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L'oasi
dei casari (il Lagorai) (24.11.15)
Laura
Zanetti ripercorre la storia recente delle malghe del Lagorai, la
catena montuosa, ricca di laghi e pascoli che divide la Valsugana
dalla Val di Fiemme e si prolunga verso il Tesino. Un territorio
fortunatamente sottratto (grazie all'impegno di persone come la
Zanetti) ai destini della "valorizzazione turistica" o
della "parchizzazione", strategie speculari ma coordinate
di assalto alla ruralità
...vado
in alpeggio per la libertà (29.06.15)
Per
fortuna che oltre a tanti allevatori rassegnati, a rimorchio
delle organizzazioni, esistono anche figure come quella di Giuseppe
Giovannoni, protagonista convinto e consapevole delle vicende dei
"ribelli del bitto" e, ora, dell'uscita della capra Orobica
da una condizione di marginalità. Parliamo della sua azienda tra 400
e 1700 m.
L'alpeggio
culla dei formaggi (lo dice la storia) 14.05.15
La
storia del formaggio nell'Italia settentrionale è in gran parte
legata all'alpeggio. In pianura le tecniche casearie sono state
introdotte nel medioevo dagli allevatori-casari di montagna che
praticavano la transumanza. Un abbozzo di storia del formaggio
d'alpeggio per capire perché i formaggi d'alpe sono anche oggi al
vertice.
Siccità
sugli alpeggi (23.08.15)
Colpiti i
pascoli più sostenibili La grave siccità che ha colpito gli alpeggi
a luglio non è rimasta senza conseguenze. Ma chi soffre di più
per il calo diproduzione di latte è chi non usa i mangimi, ovvero
chi rispetta il pascolo e l'ambiente. Così solo i "puristi"
si sono fatti sentire
Malghe
friulane: viva le vecchie cantine (15.02.13)
In
Friuli l'ERSA ha effettuato uno studio molto interessante,
registrando temperatura e umidità, che mette in evidenza come gli
ambienti realizzati con materiali edilizi moderni non siano in grado
di garantire l'inerzia termica e regolazione dell'umidità
La
storia di un alpeggio raccontata dai protagonisti (26.07.12)
Al Passo
della Forcora (VA) si terrà Domenica 29
luglio la VII
Festa dell'Alpeggio. Nell'occasione alcuni dei protagonisti della
rinascita di questi pascoli hanno redatto un interessante
cronistoria. Che, per ora, va dal 1976 al 1990. Per la seconda
puntata bisognerà aspettare il prossimo anno. La ricostruzione della
storia del loro alpeggio scritta dagli amici varesini potrebbe essere
di stimolo per altre realtà.
Nelle
malghe della val di Rabbi (Trentino)(02.07.12)
In
una valle tra le più autentiche delle Alpi, lontano dal turismo di
massa, ci sono malghe dove si produce
ancora poìna affumicata
e asni. Meritano una escursione. Intanto potete conoscerle attraverso
il mio fotoracconto.
All'alpe
Cavisciöla tra integralisti del bitto e vacche OB (04.08.11)
Un
alpeggio della val Brembana dove si arriva solo a piedi, dove il
latte si lavora in baite 'storiche'. È gestito da una giovane
coppia unita dalla passione per l'alpeggio, lei casara 'fliglia
d'arte', lui giovane ed orgoglioso caricatore d'alpe che ha fatto la
gavetta, fermo come una roccia sulle sue convinzioni.
Propugnatore di una perfezionata arte del pascolamento e del ritorno
alla Bruna alpina (O.B.). In alpe ci sono anche
dei cascin ("pastorelli") di 14 e 12 anni, l' per
imparare. Sembra una storia abilmente costruita per mitizzare una
realtà. Ma è vera. Un invito caloroso a tutti a farsi una
bella camminata e ad andare a conoscere Alfio e Sonia che vi
accoglieranno come amici anche se non vi conoscono.
Ritorno
all'alpe Madri (Dosso del Liro, Como)(15.07.11)
Mario
Bassi ha potuto ritornare a caricare l'Alpe Madri dopo le incresciose
vicende di speculazioni sugli alpeggi che gli avevano impedito di
farlo lo scorso anno. Anche quest'anno Pierfranco Mastalli è andato
a trovarlo. Ci ha raccontato come l'alpeggiatore abbia ripreso la
vita di sempre nella suggestiva Valle del Dosso, montagna aspra e
dirupata.
All'alpeggio
Case di Viso con Andrea Bezzi, malghese, casaro, affinatore
(22.06.11)
Storia di una
esercitazione-seminario in cui si sono affrontati tanti problemi e
capite tante cose sulla realtà dell'alpeggio. Su tutte una:
l'allevatore di montagna non può pensare solo a mungere ma deve
usare le sue mani abili e tutte le sue capacità tecniche e
comunicative. La grande lezione di Andrea Bezzi che da diversi anni
segue un suo 'stile produttivo' che oggi viene ammirato. Andrea è
pienamente soddisfatto del suo lavoro "il più bello del mondo".
Se solo il Parco....
Una
vita ruralpina: Ambrosini Dante di Dubino (Valtellina)(27.08.10)
La
prima stagione d'alpeggio a 6 anni ;poi una serie di stagioni a
S.Sisto (Campodolcino) con le poche vacche di famiglia e le prime
esperienze da giovanissimo sfrosaduur.
