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(16.08.11) All'Infernet in val d'Angrogna, 'paradiso' della nebbia e dei lupi (val Pellice, To) Baite fatiscenti, tante giornate nebbiose. E i lupi sempre in agguato. Claudio Buffa, un giovane pastore tiene duro sulle sue montagne con le sue pecore. Ha un aiuto pastore, ha due cani Maremmani, chiude le pecore nel recinto elettrico ogni sera. Ma ques'anno ha già subito due attacchi da parte dei lupi. E non ce la fa più. Deve abbandonare il campo o devono essere tenuti a bada i lupi? Si tratta di una questione etica importante dalla quale può dipendere il futuro della montagna ma con forti implicazioni per tutta la nostra società vai a vedere
(21.01.10) Chiarezza sul lupo. L'intoccabilità è solo italiana e l'hanno decisa gli 'esperti' e gli ambientalisti Il Ministero dell'ambiente risponde picche alle richieste di abbattimenti selettivi inoltrate dalla Regione Piemonte. Lo fa su parere dell'ISPRA che, a sua volta, si rifà ad un Piano nazionale d'azione per la conservazione del lupo (2002) scritto da un gruppo composto da esperti (di regola filoambientalisti) e dalle stesse organizzazione ambientaliste. Ma la cosa più assurda è che per motivare un parere contrario agli abbattimenti il 'Piano d'azione' si appella alla 'mancanza di informazioni sulla consistenza della popolazione' ma, soprattutto alle 'obiezioni di parte dell'opinione pubblica'. Ora la politica faccia la sua parte e la pianti con la delega agli ambientalisti. leggi tutto
Organismi sovranazionali, lobby, Ong e 'scienziati' decidono le politiche della natura (sopra la testa delle popolazioni rurali), è la verdocrazia (10.06.09) Eco pouvoire è stato definito da alcuni studiosi francesi (a proposito delle politiche di reintroduzione di orsi, lupi e linci). Noi la chiamiamo verdocrazia e dimostriamo quanto sia reale illustrando la genesi del "Pacobace" (il protocollo che 'regola' la presenza dell'orso sulle Alpi centrali). In un campo tutt'altro che marginale, che influenza non poco l'uso e la vivibilità del territorio, la politica (quella espressa da rappresentanti eletti democraticamente) è stata espropriata dagli 'esperti', dal WWF, dai burocrati 'verdi' e si limita a 'ratificare' a posteriori quello che questi hanno deciso. Ovviamente senza consultare pastori e contadini. vai a vedere
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(17.08.11) Per
smascherare la natura ideologica del lupismo (e
l'uso politico della scienza ad esso connesso) basta
studiare il 'forestalismo' anticontadino e antipastorale
del XIX e XX secolo (e la sua matrice totalitaria)
Forestalismo
e lupismo: ideologie funzionali alla colonizzazione
delle Terre alte
Non
vogliamo che passi un secolo - come è
successo per il forestalismo - prima
che la natura di falsa scienza della 'mistica
del ritorno dei grandi predatori' sia riconosciuta
dalla comunità scientifica e nell'arena
pubblica come tale
Qualche giorno fa ho pubblicato su questo blog il resoconto
della mia visita di studio in val d’Angrogna (vai a vedere) dove il giovane e volenteroso
pastore Claudio Buffa deve abbandonare le montagne che frequenta da bambino,
dove pascola le sue pecore, dove i suoi vecchi hanno pascolato mucche, pecore e
capre perché la difesa dagli attacchi dei lupi impone un impegno fisico e
psicologico insostenibili.
E se lo farà perché? Chiariamo subito che se non fossero state
fatte delle scelte non democratiche a favore della reintroduzione dei grandi
predatori (da parte di organismi quali comitati permanenti di
convenzioni internazionali, organi tecnici ‘scientifici’ costituiti da ambientalisti,
Parchi) il problema non si porrebbe. Del carattere di ‘governance autoritaria’
di queste forme di biopotere che annullano la rappresentanza democratica dei
territori ho già parlato in altra sede, alla quale rimando (La reintroduzione dell'orso e del lupo
sulle Alpi: le ragioni degli ecologisti e quelle dei pastori e alpigiani ma non
solo in: Confronti. Autonomia lombarda: le idee,
i fatti, le esperienze (rivista della presidenza della Regione Lombardia,
n. 1/2010, pp. 97-124.
