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(26.09.11) Carcoforo (Vc) Microcomuni vivono
I
piccolissimi comuni spesso si dimostrano vitali. Carcoforo (79
abitanti) ha associazioni culturali, una libroteca, organizza convegni.
La propria cultura materiale e immateriale è oggetto di attenta
conservazione e c'è anche un alpeggio attivo con agriturismo e vendita
diretta di autentici prodotti locali. Attraverso alcune impressioni
fotografiche il volto di un paese che vive leggi tutto
(22.09.11) Piccoli comuni: sventato pericolo. Ora parliamo della
montagna
Mariano Allocco interviene sul tema dei piccoli comuni
per
attaccare l'Uncem e per sollecitare soluzioni. Difendere i comuni –
istituzione sociale prima che politica - non significa difendere la
classe
amministrativa attuale. Presi dalla rincorsa a
interessi personali e particolari, legati a caste politiche ed
economiche che
hanno altrove i loro centri di interesse, subalterni all’ideologia
'progressista' e 'ambientalista' urbana molti
amministratori lasciano che la montagna diventi un deserto verde. Va
anche rimossa la cultura
della sfiducia e un deleterio campanilismo che – anche a causa
del fallimento delle comunità montane - impedisce di unire le forze. leggi tutto
(24.05.11) Meno stato più comunità nelle Terre alte
Dalle
scuole parentali agli alberghi 'informali' delle 'donne di montagna',
ai gruppi di consumo arrivano segnali della volontà delle terre alte
alpine di voler tornare a gestirsi sulla base delle mai sopite
tradizioni di gestione comunitaria. Lo stato, la burocratizzazione
e istituzionalizzazione di ogni aspetto della vita economica e sociale,
devono fare un passo indietro. E le terre alte diventeranno un modello
vitale. leggi tutto
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(27.09.11) Di fronte alle prospettive di una grave crisi sociale, all'impossibilità da parte dello stato di garantire i servizi sociali la montagna rischia un crollo verticale. A meno che non si riprenda la sua autonomia. E la crisi potrebbe anche essere una opportunità
Le Terre alte nella crisi: deserto verde
o recupero di autonomia e identità?
di Michele Corti
Il problema della montagna costringe, specie in una fase storica di profonda crisi, a ripensare il modello di sviluppo e i termini del rapporto tra stato, società, comunità. Sono temi da affrontare senza indugio prima che la crisi provochi ulteriore destrutturazione di un tessuto sociale
già fragile
Irecenti dibattiti sulla chiusura di piccoli comuni e comunità
montane hanno attirato l’attenzione sui ‘costi’ presunti del
mantenimento delle istituzioni locali, ma - in definitiva - anche su quello della erogazione dei servizi alla popolazione montana. Che ci siano interessi forti metropolitani che spingano verso la 'soluzione finale' per la montagna per potervi mettere le mani liberi dall'intralcio costituito dalle presenza delle residue popolazioni indigene (con i loro diritti di proprietà privata e comunale) lo vado sostenendo da tempo. Quindi non mi scandalizzo. In Svizzera stanno sostenendo da anni la 'ritirata controllata' dalla montagna (basata sull'idea che le comunità 'asfittiche' - secondo i parametri dei tecnocrati - vadano eutanasizzate chiudendo il rubinetto dei servizi). In Italia, dove è una gara a chi esercita di più l'arte dell'ipocrisia, lo pensano ma non lo dicono pubblicamente.
Ma è proprio vero che è
sempre auspicabile l'accorpamento? Che 'chiudere' i piccoli comuni di
montagna rappresenti un vantaggio e un risparmio? Che è meglio far scendere a valle la gente? In realtà si tratta di un falso problema.
Se si insiste in un certo modello disviluppo che ha ‘disaccoppiato’ economia, società, ecologia, che fa passare tutto dal mercato globale, da servizi formalizzati, burocratizzati, che impone regole uniformi e la standardizzazione di ogni forma sociale allora forse è vero. Forse può essere conveniente concentrare la gente nelle megalopoli e trasfrormare la montagna in un grande parco. Ma questa direzione è insostenibile. Dal punto di vista umano, sociale, energetico, ambientale
sarebbe una catastrofe.
Forzare i paradigmi
Purtroppo l’idolo della crescita, una crescita quantitativa
indifferente a cosa comporti il PIL in termini di costi sociali e
ambientali, resta il punto di riferimento delle ‘forze sociali e
politiche’ (da destra a sinistra). Sono incapaci di pensare in termini di paradigmi diversi.