Quindi la guerra con la prigionia. Immediato dopoguerra con
il contrabbando spericolato e il lavoro dei boschi (più il
primo). Poi in cantieri in Svizzera fino a un grave incidente
sul lavoro. Ancora alpeggi negli anni '60. Poi commercio e trasporto
bestiame (anca de sfroos föö de Livign); poi ancora alpeggi negli
anni '80. Da 10 anni carica (da solo) l'Alpe del Piani a 2070 m
e impara a fare il formaggio. 'Ma i vach e i cavaj i uu semper
tegnuu) (Foto M.Corti, Alpe dei Piani, 25.08.10)
All'Alpe
Nesdà (Plesio, CO) si festeggia la rinascita (30.07.10)
Gli alpeggi del Bregagno, nei
comuni di Garzeno, Pianello, Cremia, S.Siro, Plesio, Grandola e
Cusino rappresentavano un grande comprensorio di alpeggi con pascoli
alti fino a 2.000 m, affacciati sul lago di Como e di Lugano. Pochi
sono ancora caricati ma l'apertura di una nuova pista forestale, che
dai 'monti' di S.Siro porta all'Alpe Nesdà (passando per l'Alpe
Rescascía), può aprire nuove prospettive. Domenica 25, con una
bella cerimonia (che ha compreso anche la benedizione dei pascoli,
degli animali e dei fabbricati) si è aperta la prima forma prodotta
in alpe dopo anni di abbandono. Oltre agli strepitosi panorami questi
alpeggi hanno anche un altro asso nella manica: i prodotti. Il
formaggio che si produce (da secoli) è il Bitto, che qui, come nelle
Valli omonime, viene prodotto con l'aggiunta del latte di capra.
Insieme ad esso si produce una straordinaria mascarpa che diventa poi
zígher.
Lagorai
significa malghe: No al parco (26.07.10)
Amamont
(l'associazione transfrontaliera degli amici degli alpeggi e della
montagna) è andata nel Lagorai. Nella malga più autentica della
regione più autentica del Trentino. Da
Oswald Tonner,
malghese-simbolo dell'ecologia contadina contrapposta alle ideologie
della wilderness. Un'occasione per sostenere la biodiversità dei
pascoli e dei formaggi, per dire no alle 'bustine' di fermenti
selezionati più o meno 'autoctoni', al degrado delle malghe storiche
ridotte a pascoli di manze, ai progetti di trasformare le malghe
abbandonate in 'palestre' per i giochi di sopravvivenza nella
wilderness.
|
Alpeggi
- (ex) bitto
storico - Turismo
consapevole
Varrone
e
Biandino
al cuore di storie di ferro e
formaggi
di Michele Corti
(28.08.16) Nei giorni cruciali in cui la
casera dell'ex
bitto storico (il Santuario del bitto) si sta riempiendo delle forme
di un formaggio con tanta storia, ma di cui non si conosce ancora il
nuovo nome, approfondiamo alcuni aspetti sinora poco messi a fuoco
della storia e della geografia di questo mito caseario
Per
sentire il polso della produzione 2016 di "storico" sono
stato in questi giorni all'alpe Varrone, uno degli alpeggi simbolo di
questa produzioni, l'unico della montagna lecchese. Lo "storico"
è il formaggio d'alpeggio erede del "Bitto storico" (che
prima ancora si chiamava "Bitto delle valli del Bitto").
Con queste denominazioni si era invano cercato di salvaguardare la
tradizione del formaggio grasso d'alpe delle valli del Bitto, frutto
di una scuola di "alto caseificio" che affonda le sue
origini nei secoli. Le ottuse norme europee (sfruttate per il proprio
tornaconto dagli interessi costituiti valtellinesi), dopo il
riconoscimento della Dop "Bitto", hanno impedito di
distinguere adeguatamente il "Bitto storico" - prodotto
secondo criteri di fedeltà alla tradizione - dal "Bitto dop"
generico. Così, esauriti i margini di compromessi e risultando il
"Bitto storico" del tutto "fuorilegge" (rispetto
a normative europee sulle denominazioni di origine), non è rimasta
altra soluzione, anche per evitare reati penali per "frode in
commercio", che cambiare nome. Il nuovo nome è stato depositato
alla Camera di commercio di Lecco, una scelta non casuale che deriva
non solo dalla rottura con la Camera di Sondrio ma anche dalla
volontà di sottolineare che lo "Storico" è orobico,
quindi anche lecchese. Chiamare "Storico" il
formaggio degli alpeggi delle Orobie occidentali è anche un modo per
ricordare che esso era conosciuto come "della valle del Bitto"
in Valtellina ma che, anche se prodotto nelle valli orobiche
valtellinesi, diventava "dei Branzi" se esitato alla
fiera di San Matteo e depositato nelle casere dei Branzi in alta val
Brembana. Sappiamo che la stessa alpe, lo stesso casaro nella stessa
stagione potevano produrre "dei branzi" e "della valle
del bitto" (1). Si è però sinora parlato poco del
"bitto" che veniva commercializzato a Lecco eppure in
alcuni periodi storici è molto probabile che rappresentasse una
quota sostanziale. Il "bitto" prodotto in Valvarrone
e in Valsassina (o anche dai bergamini valsassinesi che caricavano
l'alpe Trona di Gerola), esitato al grande mercato e alla fiera
autunnale di Lecco come si chiamava? Le fonti sinora studiate parlano
di "formaggio grasso" (non si aggiungeva "d'alpe"
perché una volta non esisteva formaggio grasso che non fosse
d'alpe). Ritengo che venisse venduto come "di Varrone", "di
Biandino", "di Bobbio" ma non ho ancora un documento
che lo confermi. Spero di trovarne. Vale la pena quindi approfondire
questo aspetto sino poco sondato.
È un modo per rafforzare il programma dello "Storico" che
trae il proprio senso, la propria linfa, la propria capacità di
farsi apprezzare e di resistere, proprio dal valore, dallo spessore
della storia che lo ha generato. Nessuno tra i produttori e i
sostenitori dello "storico" dice: "noi siamo più
bravi", ma: "c'è una storia che spiega certe differenze,
certi livelli qualitativi". Questa rivendicazione
apparentemente "tranquilla" oggi assume un carattere
"ribelle". Rifarsi alla storia, alle differenze, alle
indentità oggi diventa sovversivo.