Una
strategia sin troppo trasparente di colonizzazione materiale
e simbolica delle Terre alte
Se abili lobby super-organizzate a livello mondiale non avessero
promosso con accanimento la reintroduzione dei grandi carnivori in Europa e in
altre parti del mondo Claudio, come tanti altri pastori, continuerebbe a fare il
suo mestiere dove l'aveva sempre fatto e dove l'avevano fatto i suoi avi. Far
sloggiare Claudio dall’alpeggio sotto il Gran Truc (2366), cima che separa la
val Pellice dalla val Germanasca, dove il nostro pastore pascola in piena
estate, discende da una scelta precisa
mirante allo spopolamento della montagna. Una scelta che vuole togliere di
mezzo l'impiccio della presenza dei 'nativi' con i loro diritti, con la loro
identità. I pastori, i montanari sono come gli indiani d'america. Altri,
forti del potere, vogliono cacciarli e prendere il controllo del territorio
montano. Il lupo è un astuto grimaldello. Qualcuno penserà che sono
ragionamenti dietrologici un po' cervellotici. Allora lo invito ad analizzare
il parallelismo tra la 'riforestazione' nel XIX (e XX) secolo e la
'reintroduzione dei grandi predatori" nel XXI secolo. Vi faccio leggere
cosa ha scritto una antropologa americana (con patente di progressismo, neh)
che si è occupata delle Alpi francesi.
“Visto l’interesse dello
Stato nei confronti del patrimonio forestale, conveniva giudicare inadeguata le
gestione contadina del territorio. Terreni a pascolo, terre incolte,
brughiere e tutti quei terreni che i contadini consideravano pascoli potevano
essere considerate come aree da riforestare e da proteggere dalla
‘devastazione’ delle greggi di pecore. Eserciti di guardie forestali invasero i
villaggi per le loro campagne contro l’allevamento ovino. Ai contadini fu
impedito di portare al pascolo le pecore e, talvolta, anche le mucche, nei
soliti alpeggi. Negli anni Quaranta diminuì il numero delle greggi negli alti
villaggi alpini e i contadini furono privati di uno dei loro principali
strumenti di acquisizione di denaro e di partecipazione al mercato. Nel suo
rapporto del 1841 un sottoprefetto del Brianzonese notava come la
regolamentazione sull’uso delle foreste provocasse una crisi di sussistenza
dovuta alla rapida diminuzione delle dimensione delle greggi […] La
legislazione forestale non fu d’impedimento ai contadini soltanto nelle loro
operazioni produttive e mercantili; fu una minaccia anche per le loro finanze.
Gli agenti forestali avevano il potere, che spesso usarono, di comminare multe
per importi incredibilmente alti.”
H.G. Rosengerg, Un mondo negoziato. Tre secoli di
trasformazioni in una comunità alpina del Queyras, Carrocci editore/MUCGT,
Roma/San Michele all’Adige (Tn), 2000, pp.119-120.
Ieri
il forestalismo, oggi il lupismo (l'uso politico della
scienza a favore degli interessi capitalistici)
Quello che vogliono oggi gli interessi sociali forti delle
èlites urbane è lo stesso di quello che volevano nelle Alpi (francesi ma non
solo) del XIX secolo. Acquisire il controllo del territorio espropriando le
comunità locali, mettere le mani sulla montana ricca di risorse. L'acqua pura
diventerà più preziosa del petrolio? L'energia da biomasse, solare, eolica,
idraulica della montagna sarà sempre più concupita? Buone ragioni per togliere
di mezzo qualsiasi presenza sociale organizzata in grado di intralciare un
rapace colonialismo. Un secolo e mezzo fa si diceva che bisognava rimboschire
le montagne devastate dal 'dissesto idrogeologico' sottraendole al
pastoralismo. L'uso politico della scienza al servizio degli interessi
capitalistici fu allora sbudorato. Mi sia concentito autocitarmi:
L’ing. Surell, un amministratore forestale,
nel 1841, con la sua pubblicazione “Etude sur les torrents des
Hautes-Alpes”, elabora la teoria del disboscamento provocato dagli incendi e
abuso di pascolo quali fattori detrminanti dell’erosione e della torrenzialità.
