uomo che dell’ecosistema è parte integrante  (a volte sin troppo preponderante, solo che sono ben altri i terreni dove l’uomo deve ridurre la sua impronta e distruggere il pastoralismo va in direzione opposta a quella di un recupero di un rapporto meno distruttivo con il resto della biosfera) .  Basti pensare alle centinaia di piante spontaneizzatesi in Europa dopo il neolitico, alle specie animali ad esse associate. Quanto è ‘innaturale’ il concetto di naturalità dei ‘naturalisti’. A parte le interpretazioni su cosa è ‘naturale’ e cosa è ‘antropico’ resta il fatto incontrovertibile che prede e predatori frequentano quartieri estivi e quartieri invernali. In nche se i pascoli estivi venissero del tutto riconsegnati al folle disegno di ‘ritorno alla wilderness’ l’interazione prede-predatori avverrebbe sempre nei quartieri invernali dove questi ultimi l'impatto antropico e senz'altro più forte e dove, date le condizioni stagionali, la sopravvivenza delle prede è potenzialmente più a rischio. Una volta abbandonata la pastorizia il 'gioco in condizioni teoriche' dell'equilibrio prede-predatori può sempre saltare quindi in inverno. E salterebbe anche qualora i fondovalle venissero desertificati perché il totale abbandono delle attività agropastorali comporterebbe una drastica riduzione delle risorse trofiche per le popolazioni di erbivori selvatici. L’abbandono di ogni coltivazione agricola comporta la riduzione della presenza di formazioni vegetali miste, di fasce ecotonali per lasciare il posto a una compatta e monotona copertura forestale poco adatta al sostentamento degli animali erbivori specie nelle stagioni critiche quali la primavera. Il deserto verde auspicato dal WWF (che protesta per ogni pianta tagliata e non lasciata marcire sul posto consentendo il ritorno della foresta vergine) non è un paradiso per la fauna autoctona che ha sempre prosperato grazie all’uomo che ha dal mesolitico ‘facilitato’ la diffusione dei cervidi (si tratta di conoscenze ecologiche ed eco storiche di base ma che i nostri amici naturalisti fanno finta di ignorare).  Cosa succederebbe con una montagna abbandonata? Che gli erbivori selvatici scenderebbero in pianura e i lupi dietro di loro. Il cervo che ha fatto irruzione in un negozio del centro di Bolzano tre anni fa e i cinghiali a passeggio per le strade di Genova (ma anche di località piemontesi) sono solo l’avvisaglia di questo fenomeno. Un fenomeno, però, che non è compatibile con il comodo gioco alla wilderness in cui, tanto, ci rimettono quei trogloditi dei pastori.

Vorrei tanto che i lupologi, lupofili, lupomani si trovassero un lupo nel giardino di casa della villetta suburbana. Ma a questo punto il gioco lo farebbero finire gli interessi economici forti che oggi lisciano il pelo all’ambientalismo grazie alla oggettiva convergenza di interessi. Ribadisco oggettiva perché non si strumentalizzi quanto da me asserito trasformando nella caricatura di lupologi direttamente pagati dai biechi capitalisti speculatori desiderosi di mettere le mani sulla montagna. .

Ci hanno già provato a caricaturalizzare le mie posizioni ma li invito – nuovamente – a trovare argomentazioni più serie contro le mie.

 

 

           

 

pagine visitate dal 21.11.08

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