La storia come risorsa nel conflitto sociale
Che
storia e politica, storia e potere siano da sempre intrecciate è
fatto noto. Chi è padrone della memoria si colloca in posizione di
vantaggio nella gestione del potere. La cura nel conservare (e nel
distruggere) gli archivi ne è na conferma. Oggi il conflitto tra
interessi globali e resistenza ad essi passa anche attraverso risorse
che si chiamano: storia, memoria, identità. Dimenticare la storia
può servire solo a giustificare la mediocrità e a premiare
l'omologazione, la massificazione. Spiana la strada alla resa agli
interessi globali, alla desertificazione culturale ed economica (o
alla partecipazione del tutto subalterna da "periferie
dell'impero"). Oggi vi sono forti interessi che premono perché
le comunità non abbiano memoria, identità, storia. Chi perde queste
ricchezze regredendo ad uno stadio inconsapevole e "indantile"
e subisce passivamente la globalizzazione, è facilmente manipolato.
Una tabula rasa di cui si può fare ciò che si vuole. Una pedina nel
grande scacchiere. Non sono cose poi così difficili da
intendere.
Le nostre comunità, avendo ceduto alla pressione degli interessi
"globali" (in assenza di classi dirigenti degne di questo
nome), hanno la memoria corta, non sanno apprezzare la loro
storia, non vogliono conoscere le loro radici non sanno riconoscere
gli elementi di una storia comune. Sono state drogate
dall'oppio di modernità subalterna che valorizza solo il presente
svalutando sistematicamente il passato. Di conseguenza mancano di
orgoglio, ripiegano su sè stesse, guardano a modelli che non solo
legati alla propria storia anche quando in essa abbondano modelli ed
elementi prestigiosi. Non sanno, di conseguenza, concepirsi
proiettate al futuro. Tirano a campare senza slanci, senza
entusiasmi. Così vogliono gli interessi globali e i loro terminali
locali. Saranno loro a riempire, secondo i loro intendimenti e fini,
questo vuoto.
Alpe
Varrone: casari "storici" del bitto (da: M.Corti,
G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte
casearia e caseifico. Tradizioni da
leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)
Il caso del bitto
Dire : "il
bitto si fa in tutta la provincia di Sondrio",
stabilire coincidenze tra una produzione agroalimentare tradizionale
e confini amministrativi è di per sé operazione che sottrae alla
produzione stessa la sua dimensione storica, culturale, secondo
l'ovvio programama dell'industria e del global food system.
Sterilizzare la storia e la cultura e sostituirla con regole rigide,
disciplinari di produzione - definiti da parametri tecnologici -
sposta l'identità del prodotto dalla dimensione culturale (ed
ecologica), fatta di adattamento alle mutevoli condizioni ambientali,
alla controllabilità dell'ambiente industriale fatto di regole e
tecnologie controllate da saperi esperti e burocrazia. Laddove prima
il controllo era garantito da saperi impliciti, tramandati nel
contesto dell' "imparar vedendo e imparar facendo". Erano
saperi di cui i detentori del potere economico e burocratico in
passato ben difficilmente potevano impadronirsi. Erano "incorporati"
alle persome, a comunità di pratica, erano "sfuggenti" ad
un inquadramento formale. Oggi il "sapere" è incorporato a
macchine, soft-ware, algoritmi, manuali di procedure. Chi opera
direttamente schiaccia un bottone. Fino a quando un robot non lo
sostituirà. Il bitto storico (attenzione che non si può più chiamare
così) ha sfidato
tutto ciò. Contro di esso si è creata una "coalizione
naturale" di interessi industriali-politici-burocratici. C'era
da aspettarselo.
L'orobicità
profonda dello "storico"
Oggi è
prodotto nelle valli del Bitto ma anche nella
lecchese val Varrone e in diversi alpeggi della val Brembana
bergamasca. Ma sempre da casari della bassa Valtellina. In passato la
realtà era quasi speculare. Per secoli brembani e valsassinesi hanno
affittato gli alpeggi "da bitto" di Gerola (Trona,
Pescegallo, Bomino). Uno scambio circolare che, alla fine, era sempre
all'interno della stessa gens orobica, all'interno di un distretto
omogeneo dal punto di vista economico, produttivo, culturale. Oggi
pensiamo che i confini (tra lo Stato di Milano, i Grigioni, la
repubblica di Venezia) rappresentassero un ostacolo alle relazioni.
In realtà - in una situazione in cui lo stato non aveva quella
capacità di controllo che è cresciuta con la modernità - i confini
erano un vero e proprio incentivo a sfruttare, con il contrabbando, i
diversi regimi fiscali. Ancor oggi troviamo gli stessi cognomi sui
tre versanti perché le attività minerarie e metallurgiche, i
commerci di formaggio, ferro, legname spingevano le famiglie più
intraprendenti a possedere interessi anche al di là dei crinali.
Alpe Varrone: casari "storici" del bitto (da: M.Corti,
G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte casearia e caseifico. Tradizioni da
leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)
Il
"bitto" era quindi un formaggio orobico, prodotto da
personaggi tipicamente orobici: i bergamini (detti anche "malghesi" in
quanto proprietari di malghe, che da queste parti continua a
significare "mandrie" in linea con il significato più antico)(1),
casari e allevatori
bovini transumanti che in inverno scendevano a consumare il fieno
delle cascine della bassa pianura irrigua lombarda (2). Come tutti i
prestigiosi formaggi d'alpe anche il "bitto" ha
verosimilmente assunto le caratteristiche, che ha conservato sino ad
oggi nella versione "storica", nel Cinquecento
quando per una serie di congiunture economiche (declino allevamento
ovino, declino industria estrattiva e lavorazione del ferro) risorse
di uomini, terre e capitali si spostano verso l'allevamento bovino e
nuovi sistemi zootecnici. Prima tutti i formaggi alpini, anche quelli
d'alpeggio, erano di dimensioni più ridotte e con aggiunta di latte
ovino (più che caprino).