[Lo studio di Surell] “divenne la bibbia dell’Amministrazione Forestale
Dipartimentale. Quello studio fornì le argomentazioni per sottrarre ai
montanari la gestione delle foreste provando come gli usi comunitativi di
pascolare le greggi nelle foreste, oltre al taglio e alla pulizia dei boschi, avessero
favorito un incremento delle alluvioni che nei due secoli precedenti
avevano eroso grandi aree delle foreste delle Hautes-Alpes”. Le tesi di Surell
ebbero notevole risonanza e dopo il 1860 vennero fatte proprie da
illustri geografi e forestali. La loro confutazione da parte di diversi
studiosi, che misero in evidenza . come la minor copertura dei versanti
mediterraneo e meridionale delle Alpi rispetto a quello settentrionale
fossero da mettere in relazione a condizioni di suolo e di clima, non impedì che
esse godettero nel corso del XIX secolo di grande credito, costituendo un
esempio paradigmatico dell’uso politico della Scienza.
Va anche osservato che le posizioni del forestalismo alla Surell
permangono tutt’oggi nell’impronta ideologica di tanta letteratura forestale e
botanica che imputa alle “dissennate pratiche” di gestione [...] La
Rosemberg nel suo classico lavoro sul Queyras, ha colto con parole di grande.
efficacia il i termini politici e sociologici della questione [sono quelle riportate
all'inizio di questo articolo] .Ciò che avvenne in Francia si
verificò, in tempi molto più diluiti e con conseguenze meno
drammatiche (in termini di emigrazione forzata e spopolamento),
anche nelle Alpi italiane, dove l’apparato dello stato centralizzato si
costituì più tardi e non restò senza conseguenze neppure nel paese meno
centralista delle Alpi: la Svizzera Qui il “forestalismo scientifico”, con i
suoi connotati autoritari, determinò l’introduzione di significative
limitazioni all’autonomia cantonale e comunale, creando uno spazio per
l’applicazione coercitiva di misure centralistiche “federali”.
(M.Corti, Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema
alimentare: il ruolo della capra nelle comunità alpine della Lombardia e delle
aree limitrofe in età moderna e contemporanea in: SM Annali di
S. Michele, 19, 2006, pp. 235-340).
Le
biopolitiche di controllo del territorio sono funzionali
al potere centralista e all'indebolimento delle identità
etnoculturali e delle comunità
Ci vuole poco a capire che oggi i 'grandi predatori' hanno
sostituito la 'riforestazione' come pretesto naturalistico e scientifico per
imporre un nuovo, più radicale controllo economico, sociale, politico e
culturale sulle Terre alte, viste come una 'colonia interna' da sottomettere e
sfruttare. La scienza, in questo caso, non solo non è stata neutrale
dal punto di vista economico (essendo funzionale agli
interessi capitalistici, contro gli interessi deboli
della ruralità alpina) ma non lo è stata
nemmeno sul piano politico. Le politiche 'della natura'
sotto il loro camouflage nascondono precise motivazioni
politiche. Quello che Berna non è riuscita a
strappare ai cantoni, ai comuni in campo aperto, è
riuscita a farlo con la pretesa necessità tecnica
e scientifica delle misure forestali, vero grimaldello
per scardinare la costizuzione reale del paese in senso
centralistico.