Ma i paradigmi attuali in montagna appaiono ancora più assurdi. Pensiamo al pensionato o alla casalinga che invece di coltivare l'orto se ne stanno a guardare le fiction televisive (e a sorbire la pubblicità) e che fanno la spesa a 20 km di distanza al Centro Commerciale. Il PIL ci guadagna (benzina, confezioniamento, trasporti, pubblicità). Ma si è creata o distrutta ricchezza? Se regioniamo in termini di energia e materie prime non rinnovabili se ne è distrutta.
Di fatto la montagna se vuole sopravvivere deve mettere in discussione il modello di sviluppo economico e di organizzazione socio-istituzionale imposto dalle città e dalle pianure (un fatto che tornerebbe a vantaggio della stragrande maggioranza di chi popola queste ultime grazie alla capacità di fornire alle terre basse delle utili
lezioni). La montagna nelle
grandi crisi della società di pianura ha sempre riconquistato spazi di
autonomia (alla fine dell'evo antico, nel passaggio tra medioevo e modernità). Oggi potrebbe essere ancora così. Può farlo perché c’è una parte di essa che non si è
omologata ai modelli urbano-industriali, che resiste, che non è
disposta a rinunciare a pratiche che ne hanno assicurato la
sopravvivenza nei secoli per renderla più dipendente da sistemi
falsamente efficienti, finalizzati alla concentrazione del potere (allo sviluppo di connessioni chiave controllate da pochi grandi interessi centralizzati).
I trasferimenti a 'favore' della montagna
Se
la montagna fosse libera dall’oppressiva regolamentazione burocratica e
dai pesanti vincoli ad essa imposti (sotto pretesti igienici,
ambientali ecc.), se potesse valorizzare liberamente le sue risorse
non avrebbe certo bisogno delle elemosine delle 'superiori
istituzioni'. Le risorse della montagna da diversi secoli in qua sono
sempre più sfruttate dagli interessi delle città e delle pianure
che poi si preoccupano di apparire magnanime con politiche
'di sviluppo' spesso 'pelose' perché finalizzate a generare
flussi di spesa a favore di soggetti esterni senza innescare
autosostenibilità. Assoggettata alle regole pensate e imposte
dall'industria, dalla città e dalla pianura
la montagna risulta 'svantaggiata', 'dipendente', necessita un sostegno assistenziale a compensazione. Di fatto sono le pensioni la grande partita a saldo positivo per la montagna perché se si guarda all'agricoltura le cosidette politiche per la montagna hanno concentrato le risorse sull'agricoltura industrializzata dei fondovalle e su industrie alimentari sempre più globalizzate (l'acquisizione da parte brasiliana della più grande azienda alimentare valtellinese che dagli anni '70 trasfroma
carne congelata di zebù brasiliano è un caso esemplare, ma si potrebbero aggiungere i contributi erogati a favore delle aziende agroalimentari di montagna utilizzati per acquisire imprese nell'Est Europa e creare là posti di lavoro).
Togliere con una mano, dare (o fingere di dare) con l'altra
Lo stato ha storicamente tolto alla montagna con una mano per ridare qualcosa, fatto cadere dall'altro, con l'altra. Ma quello che 'regala' è utile, è erogato in modo adeguato, efficiente, adatto alla realtà della montagna? No. Lo stato burocratico ha creato servizi costosi che in una piccola comunità potrebbero essere tranquillamente assicurati sulla base
dell’autogestione, della reciprocità, della più ampia valorizzazione del lavoro volontario, dei pensionati, delle casalinghe, dei giovani. Un capitale sociale sprecato. Lo stato ha burocratizzato e reso
farraginosi tutti i tipi di relazioni personali, economiche che intercorrevano tra membri della stessa comunità: si richiedono contratti, fatture, certificazioni, isacrizioni di partite iva, autorizzazioni, licenze per ogni
minima attività anche di risibile dimensione tecnica ed economica
paralizzando la vita sociale e facendone lievitare i costi di ogni
attività. Si sono chiuse le piccole attività in ogni settore che non ce la facavano a reggere agli 'adempimenti' di ogni tipo, agli 'adeguamenti' igienico-sanitari, anti-infortunistici ecc. Si è incasellata una irriducibile pluri-attività in campi di
attività rigidi assoggettati ad ordini professionali, codici di
partita iva. Lasciando la gente inattiva.