Cippo
stradale del 1916 collocato a Introbio all'inizio della "via del bitto"
che, nell'ambito delle opere militari della "Occupazione avanzata
frontiera nord" (volgarmente nota come "Linea Cadorna"), vide la
realizzazione di un nuovo tracciato ben riconoscibile nel tratto tra la
casera vecchia di Varrone e la bocchetta di Trona ma anche nel tratto
che attraversa l'alpe Trona soliva (tralasciando i danni della
realizzazione della nuova pista forestale da parte del comune di
Gerola.)
Quello che chiamiamo "bitto" (nome con il
quale era conoscito solo in Valtellina) è un lascito dei berganini
La
"fame di alpeggi" dei bergamini li spinse a prendere in
affitto alpeggi a nord del crinale orobico. Una tengenza che emerge
già nel Cinquecento ma che si consolida nel Seicento facendo
lievitare di molto i canoni d'affitto pur in periodi di crisi
economica. Cirillo Ruffoni, lo storico di Gerola, ci informa che
l'alpe Trona, l'alpeggio simbolo di Gerola (confinante con quella di
Varrone attraverso la bocchetta di Trona) nel Cinquecento è
affittata ad Antonio dei Coiis (Colli), poi nel Seicento a
bergamaschi e nel Settecento a valsassinesi (Arrigoni, Rosa,
Scandella, Ticozzi) di Barzio e Pasturo. Anche altre alpi gerolesi
erano affittate a bergamaschi: Bomino dal Cinquecento, Pescegallo nel
Seicento e Settecento (3). L'aumento degli affitti indotto
dalla concorrenza dei ricchi bergamini spinse in su in modo
generalizzato i canoni di tutti gli alpeggi della Valgerola (e si
resume anche delle altre valli orobiche valtellinesi coinvolte
direttamente o indirettamente nel fenomeno della transumanza, maxime
la val Tartano abitata nelle sue contrade più alte da bergamini
(4). Ciò spinse anche i caricatori d'alpe non transumanti ad
assumere i casari migliori, pagandoli ovviamente di più, onde
ottenere un formaggio molto pregiato in grado di consentire,
attraverso elevati prezzi di vendita, il mantenimento di margini di
profitto. Così nacque il mito caseario del bitto (già tale nel
Cinquecento). Un mito risultato della presenza di buoni pascoli, di
una "scuola" di alto caseificio tramandatasi di generazione
in generazione per secoli ma, soprattutto, di un'economia fortemente
orientata al commercio con facile accesso a tre diverse piazze di
vendita (Morbegno, che poi faceva affluire per la stagionatura parte
del prodotto a Como, Lecco e Branzi, da dove poi il prodotto era
trasferito a Bergamo) senza contare i ricchi mercati di
destinazione finale di Milano e Venezia. Como ha rivaleggiato
con Lecco per molto tempo quale "terminal" delle merci che
viaggiavano sui comballi lariani spinti alternativamente da breva e
tivan (i venti che spirano rispettivamente da sud e da nord).
Oltre alla corrente di "bitto" che da Morbegno raggiungeva
il Lario per via fluviale, per poi arrivare a Como, ve ne era
un'altra che prendeva la via dei monti, ovvero per il passo della
bocchetta di Trona ( a 2092 m). Se il "bitto" aveva
destinazione Como scendeva da qui attraverso la Valvarrone al porto
di Bellano, se era destinato a Lecco prendeva la "via del
bitto", ovvero superava il crinale che separa l'alta
Valvarrone e la val Biandino e ridiscendeva attraverso la valle della
Troggia a Introbio. Questa "via del bitto" in realtà ha
rappresentato l'itinerario più battuto tra la Valtellina e la
pianura lombarda prima della realizzazione negli anni Venti
dell'Ottocento della strada litoranea sulla sponda lariana orientale,
parte del nuovo tracciato che collegava Milano a Lecco proseguendo
sino al passo dello Spluga. Il percorso da Bellano a Dervio in
precedenza era poco più di un sentiero.
Segnaletica
verticale al rifugio Santa Rita (1988 m). Oggi la "via del bitto
è un interessantissimo itinerario escursionistico (sullo sfondo la
mole del Pizzo dei Tre Signori con l'ultimo sole.
Gerolamo
Curtoni di Gerola, di famiglia di caricatori d'alpe, che
nella sua carriera ha caricato Bomino, Pescegallo e Trona, alla
fine del Settecento vende il bitto a mercanti della val
Brembana, della Valsassina, di Como e di Morbegno (5). Una prova
lampante della possibilità del formaggio bitto di "giocare su
più tavoli". Il formaggio del Curtoni poteva valicare il passo
di San Marco, scendere a Morbegno o valicare la bocchetta di Trona.
Nel 1794 vende 8 forme a Introbio. Nel 1795 vende allo
"Stremenone di Introbio" (evidentemente un soprannome
scherzoso dal lombardo stemegnòn,
con il significato di "uno
che contratta troppo") ma anche "a Como" . Nel
1796 a Francesco Antonio Stopani (sic) di Como "franco passo"
(bocchetta di Trona). Nel 1797 ancora 21 forme allo Stoppani. Nel
1798 a Carlo Stoppani (il figlio?) a Morbegno. Nel 1800 a
Carlo Cattaneo di Morbegno "bergamasco". Questa mobilità
delle persone tra un luogo e l'altro di una "filiera" non
deve meravigliare. Nel 1808 (sono sempre informazioni fornite da
Cirillo Ruffoni) un "mercante" (di formaggio
evidentemente) di Morbegno tale Paolo Antonio Gualteroni (famiglia
importante di
Ornica in alta val Brembana che poi si stabilì anche a Sondrio e
Morbegno ) si aggiudica 25 paghe (6) dell'alpe
Pescegallo. Era forse parente di quel Ambrogio Gualteroni di
Ornica che, a
nome dei fratelli Pietro, Antonio e Giuseppe "con essi tutti
abitanti e conviventi in comunione", acquistava 78 1/4
paghe del
monte (alpe) di Sasso in Valbiandino da Gaetano Cusatelli fu Agostino
abitante a Porta Romana Parrocchia di San Nazaro in Brolo (7).