Più in generale i Parchi nazionali, le regole sull'utilizzo
del territorio sono state in molti paesi giocate contro
le minoranze etnolinguistiche, per scardinare le fonti
delle loro autonomia economica, per sottomettere alla
regolazione di agenzie e organismi centralistici con
la finalità di svuotare anche l'anima, l'identità
etnoculturale delle popolazioni rurali e montane. Tutti
questi 'agenti' veicolano culture cittadine, 'nazionali',
'globali' finalizzate a sradicare le comunità
locali dal loro stesso territorio. Un
gioco sin troppo scoperto. Al quale le autonomie hanno
reagito, associando queste politiche 'della natura'
con il centralismo. Basti vedere come gli orsi in Francia
sono diventati gli orsi 'di Parigi' e come l'insofferenza
per Convenzioni e Direttive che impongono la reintroduzione
dei predatori senza poterli tenere a bada sono in diversi
paesi viste come un 'regalo di Bruxelle' che alimenta
l'avversione all'eurocrazia.
Perchè
lo fanno?
Gli scienziati e i sedicenti tali sono sempre ben disposti a prestarsi a queste
operazioni al servizio del potere. In cambio di finanziamenti di progetti,
posti fissi ben pagati, cattedre, consulenze, realizzazione di piccoli 'feudi' quali
riserve naturali, parchi, centri dei grandi carnivori ecc. ecc. Ma non
solo. Sarebbe riduttivo pensare che i fautori della reintroduzione dei grandi
carnivori siano mossi solo da queste motivazioni venali. In loro, come nei forestali
(ottocenteschi e novecenteschi), come negli agronomi sovietici, c'è una
bramosia di potere, di proiezione, di autoaffermazione. Il potere di cambiare la geografia, di spostare masse
umane, di trasformare il territorio; la vertigine prometeica e superominista di
forgiare natura e società, di sentirsi esseri superiori in grado di condizionare
la vita di masse umane, reputate amorfe e 'inferiori'. È una storia che viene
avanti dall'illuminismo, dal giacobinismo (che in Francia ha fatto radici
profonde). Che si è espressa in modo tragico con collettivizzazione
forzata dell'agricoltura sovietica causa di immani carestie e di distruzione
della fertilità del 'granaio d'Europa'. Una storia che ha una costante: la
mistificazione sistematica, la manipolazione di dati e fatti in forza di
un sentimento di una superiorità intellettuale e morale che giustifica
tutto in nome dei propri fini, assolutizzati.
Una
costante: l'ipocrisia
In Ucraina nel 1932-33 morirono sette milioni di contadini in
seguito alla carestia provocata dalla requisizione di tutte le scorte
alimentari da parte dei comunisti. Era lo ‘sterminio per fame’ , l’holodomor
voluto da Stalin e dai suoi. Ma i corrispondenti del New York Times, da bravi
‘progressisti’ filocomunisti scrivevano “Non c’è una vera fame né vi sono morti
per fame, ma c’è una larga mortalità da malattie dovute a denutrizione”. (E.
Lyons, La stampa camuffa una carestia,
1937, cit. da F. Argentieri ‘Robert Conquest e “The Harvest of Sorrow” Come fu
rotta la congiura del silenzio. Presentazione a R. Conquest, Raccolto di dolore, Edizioni Liberal,
Roma, 2004, pp. VII-XXIII.
Oggi, per lo più, il conformismo intellettuale impedisce che il
pensiero omologato, con la patente progressista, politicamente corretta,
ambientalista, possa essere messo in discussione. E anche a destra ci si
adegua. Nel '68 vi era una frangia intellettuale che grazie all'etichetta
'progressista' e di sinistra aveva potuto contestare l'autoritarismo, la
tecnocrazia, l'uso politico della scienza al servizio del capitalismo. Nulla di
ciò è rimasto. A contestare l'ortodossia si diventa eretici. Solo pochissimi
intellettuali osano proferire parole non
in sintonia con il credo ambientalista, parchista (penso a Paolo Rumiz, a
Giorgio Conti).