Ritorno all'autogoverno e deistituzionalizzazione
Così come va perseguita la liberazione dell’autoproduzione alimentare
dalle regole imposte dalla grande industria europea - estendo alla
piccola comunità quanto previsto per il consumo in ambito famigliare
- vanno perseguite la liberalizzazione e la defiscalizzazione delle
attività terziarie, commercio, trasporto e di servizio alla persona
nell’ambito delle piccola comunità. Lo stato avrà minori oneri di
erogazione diretta e sussidiata di servizi (costosi in montagna se
non altro per vincoli organizzativi e spaziali). Compatibilmente con la salvaguardia idro-geologica e il rispetto di fondamentali
equilibri ecosistemici va riportato in capo al controllo delle
comunità locali l’uso di alcune risorse a partire da quelle
forestali e faunistiche soggette di una pervasiva e ipervincolistica
regolamentazione statale sotto il pretesto di esigenze di tutela ambientale (in realtà con finalità di controllo delle risorse e di imposizione di figure esterne come controllori, regolatori). Ciò deve valere ad esempio per la fauna selvatica, proprietà indisponibile dello stato (delegata alle regioni) che
rappresenta spesso un problema per la montagna (per via dei danni alle colture) ma che deve
tornare a rappresentare una risorsa economica di proprietà
delle comunità finalizzata ai fabbisogni alimentari e ad alimentare
attività economiche locali. È tempo di superare definitivamente ogni feudalesimo. A chi obietta che nella società attuale caratterizzata da una rete di interdipendenze non è possibile delegare all'autogestione delle comunità locale delle funzioni complesse si possono rispondere due cose: 1) le comunità del passato avevano sviluppato strutture di autogoverno molto sofisticate; 2) la gestione decentrata di una enorme quantità di informazioni. resa possibile dalle
reti informatiche. aggiunge alle formule di autogestione tradizionali un potente mezzo di sintonizzazione dal basso in alternativa alla regolazione dall'alto.
Il coraggio del rifiuto della subalternità alle culture urbane
La questioni sollevate sono politiche e culturali (la soggezione presuppone
l'egemonia ideologica). La 'rivoluzione culturale' deve consistere nell'astenersi dal supplicare tagli meno
pesanti ma di riprendere autonomia, culturale e ideologica ancor prima che politica. Nella grave crisi
strutturale del sistema c'è la possibilità di rinegoziare rapporti
di forza. Mai come in queste circostanze di affanno dello stato
fiscale vi è la possibilità di scambiare la rinuncia
all'assistenzialismo con la deburocratizzazione, il 'ritiro' della
presa dello stato sulla montagna, un maggior autogoverno.
Riconquistare autonomia e identità (senza quest'ultima non si
può conseguire neppure la prima) è per la montagna la sola
prospettiva per riuscire a sopravvivere alla crisi e uscirne
rafforzata. Se si mantiene la subalternità alla politica e alla
ideologia delle città e delle pianure, invece, la crisi porterà
alla desertificazione totale, al deserto verde auspicato da un
ambientalismo che è la punta di diamante dell'ideologia urbana
e della volontà di controllo della montagna e delle sue risorse. In tutto questo ovviamente è necessario che emergano forze 'fresche' lontane dalle politiche di piccolo cabotaggio praticate dalle classi dirigenti (?) locali. Nessuno può aspettarsi che l'Uncem faccia di più che una difesa corporativa delle macchine istituzionali e di quanto ruota intorno ad esse. Un sindacalismo non 'della montagna' ma degli apparati istituzionali della montagna (spesso causa della sua dipendenza).
Un invito aperto
La mia idea è che la montagna possa uscire dalla crisi rafforzata se recupera
autonomia, se ha la forza di tornare a vivere secondo un proprio
modello ispirato al criterio 'meno stato più comunità'. Come già indicato non c'è nulla in questa posizione che presta il fianco ad accuse di chiusura egoistica e autarchica: la montagna vuole prefigurare modelli di deistituzionalizzazione e di autonomia sociale che possono essere poi trasferiti dalle terre più alte a quelle meno alte e a quelle basse.
Il tema (i temi) è (sono) di quelli 'pesanti' e converrà affrontarlo in modo appropriato. Dal
punto di vista integrato della vita di comunità che non conosce
distinzioni tra ambiti economici, istituzionali, sociali,
assistenziali.
Sto proponendo questi temi a molte associazioni e singole personalità
delle Alpi. Chi fosse interessato è invitato a partecipare ad un
primo incontro che sarà fissato a breve per discutere le modalità
(organizzazione e contenuti) di un convegno da realizzarsi entro l'anno in una località della montagna lombarda. Tutte le associazioni
e singole personalità potranno concorrere in modo paritario all’iniziativa. Le adesioni saranno pubblicate qui su Ruralpini.
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