Val Biandino, fine agosto 2016 (foto M. Corti)
Va
aggiunto che i Cusatelli (ramo degli Annovazzi) erano famiglia
originaria di Valtorta (altra località dell'alta val Brembana)
confinante con la Valsassina e trasferitasi in Valsassina.
Nel 1587 gli Annovazzi, ricchi bergamini, acquistarono dalle comunità
di Introbio i
pascoli della val Biandino (compreso Sasso) e nel 1670 fecero
edificare l'oratorio della Beata Vergine della Neve tutt'ora
esistente (ricostruto dopo l'incendio del 1944). Alcuni Annovazzi
mantennero ancora nell'Ottocento quote dell'alpe Sasso (8).
Proprietà e gestione di alpeggi e commercio di
formaggio rappresentavano attività complementari,
esercitate se non dalla stessa persona da una stessa famiglia o da
"colonne" di una stessa grande famiglia. La dislocazione su
più versanti del massiccio orobico e tra montagna e pianura delle
attività di un clan famigliare costituiva una strategia efficace nel
sfruttare variabili opportunità. Una realtà simile si
riscontrava nel comparto estrattivo-metallurgico dove le grandi
famiglie cercavano di controllare le diverse fasi della filiera
(miniere, forni, fucine) mentre gruppi di una valle possedevano
miniere e impianti in un'altra (9).
Alpe Varrone: casari "storici" del bitto (da: M.Corti,
G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte casearia e caseifico. Tradizioni da
leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)
Sull'importanza
del mercato caseario lecchese - dove passava anche
molto del formaggio svizzero e del Voralberg destinato a Milano -
rimando al capitolo "La valle del formaggio" del volume
sulla storia dell'arte casearia e della zootecnia in Valsassina di
fresco pubblicato (10). Non si deve dimenticare che Lecco era
collegata a Milano per via d'acqua grazie al naviglio della Martesana
e a quello di Paderno (progettato da Leonardo ma realizzato, dux Mediolani la grande Maria
Teresa, nel 1777).
Lecco capitale del "bitto" prima che del
gorgonzola (ma non se ne ricorda e non interessa a nessuno)
In questa
sede mi pare opportuno
richiamare quanto riferiva, in clima di statistiche economiche
napoleoniche, il Tamassia all'inizio dell'Ottocento (11). Egli
considerava che la produzione di formaggio grasso dei cantoni di
Taceno e Lecco sommasse a 3.200 q.li. Tutta questa produzione,
che poi proseguiva verso Milano e Bergamo, affluiva a Lecco
perché non esistevano ancora fiere in Valsassina dove poter vendere
il formaggio a fine alpeggio (12). Un secolo dopo le due piazze di
Branzi (con 2.300 q.li e di Morbegno, con 1.000) (13) superavano
di poco la produzione di "formaggio grasso" della
Valsassina e Valvarrone di un secolo prima. All'inizio del Novecento,
però, il formaggio grasso a Lecco era quasi scomparso.
Dopo il 1880
nei grossi alpeggi, dove si producevano "formagge" di
"grasso" e "semigrasso" si produceva a tutto
spiano strachitunt
(Gorgonzola). Tutte cose dimenticate. Del resto l'amnesia storica
è
una malattia diffusa. Dopo essere stata la "città del
Gorgonzola" (sede di numerose ditte con magazzini esportazione
in Inghilterra) Lecco si dimenticò ben presto di questo titolo (che, in
precedenza, era appartenuto, ovviamente, a Gorgonzola) ed esso passò a
Novara per rimanervi. A Lecco il ferro (in forme diverse) è
rimasto quantomeno nella memoria mentre il formaggio è stato
rimosso. Eppure è stata capitale del "formaggio grasso" e
poi del "gorgonzola". Le mitologie della "grande industria siderurgica"
eccitavano le culture del Novecento (operaismo, industrialismo), il
formaggio no.
Va
comunque precisato che il dna caseario della montagna lecchese era
legato oltre al "grasso d'alpe" anche agli stracchini
( i "quartiroli" , che solo con il Novecento vengono
chiamati "taleggi") e ai furmagì
(prima di capra poi
vaccini con la nascita di aziende come la Cademartori a fine
Ottocento). Negli alpeggi più piccoli, non in grado di
produrre una forma di "grasso" e neppure di "semigrasso"
(cosa più facile unendo il latte di più mungiture), si producevano
anche in passato gli stracchini. Anche se in grossi alpeggi come
Biandino e Sasso (divisi, però, tra più proprietari) nel
Settecento la produzione principale era il "grasso" ("bitto") vi
era anche
una produzione accessoria di stracchini (all'inizio e alla fine
dell'alpeggio verosimilmente). Nel contratto d'affitto ( rogato in
Monza dal notaio Luigi Bonola il 7 dicembre 1794)(14) di una porzione
alpe Biandino appartenente a Giovanna Cusatelli i bergamini
affittuari (Locatelli e Invernizzi di Ballabio) si impegnavano, oltre
al canone in denaro, a corrispondere anche un'appendizio in natura
costituito "formaggio grasso del più perfetto, sano e ben
stagionato pesi tre, libbre dodici di stracchini simili della miglior
pasta a stadera di oncie trenta da pesarsi in Monza".