Il pensiero dominante consiglia, se proprio vi piacciono i
contadini e i pastori, di adottate (a debita distanza) quelli dei paesi
'poveri'; ma non rompete le scatole a voler difendere i contadini e i pastori
nostrani. Non sono mica compañeros campesinos, magari sono anche
attaccati a localistiche identità culturali e linguistiche non sempre
raccomandabili... (e qui l’irresistibile tendenza della sinistra a dare pagelle
di ‘buoni’ e ‘cattivi’ non può fare a meno di riemergere). Paradossalmente
mentre il ‘cibo contadino’ è oggetto di quasi unanime e superficiale consenso,
mentre si celebrano con ondate successive di revival rurali le perdute e pericolanti
civiltà contadine, prosegue – con consenso altrettanto trasversale ed esteso –
la pulizia etnica di contadini e pastori fatta di regole ‘igieniche’,
burocrazia, sovvenzioni dirottate all’industria camuffata da agricoltura,
Parchi, Sic, Zps, Riserve, Reti 2000 e… come ‘soluzione finale’ le care
bestiole per le quali le pulsioni affettive sono istillate senza distinguere
troppo tra animali in carne, ossa, pelo, artigli e zanne e un peluche (vedasi
le campagne del WWF “adotta un cucciolo riceverai un peluche”. Così la
confusione tra Winnie Pooh e un bestione che ammazza un cavallo con una
‘carezza’ è completa.
In
Francia vi è una una maggiore autonomia politico-culturale
rurale
Sfortunatamente poi non siamo in Francia dove sì lo stato
giacobino ha martellato, ma dove la ruralità ha avuto sempre una sua
cittadinanza, sia pure sotto controllo e funzionale ai fini delle costruzione
di un nazionalismo di massa. In Italia destra e sinistra sono sempre state
unite dal disprezzo antropologico per la dimensione rurale considerata al
massimo con compiacenza paternalistica fin tanto che resta confinata,
beninteso, in unadimensione folklorica e
gastronomica. In Francia è la Confederation paysanne (di sinistra) in
prima fila a contestare la reintroduzione dei grandi predatori e a giustificare
il bracconaggio come atto di resistenza sociale; in Francia si parla
apertamente di eco-fascismo e di eco-pouvoire. Niente di ciò in Italia dove, se
osi spezzare una lancia a favore dei rurali sei stigmatizzato. Il potere urbano
e inossidabile e riesce a far passare per democratico, ecopacifista ciò che è agli
antipodi.
Così la pecora e il
pastore passano per prevaricatori prepotenti e il lupo e i suoi sponsor per
delle vittime.
Perennemente
a rischio di estinzione?
Sempre della serie delle mistificazioni semantiche senza pudore
tocca sentire che "in Piemonte il lupo è
a rischio di estinzione". Ma come se non c'era
più da un secolo, se ha colonizzato tutte le
valli di Cuneo e di Torino, se è proseguito in
Val d'Aosta, se fa capolino anche in val Sesia e in
Ossola? Se i branchi continuano ad aumentare? Cosa significa
"pericolo di estinzione" riferito a una specie
che non c'era più e che sta colonizzando baldanzosamente
il territorio? Come si fa ad essere così farisei?
Eppure su La Stampa Giuseppe Canavese vice-direttore
del Parco delle Alpi Marittime (la centrale del lupo)
ha avuto l'aridire di sostenere che "il lupo in
Piemonte è ancora al di sotto del numero minimo".
"Minimo per chi". Chi ha stabilito che per
ogni km2 ci devono essere tot lupi? Chi ha stabilito
che il lupo deve ricolonizzare tutto l'arco alpino se
non le lobby autoreferenziali ammantate di scientificità
(ma pronte a piegare i dati alle loro convinzioni ideologiche
come è avvenuto per la sottovalutazione numerica
delle presenza del lupo in Italia, giustificata dalla
necessità di tutulare una specie ancora "in
pericolo".
E se qualcuno osa obiettare che c’è una questione di equità
sociale, con i pastori costretti a vivere come secoli fa per difendere le
pecore e i fan del lupo che se ne compiacciono seduti in poltrona in case
riscaldate, passa per reazionario, antidemocratico. Il partito del lupo è
sostenuto da lobby potenti a livello internazionale e da una opinione pubblica
abilmente manipolata dalla propaganda. Così
si ottiene il duplice vantaggio della manipolazione
del consenso e della promozione di un 'consumismo verde'
fatto di riviste patinate, dvd, ecc.
