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Alpeggi - (ex) bitto storico - Turismo consapevole


Varrone e
Biandino
al cuore di storie di ferro e formaggi


di Michele Corti

(28.08.16) Nei giorni cruciali in cui la casera dell'ex bitto storico (il Santuario del bitto) si sta riempiendo delle forme di un formaggio con tanta storia, ma di cui non si conosce ancora il nuovo nome, approfondiamo alcuni aspetti sinora poco messi a fuoco della storia e della geografia di questo mito caseario

Per sentire il polso della produzione 2016 di "storico" sono stato in questi giorni all'alpe Varrone, uno degli alpeggi simbolo di questa produzioni, l'unico della montagna lecchese. Lo "storico" è il formaggio d'alpeggio erede del "Bitto storico" (che prima ancora si chiamava "Bitto delle valli del Bitto"). Con queste denominazioni si era invano cercato di salvaguardare la tradizione del formaggio grasso d'alpe delle valli del Bitto, frutto di una scuola di "alto caseificio" che affonda le sue origini nei secoli. Le ottuse norme europee (sfruttate per il proprio tornaconto dagli interessi costituiti valtellinesi), dopo il riconoscimento della Dop "Bitto",  hanno impedito di distinguere adeguatamente il "Bitto storico" - prodotto secondo criteri di fedeltà alla tradizione - dal "Bitto dop" generico. Così, esauriti i margini di compromessi e risultando il "Bitto storico" del tutto "fuorilegge" (rispetto a normative europee sulle denominazioni di origine), non è rimasta altra soluzione, anche per evitare reati penali per "frode in commercio", che cambiare nome. Il nuovo nome è stato depositato alla Camera di commercio di Lecco, una scelta non casuale che deriva non solo dalla rottura con la Camera di Sondrio ma anche dalla volontà di sottolineare che lo "Storico" è orobico, quindi anche lecchese.  Chiamare "Storico" il formaggio degli alpeggi delle Orobie occidentali è anche un modo per ricordare che esso era conosciuto come "della valle del Bitto" in Valtellina ma che, anche se prodotto  nelle valli orobiche valtellinesi,  diventava "dei Branzi" se esitato alla fiera di San Matteo e depositato nelle casere dei Branzi in alta val Brembana. Sappiamo che la stessa alpe, lo stesso casaro nella stessa stagione potevano produrre "dei branzi" e "della valle del bitto" (1).  Si è però sinora parlato poco del "bitto" che veniva commercializzato a Lecco eppure in alcuni periodi storici è molto probabile che rappresentasse una quota sostanziale.  Il "bitto" prodotto in Valvarrone e in Valsassina (o anche dai bergamini valsassinesi che caricavano l'alpe Trona di Gerola), esitato al grande mercato e alla fiera autunnale di Lecco come si chiamava? Le fonti sinora studiate parlano di "formaggio grasso" (non si aggiungeva "d'alpe" perché una volta non esisteva formaggio grasso che non fosse d'alpe). Ritengo che venisse venduto come "di Varrone", "di Biandino", "di Bobbio" ma non ho ancora un documento che lo confermi. Spero di trovarne. Vale la pena quindi approfondire questo aspetto sino poco sondato.
È un modo per rafforzare il programma dello "Storico" che trae il proprio senso, la propria linfa, la propria capacità di farsi apprezzare e di resistere, proprio dal valore, dallo spessore della storia che lo ha generato. Nessuno tra i produttori e i sostenitori dello "storico" dice: "noi siamo più bravi", ma: "c'è una storia che spiega certe differenze, certi livelli qualitativi".  Questa rivendicazione apparentemente "tranquilla" oggi assume un carattere "ribelle". Rifarsi alla storia, alle differenze, alle indentità oggi diventa sovversivo.