Il peso corrispondeva a 7,63 kg, la libbra valeva esattamente un
decimo del peso. Quindi 23 kg di formaggio e 9 kg di stracchini.
Questo ci dice solo che si producevano entrambe le tipologie ma non
qual'era la proporzione.
I formaggi dovevano essere consegnati il primo ottobre insieme alla
rata annuale dell'affitto . Per i bergamini non era un grosso problema
perché dovevano venire in pianura e frequentavano Milano e dintorni. In
un analogo contratto per la
porzione dell'alpe Sasso della stessa proprietaria, stilato qualche
giorno dopo dallo stesso notaio monzese (15) i bergamini che assumono
la locazione (Arrigoni e Galbani
di Bajedo, oggi frazione di Pasturo) si impegnano a corrispondere sei
pesi (in due forme) di formaggio grasso e trentasei libbre di
stracchini grassi. Si conferma che le "formagge"
erano di grosse dimensioni (23 kg). Esattamente come il "bitto".
Attualmente il bitto dop è compreso tra 8 e 25 kg ma gli autori che
lo hanno descritto in precedenza indicavano un peso tra 15 e 30 kg.
Il Melazzini, nel 1904, stabiliva come limiti quelli di 16-40 kg (16).
Dai
dati riportati da Ruffoni con riferimento a libri di conti di
caricatori gerolesi del Settecento si ricavano pesi unitari di 2/3
pesi (17).
Alpe Sasso
nell'immediato primo dopoguerra. A destra G.B. Invernizzi
"Pedron", grosso bergamino di Barzio (da: M.Corti,
G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte
casearia e caseifico. Tradizioni da
leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)
Nel
contratto di locazione dell'alpe Sasso del 1794 vi è un'altra
clausola interessante. I locatari si impegnavano a riscuotere, per
conto della proprietà, il corrispettivo del "diritto precario
di passaggio" dai "bergamini dell'alpe Trona". Questi
bergamini, come ci informano i documenti dell'archivio parrocchiale
di Gerola relativi ai contratti di affitto di Trona (18) erano i
Ticozzi di Pasturo. In precedenza Trona era stata caricata da
bergamini di Barzio (Scandella) sin dal 1709. Un documento conservato
nell'archivio pensa concerne la concessione ad Alessandro Arrigone
detto Scandella e Antonio Rosa di Barzio della "llicenza
precaria di poter passare per la strada solita delli detti Monti per
andare con li loro bestiame al Monte di Trona, giurisdizione di
Valtelina, e ritornare per la medema tenendo però sempre il loro
bestiame nella strada solita battuta" (19). Alla fine del Settecento
questi diritti di passaggio erano diventi così consuetudinari che
il contratto sopra citato si limita a indicare i termini della
riscossione del "tributo annuo" per la "precaria
concessione di passaggio con le loro malghe" che in realtà era
piuttosto modesto e consistente in "libbre quindici [11 kg]
strachini grassi e stagionati". Va considerato che questo
itinerario, lungo la "via del bitto", prevedeva il passaggio
anche dall'alpe Sasso e dall'alpe Varrone con i relativi "tributi".
Tre versanti ma un'unico distretto con gli
stessi attori
In
un gioco di continua "triangolazione" tra Valsassina,
alta Valbrembana, valli orobiche valtellinesi, l'uso delle alpi
collocate allo
snodo di questo grande comprensorio (alpivo e minerario) ha visto
succedersi "caricatori" di tutti e tre i versanti. Se prima
del 1709 erano i bergamaschi a caricare Trona (20), con l'inizio
dell'Ottocento i caricatori saranno valtellinesi. La secolare
tendenza di caricatori valsassinesi e brembani a caricare alpi del
versante valtellinese si ribalterà tra Otto e Novecento quando (e la
tendenza continua sino ad oggi) alpeggi in Valvarrone, Valsassina e
alta Valbrembana verranno caricati da valtellinesi.
La spinta a
caricare oltre il crinale orobico di valsassinesi e brembani era
legata all'affermazione dei bergamini. Con la fissazione in pianura
(in qualità di affittuari o proprietari di aziende agrozootecniche)
dei bergamini transumanti, che inizia a delinearsi verso la fine
dell'Ottocento ma assumerà dimensioni "di massa"
dopo la prima guerra mondiale, per i valtellinesi si aprirono inedite
grandi
possibilità di affitto di alpeggi.
Non solo per l'affievlirsi della concorrenza dei bergamini (imbattibile
per i piccoli alevatori locali come oggi avviene quando società e
grandi aziende zootecniche della pianura - per motivi di speculazione
sui premi Pac - partecipano alle aste) ma anche per un'altro motivo: i
gerolesi fino alla metà dell'Ottocento scendevano nel fondovalle
abduano per una "piccola transumanza" invernale piuttosto breve che
sfruttava gli incolti e le aree con vegetazione riparia dell'alveo del
grande fiume. Con gli anni Trenta dell'Ottocento, per iniziativa
dell'imperial regio governo, si avvia la bonifica dell'asta dell'Adda
che consentirà di aumentare moltissimo la superficie coltivata, creando
nuove aziende agricole. Da un sistema fortemente orientato al
pastoralismo gli allevatori della Valgerola (20) passarono ad un
sistema agropastorale che poteva disporre di ampie superfici foraggere
nel fondovalle. Fu così possibile aumentare il bestiame allevato. Se
prima i valsassinesi andavano a
Trona nel Novecento i valtellinesi si spinsero sino ai piani di Bobbio
(Biandino e Sasso non furono mai interesati da questi movimenti perché
di proprietà privata). ne furono, invece, interessati eccome gli
alpeggi della Valvarrone, non già quelli utilizzati dagli abitanti per
l'alpeggio "di sussistenza" ma i pochi affittati di proprietà dei
comuni come si deduce dalla seguente tab. dell'Inchiesta sui pascoli
alpini della Soc. agraria di Lombardia del 1912.