Una
strategia ben orchestrata
La lobby dei grandi carnivori da anni persegue una politica di
manipolazione dei media che consente di avere in ogni redazione o quasi
(compresi i quotidiani locali) dei referenti in grado di ‘addolcire’ o
censurare le notizie sgradite e di passare ed enfatizzare quelle atte ad
implementare la simpatia del pubblico per la reintroduzione dei grandi
carnivori. Le istruzioni su come manipolare i media, anestetizzare i contadini
e i pastori sono contenute persino in progetti finanziati dall’Unione europea.
A conferma della forza di queste cerchie (WWF e dintorni). Praticamente il
cliché è uguale in tutto il mondo: nella prima fase della reintroduzione
(spontanea o ‘aiutata’ da lanci illegali) la preoccupazione dei lupofili
(orsofili e lincio fili) è quella di evitare a tutti i costi che si sappia
qualcosa. In questa fase le organizzazioni nazionali e internazionali
consigliano a quelle locali di “tenere un basso profilo”. In un ‘campo’
tenutosi in Piemonte lo scorso anno si raccomandava ai membri del WWF in
Lombardia di evitare qualsiasi clamore sul lupo. Ciò a differenza del Parco
delle Orobie bergamasche che da tempo sbandiera come un trionfo la presenza di
diverse femmine e l’avvenuta formazione di piccoli branchi. Il WWF ha una
visione più strategica, il Parco deve giustificare le spese e la presa in forza
di una esperta orsolupologa.
La tattica
dei due tempi e quella del carciofo
I lupi all’inzio non si fanno notare perché le
prede selvatiche sono sufficienti. Poi quando la presenza è consolidata e i
danni si fanno sensibili si passa alla fase due: ormai il lupo c’è, è una
benedizione del cielo e bisogna tenerlo e rispettarlo come un dio: i pastori si
rassegnassero e si equipaggiassero con mute di cani, reticolati ecc. Chi non
gradisce assoggettarsi alle misure di ‘protezione delle greggi’ cambi mestiere.
La forza del partito del lupo consiste in un coordinamento mondiale, la
debolezza dei pastori e dei montanari nella mancanza di reti, di contatti di
organizzazione. Facendo conto su quest’ultima il partito del lupo persegue la
strategia del carciofo (anch’essa appresa, come le tecniche di disinformatzia e
di propaganda, dai regimi e dalle ideologie totalitarie e dalle loro
tristemente famose polizie segrete: Gestapo, Gpu, Ceka, Kgb, Stasi).
La tattica del carciofo consiste
nell’impedire che si formi una massa critica di resistenza
contadina-pastorale-montanara. Nelle valli dove il lupo (e l’orso) non ci sono
ancora si deve evitare il più possibile di parlarne. Non è un caso che i media
nazionali osservino una rigida censura (con poche eccezioni) anche su episodi
di una certa gravità che hanno coinvolto ‘incontri ravvicinati’ e spiacevoli
tra orsi e umani. Dove la presenza dei grandi predatori è incipiente la cautela
del partito che sostiene la loro diffusione si fa ancora più forte. La consegna
è: “Dare sempre la colpa ai cani finché le prove della presenza dei lupi non
possono essere più nascoste”. Una tattica applicata dall’Emilia al Piemonte con
le stesse modalità. Quando la presenza dei predatori è consolidata e ormai
conclamata allora si passa alla strategia delle minimizzazione dei danni e dei
rischi “Da duecento anni non ci sono episodi che coinvolgono l’uomo”. “Gli
orsi/lupi non attaccano mai l’uomo”. Balle raccontate in perfetta malafede da
gente consapevole di ingannare il prossimo ma che si sente ‘superiore’, che si
sente alfiere di una causa ‘superiore’. La plebe non vale nulla e non capisce
nulla, balla più balla meno… Agli allevatori e ai pastori si racconta che la
convivenza è possibile. L’ipocrisia semantica tipica degli ‘unti del signore’ è
lampante. Per ‘convivere’ è necessario che due soggetti decidano autonomamente
di farlo. Il lupo non è soggetto consapevole e quindi non può né desiderare, né
non desiderare di convivere con le pecore e i pastori. Ad esso interessa
riempirsi la pancia nel modo più comodo e meno rischioso. Ma l’altro soggetto,
sino a prova contraria è in grado di esprimere un assenso volontario o
consapevole. Anche se forse gli intellettuali urbani – che hanno sempre dipinto
il rurale come mosso da puri istinti animali, individualisti, utilitaristi -
dubitano ancora che il contadino e il pastore abbia una coscienza della stessa
qualità della loro. Questa storia della ‘convivenza con il lupo’ assomiglia
maledettamente a quella dei contadini "che non morivano di fame ma di
denutrizione". La scuola è sempre quella.