La storia come risorsa nel conflitto sociale

Che storia e politica, storia e potere siano da sempre intrecciate è fatto noto. Chi è padrone della memoria si colloca in posizione di vantaggio nella gestione del potere. La cura nel conservare (e nel distruggere) gli archivi ne è na conferma. Oggi il conflitto tra interessi globali e resistenza ad essi passa anche attraverso risorse che si chiamano: storia, memoria, identità. Dimenticare la storia può servire solo a giustificare la mediocrità e a premiare l'omologazione, la massificazione. Spiana la strada alla resa agli interessi globali, alla desertificazione culturale ed economica (o alla partecipazione del tutto subalterna da "periferie dell'impero"). Oggi vi sono forti interessi che premono perché le comunità non abbiano memoria, identità, storia. Chi perde queste ricchezze regredendo ad uno stadio inconsapevole e "indantile" e subisce passivamente la globalizzazione, è facilmente manipolato. Una tabula rasa di cui si può fare ciò che si vuole. Una pedina nel grande scacchiere.  Non sono cose poi così difficili da intendere.
Le nostre comunità, avendo ceduto alla pressione degli interessi "globali" (in assenza di classi dirigenti degne di questo nome),  hanno la memoria corta, non sanno apprezzare la loro storia, non vogliono conoscere le loro radici non sanno riconoscere gli elementi di una storia comune.  Sono state drogate dall'oppio di modernità subalterna che valorizza solo il presente svalutando sistematicamente il passato. Di conseguenza mancano di orgoglio, ripiegano su sè stesse, guardano a modelli che non solo legati alla propria storia anche quando in essa abbondano modelli ed elementi prestigiosi.  Non sanno, di conseguenza, concepirsi proiettate al futuro. Tirano a campare senza slanci, senza entusiasmi. Così vogliono gli interessi globali e i loro terminali locali. Saranno loro a riempire, secondo i loro intendimenti e fini, questo vuoto.


Alpe Varrone: casari "storici" del bitto (da: M.Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte casearia e caseifico. Tradizioni da leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)

Il caso del bitto

Dire : "il bitto si fa in tutta la provincia di Sondrio", stabilire coincidenze tra una produzione agroalimentare tradizionale e confini amministrativi è di per sé operazione che sottrae alla produzione stessa la sua dimensione storica, culturale, secondo l'ovvio programama dell'industria e del global food system. Sterilizzare la storia e la cultura e sostituirla con regole rigide, disciplinari di produzione - definiti da parametri tecnologici -  sposta l'identità del prodotto dalla dimensione culturale (ed ecologica), fatta di adattamento alle mutevoli condizioni ambientali, alla controllabilità dell'ambiente industriale fatto di regole e tecnologie controllate da saperi esperti e burocrazia. Laddove prima il controllo era garantito da saperi impliciti, tramandati nel contesto dell' "imparar vedendo e imparar facendo". Erano saperi di cui i detentori del potere economico e burocratico in passato ben difficilmente potevano impadronirsi. Erano "incorporati" alle persome, a comunità di pratica, erano "sfuggenti" ad un inquadramento formale. Oggi il "sapere" è incorporato a macchine, soft-ware, algoritmi, manuali di procedure. Chi opera direttamente schiaccia un bottone. Fino a quando un robot non lo sostituirà. Il bitto storico (attenzione che non si può più chiamare così) ha sfidato tutto ciò. Contro di esso si è creata una "coalizione naturale" di interessi industriali-politici-burocratici. C'era da aspettarselo.

L'orobicità  profonda dello "storico"

Oggi è prodotto nelle valli del Bitto ma anche nella lecchese val Varrone e in diversi alpeggi della val Brembana bergamasca. Ma sempre da casari della bassa Valtellina. In passato la realtà era quasi speculare. Per secoli brembani e valsassinesi hanno affittato gli alpeggi "da bitto" di Gerola (Trona, Pescegallo, Bomino). Uno scambio circolare che, alla fine, era sempre all'interno della stessa gens orobica, all'interno di un distretto omogeneo dal punto di vista economico, produttivo, culturale. Oggi pensiamo che i confini (tra lo Stato di Milano, i Grigioni, la repubblica di Venezia) rappresentassero un ostacolo alle relazioni. In realtà - in una situazione in cui lo stato non aveva quella capacità di controllo che è cresciuta con la modernità - i confini erano un vero e proprio incentivo a sfruttare, con il contrabbando, i diversi regimi fiscali. Ancor oggi troviamo gli stessi cognomi sui tre versanti perché le attività minerarie e metallurgiche, i commerci di formaggio, ferro, legname spingevano le famiglie più intraprendenti a possedere interessi anche al di là dei crinali.


Alpe Varrone: casari "storici" del bitto (da: M.Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte casearia e caseifico. Tradizioni da leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)

Il "bitto" era quindi un formaggio orobico, prodotto da personaggi tipicamente orobici: i bergamini (detti anche "malghesi" in quanto proprietari di malghe, che da queste parti continua a significare "mandrie" in linea con il significato più antico)(1), casari e allevatori bovini transumanti che in inverno scendevano a consumare il fieno delle cascine della bassa pianura irrigua lombarda (2). Come tutti i prestigiosi formaggi d'alpe anche il "bitto" ha verosimilmente assunto le caratteristiche, che ha conservato sino ad oggi  nella versione "storica",  nel Cinquecento quando per una serie di congiunture economiche (declino allevamento ovino, declino industria estrattiva e lavorazione del ferro) risorse di uomini, terre e capitali si spostano verso l'allevamento bovino e nuovi sistemi zootecnici. Prima tutti i formaggi alpini, anche quelli d'alpeggio, erano di dimensioni più ridotte e con aggiunta di latte ovino (più che caprino).