Società
agraria di Lombardia, Atti della commissione d’inchiesta sui
pascoli alpini, Vol III, “I
pascoli alpini della provincia di Como” Milano, Premiata Tipografia
Agraria, 1912
I
migliori alpeggi della Valvarrone passano a fine Ottocento dai
valsassinesi ai gerolesi (ma si fa sempre "bitto")
Inizialmente
i valtellinesi hanno iniziato ad utilizzare le alpi
della Valvarrone, poi si sono "allargati" a Bobbio e agli alpeggi
bergamaschi. Il percorso delle malghe, inverso a quello
precedente, ma sempre attraverso la trafficata bocchetta di
Trona, data agli
ultimi decenni dell'Ottocento. La vicenda della famiglia dei
bergamini Platti di Pasturo è molto interessante perché ne
possiamo ricostruire una vicenda secolare che arriva sino ad
oggi.
I Platti ("Martinaj") appaiono, insieme agli Arrigoni "Cascin" di
Bajedo tra i "consorti"
di una quota dell'alpe Biandino nel 1881 insieme agli Invernizzi
Pedron di Barzio (che si inseriscono già nel 1876 rilevando la quota
della cappellania della chiesa di Sant'Antonio da Padova di Prato San
Pietro (21).
Alpe Biandino all'inizio del Novecento (da: M.Corti, G.Camozzini, P.
Buzzoni, Arte casearia e caseifico. Tradizioni da leggenda in
Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)
Successivamente
gli Invernizzi "Pedron" (ma siamo già
nel Novecento) acquisiscono Sasso mentre i (Platti-Doniselli) sono
ancora lì a "mangiare" non solo Biandino ma anche Sasso
(attualmente di proprietà Bregaglio dope le vicende della "Società
funivie di Introbio che, negli anni '60, si prefiggeva la creazione di
una megalomane stazione sciistica tra Biandino e il Camisolo con tanto
di campi da golf e grandi alberghi).
Dove caricavano prima del 1876 i Platti "Martinaj" di Pasturo? A
Varrone. Un fatto che concorda con i ricordi della gente della valle
che non ha dimenticato come i migliori alpeggi venissero in passato
ceduti ai valsassinesi (22). All'inizio del Novecento l'Inchiesta sui
pascoli alpini (23) segnala come in Valvarrone carichi ancora un
bergamino che, oltre alle proprie bestie non ne manteneva nella malga
nessuna "locale", anzi aveva degli asciutti affidati da un fittavolo
della Bassa. L'alpeggio in questione era Artino, poi utilizzato da
diversi caricatori di Gerola per produrre bitto e collocato in sponda
sinistra dell'alta Valvarrone (confinante con la Valbiandino). Il
sistema del calecc' e tutto
il "metodo delle valli del bitto" erano presenti a Varrone e Areggio
(Larecc') dove l'affitto era
concesso a piccole società di caricatori (10 a
Varrone, 8 ad Areggio) con bestiame in gran parte proveniente dalla
Valtellina. Il "bitto" non è solo un "formaggio grasso" ma è il
prodotto di un sistema che, prima che di caseificazione, è di
pascolamento. In alpeggi "al cuore del bitto" come Varrone e la stessa
Trona, però, sino al Sette-Ottocento c'erano caricatori della
Valsassina e dal momento che i calecc'
sono certo un sistema ancora più vecchio è giocoforza che i
valsassinesi (così come i brembani che caricavano gli alpeggi delle
valli del bitto) seguissero un sistema che non può certo ritenersi
esclusivo di queste valli dal momento anche che, in non pochi alpeggi
del versante brembano, caricati da bergamini, a inizio Novecento i calecc' erano ancora comuni.
Note
AS =
Archivio di stato
(1) M. Corti, I ribelli del
bitto. Quando
una tradizione casearia diventa eversiva, Slow Food editore,
Bra, 2011
(2) M. Corti, La civiltà dei
bergamini. Una tribù
lombarda di malghesi tra i monti e il piano tra il quattordicesimo e
il ventesimo secolo, Centro studi valle Imagna, Sant'Omobono
terme, 2015
(2) L'uso di malga con il senso
attualmente utilizzato
in Trentino, parte del Veneto e qualche area orientale della
Lombardia si afferma solo alla fine del medioevo. Il lombardo
(compreso il bergamasco) mantiene "!malga" con il
significato antichissimo di "gruppo di animali da latte al
pascolo". Questo aspetto ed altri etnolinguistici relativi ai
fatti dlel'alpeggio sono ampiamente discussi in: M. Corti, "Süssura
de l aalp. L'alpeggio nelle Alpi lombarde tra passato e presente"in
SM Annali di San Michele,
vol. 17, 2004, pp. 31- 155
(3) C.Ruffoni, "La storia degli alpeggi e
del
formaggio Bitto. La grande svolta (l'età moderna)", in M.
Corti, C.Ruffoni, Il formaggio Val del Bitt. La stora gli uomini,
gli alpeggi, Ersaf, Milano, 2009, pp. 21-72.
(4) M. Corti (qui su Ruralpini) Val
Tartano, anima orobica
(5) C.Ruffoni, op. cit.
(6) La "paga" è l'unità di proprietà del
pascolo corrispondente al diritto di caricare un capo grosso. Non è
un'unità di superficie perché la proprietà di un "monte"
è indivisa (condominio)
(7) ASMi, Notarile, Atti notai di Milano,
45742 (Antonio
Castiglione, n. 1329, 30 novembre 1799)
(8) ASCo, Ufficio distrettuale delle
imposte dirette di
Lecco, Registri catasto Lomvardo-Veneto, 157.