"Gli
altri pastori hanno imparato a convivere, fatevene una
ragione"
I lupofili poi contano sulla rassegnazione, sul fatto che i pastori
'gettino la spugna'. Così mentre nelle valli
dove il lupo non c'è ancora o c'è ma è
tenuto in sordina la gente non ha stimoli per mobilitarsi,
in quelle già ben colonizzate dal lupo cade nella
rassegnazione. Le sole valli nella fase critica, quando
la presenza del lupo diventa una tragica realtà
da sole non fanno massa, la loro voce, per quanto esasperata
non ha la potenza di arrivare ai palazzi. Un altro aspetto
'classico' della strategia della setta del lupo (ma
sono cose che valgono anche per l'orso) consiste nel
sfruttare le difficoltà di contatti tra gli ambienti
rurali di diversi stati e persino regioni. In Lombardia
ai pastori gli ambientalisti raccontano che "in
Piemonte i pastori hanno adottato i mezzi di difesa
e non hanno più molti problemi". In Svizzera
raccontano che in Italia c'è una idillica convivenza
tra lupi e pecore. In Italia raccontano che i Francesi,
grazie a ricchi risarcimenti, si sono 'calmati'. E via
discorrendo.
Menzogne pianificate a freddo e cinicamente, da "scuola
del male".
Ultimamente, però, in Piemonte (ma non solo) le cose stanno
cambiando. Le valli stanno prendendo coscienza che ci
si può opporre alla strategia della setta del
lupo e la politica ha registrato il grido di dolore.
Le voci contro la politica autoritaria e tecnicartica
di imposizione della presenza del lupo cominciano a
filtrare nel dibattito pubblico. E tra i i lupologi,
lupofili, lupomani che credevano nella lotro superiorità
intellettuale di sentirsi invincibili un po' di nervosismo
comincia a serpeggiare.
Una
musica già suonata
Oggi fanno alla bisogna gli orsologi, i lupologi, in passato i
forestali. Ma le storie sono del tutto parallele. Nel XIX secolo l'anatema
contro i contadini e pastori alpini 'deforestatori' (in realtà le
responsabilità erano delle industrie siderurgiche e della speculazione, ovvero
da parte di interessi urbani) venne lanciato a Nord, come a Sud, a Est come a
Ovest delle Alpi. Non importa se le condizioni pedologiche e climatiche fossero
radicalmente diverse (per non parlare di quelle economico-sociali). La capra (e
in parte la pecora) erano i colpevoli e la 'medicina' era la riforestazione.
Oggi la 'medicina' taumaturgica è la reintroduzione delle fiere, dei grandi
carnivori. Anche in questo caso ci si attende un miracoloso riequilibrio
ambientale, un assunto dato per scontato quale dogma. In realtà i nostri
orsolupologi sanno benissimo che la storiella del 'vertice della catena
alimentare è buona per i bambini. Gli habitat dove si trovano le prede
selvatiche che il lupo e l'orso dovrebbero 'mantenere in equilibrio' sono i più
diversi e poi c'è la frammentazione ecologica che inficia il quadretto
'teorico' dei nostri mistificatori. Ci sono situazioni dove per influenze
antropiche difficilmente eliminabili (facile è togliere i pastori, meno le
autostrade, le Tav volute dagli stessi interessi capitalistici che benedicono
la presenza dell'orso e del lupo) le prede vengono a trovarsi in condizioni di
difficoltà (in qualche caso anche di vantaggio) di modo che in un caso la
predazione può determinare una pericolosa contrazione demografica mentre
nell'altro non incide minimamente sulle dinamiche di popolazione.