Cippo stradale del 1916 collocato a Introbio all'inizio della "via del bitto" che, nell'ambito delle opere militari della "Occupazione avanzata frontiera nord" (volgarmente nota come "Linea Cadorna"), vide la realizzazione di un nuovo tracciato ben riconoscibile nel tratto tra la casera vecchia di Varrone e la bocchetta di Trona ma anche nel tratto che attraversa l'alpe Trona soliva (tralasciando i danni della realizzazione della nuova pista forestale da parte del comune di Gerola.)

Quello che chiamiamo "bitto" (nome con il quale era conoscito solo in Valtellina) è un lascito dei berganini

La "fame di alpeggi" dei bergamini li spinse a prendere in affitto alpeggi a nord del crinale orobico. Una tengenza che emerge già nel Cinquecento ma che si consolida nel Seicento facendo lievitare di molto i canoni d'affitto pur in periodi di crisi economica. Cirillo Ruffoni, lo storico di Gerola, ci informa che l'alpe Trona, l'alpeggio simbolo di Gerola (confinante con quella di Varrone attraverso la bocchetta di Trona) nel Cinquecento è affittata ad Antonio dei Coiis (Colli), poi nel Seicento a bergamaschi e nel Settecento a valsassinesi (Arrigoni, Rosa, Scandella, Ticozzi) di Barzio e Pasturo. Anche altre alpi gerolesi erano affittate a bergamaschi: Bomino dal Cinquecento, Pescegallo nel Seicento e Settecento  (3). L'aumento degli affitti indotto dalla concorrenza dei ricchi bergamini spinse in su in modo generalizzato i canoni di tutti gli alpeggi della Valgerola (e si resume anche delle altre valli orobiche valtellinesi coinvolte direttamente o indirettamente nel fenomeno della transumanza, maxime la val Tartano abitata nelle sue contrade più alte da bergamini  (4). Ciò spinse anche i caricatori d'alpe non transumanti ad assumere i casari migliori, pagandoli ovviamente di più, onde ottenere un formaggio molto pregiato in grado di consentire, attraverso elevati prezzi di vendita, il mantenimento di margini di profitto. Così nacque il mito caseario del bitto (già tale nel Cinquecento). Un mito risultato della presenza di buoni pascoli, di una "scuola" di alto caseificio tramandatasi di generazione in generazione per secoli ma, soprattutto, di un'economia fortemente orientata al commercio con facile accesso a tre diverse piazze di vendita (Morbegno, che poi faceva affluire per la stagionatura parte del prodotto a Como, Lecco e Branzi, da dove poi il prodotto era trasferito a Bergamo) senza contare  i ricchi mercati di destinazione finale di Milano e Venezia.  Como ha rivaleggiato con Lecco per molto tempo quale "terminal" delle merci che viaggiavano sui comballi lariani spinti alternativamente da breva e tivan (i venti che spirano rispettivamente da sud  e da nord). Oltre alla corrente di "bitto" che da Morbegno raggiungeva il Lario per via fluviale, per poi arrivare a Como, ve ne era un'altra che prendeva la via dei monti, ovvero per il passo della bocchetta di Trona ( a 2092 m).  Se il "bitto" aveva destinazione Como scendeva da qui attraverso la Valvarrone al porto di Bellano, se era destinato a Lecco prendeva la "via del bitto",  ovvero superava il crinale che separa l'alta Valvarrone e la val Biandino e ridiscendeva attraverso la valle della Troggia a Introbio. Questa "via del bitto" in realtà ha rappresentato l'itinerario più battuto tra la Valtellina e la pianura lombarda prima della realizzazione negli anni Venti dell'Ottocento della strada litoranea sulla sponda lariana orientale, parte del nuovo tracciato che collegava Milano a Lecco proseguendo sino al passo dello Spluga. Il percorso da Bellano a Dervio in precedenza era poco più di un sentiero.


Segnaletica verticale al rifugio Santa Rita (1988 m). Oggi la "via del bitto è un interessantissimo itinerario escursionistico (sullo sfondo la mole del Pizzo dei Tre Signori con l'ultimo sole.