(9) M. Tizzoni, P. Invernizzi, M.
Lambrugo, Memorie del
sottosuolo. Per una storia mineraria della Valsassina, Bellavite,
Missaglia, 2015
(10) M.Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte
casearia
e caseifico. Tradizioni da leggenda in Valsassina, Bellavite,
Missaglia, 2016
(11) G. Tamassia, Quadro economico dei
cantoni di
Taceno e Lecco, IV distretto del Lario, Giusti&Ferrario e C.,
Milano, 1806.
(12) M.Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni, op.
cit. , cap. 2
(13) M.Corti, “Bitto:
una storia esemplare, una questione aperta” in: Caseus. Arte
e cultura del formaggio, anno XI (2006), n.
3, pp. 19-30
(14) ASMi, Notarile, Atti dei notai di
Milano, 49174
(Luigi Bonola, 7 dicembre 1794)
(15) Ivi.
(16) M. Corti, op. cit., 2006
(17) C. Ruffoni, op. cit.
(18) Ivi
(19) Archivio Pensa. Licenza e facoltà di
transito
dall’Alpe di Biandino.1709 giugno 25. “Essendo che M.r Antonio
Rosa quondam Lorenzo e M.r Alesandro Arrigone detto Scandella,
ambidui bergamini della terra di Barsio habbino ricercato dalli SS.ri
Giacomo e Giovanni Pietro, SS.ri carlo Bernardo e Giovanni Battista
consorti Cubii di Primaluna e dalli SS. Carl’Antonio, Leonardo e
Rocco consorti Fondra di prato S. Pietro e dal Sig.r Carlo Cusatello
habitante in Introbio, tutti compatroni del Monte o sia Alpe di
Biandino ogn’uno alla rata de suoi acquisti, eccettuando il Monte
della Schala quale è solamente di ragione delli SS.ri consorti Cubii
e Fondra escluso detto Sig.r Cusatello, di concendere ad essi Rosa et
Arrigone la licenza precaria di poter passare per la strada solita
delli detti Monti per andare con li loro bestiame al Monte di Trona,
giurisdizione di Valtelina, e ritornare per la medema tenendo però
sempre il loro bestiame nella strada solita battuta, considerato
perciò il semplice transito et escluso ogni altro danno In virtù
della presente valitura come publico instromento li sudetti SS.ri
Cubii, Fondra e Cusatello conpatroni come sopra concedono et hanno
concesso alli sudetti Rosa et Arrigone la facoltà di poter transire
come sopra con il loro bestiame tenendo sempre la strada battuta e
rimosso ogni altro danno per l’anno corrente 1709 et sucessivamente
per li anni nelli quali continuaranno caricare detto Monte di Trona …
Li medemi SS. Consorti Cubii e Fondra concedono anche a detti Rosa er
Arrigone la facoltà del transito per la strada delli Monti della
Scala proprii d’essi SS. Cubii e Fondra per il tempo e nei modi
come sopra compresa nella detta ricognitione.”
(20) Queste considerazioni non valgono per
i
contadini-allevatori della valle del bitto di Albaredo che erano, e
restarono, legati al un'economia di sussistenza e non furono i grado
di acquistare terreni al piano. La disponibilità economica dei
gerolesi era legata alla loro partecipazione ad un sistema di
alpeggio imprenditoriale dai tratti comuni a quello dei bergamini
brembani e valsassinesi. Va tenuto in considerazione che sia la
Valgerola che la la val Tartano mantennero per secoli legami
strettissimi con la Valsassina e alcuni centri della valle di Averara
nel caso di Gerola, con Valleve, in alta Valbrembana, nel secondo. A
Gerola e a Tartano i cognomi largamente prevalenti sono quelli dei
centri oltre il crinale orobico. Riferisce il Pensa che,quando nei
secoli passati moriva un Acquistapace o uno Spandri (cognomi di
Gerola e di Cortenova in Valsassina) la salma venisse trasportata
percorrendo la "via del bitto" - eventualmente dopo essere
stata conservata in un blocco di neve compressa se la morte accadeva
in inverno - sino al Cimitero di Cortenova ( P. Pensa Quando da
Gerola si andava a Cortenova ogni tanto sostando vicino al
"posamort" in L'Ordine, 12.1.1979). Da Cambrembo e da
Foppolo, in Valbrembana, accadeva l'opposto ed i morti venivano
trasportati al cimitero di Sant' Antonio in Sparavera (una contrada
della val Lunga). Questi insediamenti delle alte valli, nati come
trasformazione di precedenti insediamenti temporanei, mantennero a
lungo tempo scarsissimi legami con la Valtellina per il semplice
fatto che i collegamenti con il fondovalle erano resi oltremodo
difficoltosi, specie in caso di ghiaccio, dalla necessità di
superare le asperità rocciose tipiche della parte più stretta delle
valli, prima del loro sbocco.
(20) C. Ruffoni, op. cit.
(21) ASCo, Ufficio distrettuale delle
imposte dirette di
Lecco, Registri catasto Lombardo-Veneto, 157
(22) Valvarrone e Valsassina appartengono
alla stessa
Comunità montana ed erano unite politicamente anche in passato (sia
pure in "squadre" diverse della stessa unità
territoriale), ma tengono tutt'oggi a rimarcare la propria identità
(23) Società agraria di Lombardia,
Atti della
commissione d’inchiesta sui pascoli alpini, Vol III, “I pascoli
alpini della provincia di Como” Premiata Tipografia Agraria,
Milano, 1912
(24) Società agraria di Lombardia Atti
della
commissione d’inchiesta sui pascoli alpini, Vol II, Fasc. III,
“I pascoli alpini della provincia di Bergamo ” , Premiata
Tipografia Agraria, Milano, 1907.
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