La mistica
del 'riequilibrio biologico ad opera del grande predatore'
Il non automatismo del controllo dei predatori sugli erbivori selvatici
vale anche in condizioni 'naturali', a maggior ragione in condizioni che
naturali non sono e non lo torneranno mai perché non esiste una ‘natura’ a
prescindere dall’uomo che dell’ecosistema è parte integrante (a volte sin troppo preponderante, solo che
sono ben altri i terreni dove l’uomo deve ridurre la sua impronta e distruggere
il pastoralismo va in direzione opposta a quella di un recupero di un rapporto
meno distruttivo con il resto della biosfera) . Basti pensare alle
centinaia di piante spontaneizzatesi in Europa dopo il neolitico, alle specie
animali ad esse associate. Quanto è ‘innaturale’ il concetto di naturalità dei
‘naturalisti’. A parte le interpretazioni su cosa è ‘naturale’ e cosa è
‘antropico’ resta il fatto incontrovertibile che prede e predatori frequentano
quartieri estivi e quartieri invernali. In nche se i pascoli estivi venissero
del tutto riconsegnati al folle disegno di ‘ritorno alla wilderness’
l’interazione prede-predatori avverrebbe sempre nei quartieri invernali dove questi
ultimi l'impatto antropico e senz'altro più forte e dove, date le condizioni
stagionali, la sopravvivenza delle prede è potenzialmente più a rischio. Una
volta abbandonata la pastorizia il 'gioco in condizioni teoriche'
dell'equilibrio prede-predatori può sempre saltare quindi in inverno. E
salterebbe anche qualora i fondovalle venissero desertificati perché il totale
abbandono delle attività agropastorali comporterebbe una drastica riduzione
delle risorse trofiche per le popolazioni di erbivori selvatici. L’abbandono di
ogni coltivazione agricola comporta la riduzione della presenza di formazioni
vegetali miste, di fasce ecotonali per lasciare il posto a una compatta e
monotona copertura forestale poco adatta al sostentamento degli animali
erbivori specie nelle stagioni critiche quali la primavera. Il deserto verde
auspicato dal WWF (che protesta per ogni pianta tagliata e non lasciata marcire
sul posto consentendo il ritorno della foresta vergine) non è un paradiso per
la fauna autoctona che ha sempre prosperato grazie all’uomo che ha dal
mesolitico ‘facilitato’ la diffusione dei cervidi (si tratta di conoscenze
ecologiche ed eco storiche di base ma che i nostri amici naturalisti fanno
finta di ignorare). Cosa succederebbe
con una montagna abbandonata? Che gli erbivori selvatici scenderebbero in
pianura e i lupi dietro di loro. Il cervo che ha fatto irruzione in un negozio
del centro di Bolzano tre anni fa e i cinghiali a passeggio per le strade di
Genova (ma anche di località piemontesi) sono solo l’avvisaglia di questo
fenomeno. Un fenomeno, però, che non è compatibile con il comodo gioco alla
wilderness in cui, tanto, ci rimettono quei trogloditi dei pastori.
Vorrei
tanto che i lupologi, lupofili, lupomani si trovassero un lupo nel giardino di
casa della villetta suburbana. Ma a questo punto il gioco lo farebbero finire
gli interessi economici forti che oggi lisciano il pelo all’ambientalismo
grazie alla oggettiva convergenza di interessi. Ribadisco oggettiva perché non
si strumentalizzi quanto da me asserito trasformando nella caricatura di
lupologi direttamente pagati dai biechi capitalisti speculatori desiderosi di mettere le mani
sulla montagna. .
Ci hanno già provato a caricaturalizzare le mie posizioni ma li
invito – nuovamente – a trovare argomentazioni più serie contro le mie.
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