Gerolamo Curtoni di Gerola, di famiglia di caricatori d'alpe, che nella sua carriera ha caricato Bomino, Pescegallo e Trona,  alla fine del  Settecento vende il bitto a mercanti della val Brembana, della Valsassina, di Como e di Morbegno (5). Una prova lampante della possibilità del formaggio bitto di "giocare su più tavoli". Il formaggio del Curtoni poteva valicare il passo di San Marco, scendere a Morbegno o valicare la bocchetta di Trona. Nel 1794 vende 8 forme a Introbio. Nel 1795 vende  allo "Stremenone di Introbio" (evidentemente un soprannome scherzoso dal lombardo stemegnòn, con il significato di "uno che contratta troppo") ma anche "a Como" .  Nel 1796 a Francesco Antonio Stopani (sic) di Como "franco passo" (bocchetta di Trona). Nel 1797 ancora 21 forme allo Stoppani. Nel 1798  a Carlo Stoppani (il figlio?) a Morbegno.  Nel 1800 a Carlo Cattaneo di Morbegno "bergamasco". Questa mobilità delle persone tra un luogo e l'altro di una "filiera" non deve meravigliare. Nel 1808 (sono sempre informazioni fornite da Cirillo Ruffoni)  un "mercante" (di formaggio evidentemente) di Morbegno tale Paolo Antonio Gualteroni (famiglia importante di Ornica in alta val Brembana che poi si stabilì anche a Sondrio e Morbegno ) si aggiudica 25 paghe (6) dell'alpe Pescegallo. Era forse parente di  quel Ambrogio Gualteroni di Ornica che, a nome dei fratelli Pietro, Antonio e Giuseppe "con essi tutti abitanti e conviventi in comunione", acquistava 78 1/4 paghe del monte (alpe) di Sasso in Valbiandino da Gaetano Cusatelli fu Agostino abitante a Porta Romana Parrocchia di San Nazaro in Brolo (7).


Val Biandino, fine agosto 2016 (foto M. Corti)

Va aggiunto che i Cusatelli (ramo degli Annovazzi) erano famiglia originaria di Valtorta (altra località dell'alta val Brembana) confinante con la Valsassina  e trasferitasi in Valsassina.  Nel 1587 gli Annovazzi, ricchi bergamini, acquistarono dalle comunità di Introbio i pascoli della val Biandino (compreso Sasso) e nel 1670 fecero edificare l'oratorio della Beata Vergine della Neve tutt'ora esistente (ricostruto dopo l'incendio del 1944). Alcuni Annovazzi mantennero ancora nell'Ottocento quote dell'alpe Sasso (8).  Proprietà e gestione di alpeggi  e commercio  di formaggio  rappresentavano  attività  complementari, esercitate se non dalla stessa persona da una stessa famiglia o da "colonne" di una stessa grande famiglia. La dislocazione su più versanti del massiccio orobico e tra montagna e pianura delle attività di un clan famigliare costituiva una strategia efficace nel sfruttare variabili opportunità.  Una realtà simile si riscontrava nel comparto estrattivo-metallurgico dove le grandi famiglie cercavano di controllare le diverse fasi della filiera (miniere, forni, fucine) mentre gruppi di una valle possedevano miniere e impianti in un'altra (9). 


Alpe Varrone: casari "storici" del bitto (da: M.Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte casearia e caseifico. Tradizioni da leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)

Sull'importanza del mercato caseario lecchese - dove passava anche molto del formaggio svizzero e del Voralberg destinato a Milano -  rimando al capitolo "La valle del formaggio" del volume sulla storia dell'arte casearia e della zootecnia in Valsassina di fresco pubblicato (10).  Non si deve dimenticare che Lecco era collegata a Milano per via d'acqua grazie al naviglio della Martesana e a quello di Paderno (progettato da Leonardo ma realizzato, dux Mediolani la grande Maria Teresa, nel 1777).

Lecco capitale del "bitto" prima che del gorgonzola (ma non se ne ricorda e non interessa a nessuno)

In questa sede mi pare opportuno richiamare quanto riferiva, in clima di statistiche economiche napoleoniche, il Tamassia all'inizio dell'Ottocento (11). Egli considerava che la produzione di formaggio grasso dei cantoni di Taceno e Lecco sommasse a 3.200 q.li.  Tutta questa produzione, che poi proseguiva verso Milano e Bergamo,  affluiva a Lecco perché non esistevano ancora fiere in Valsassina dove poter vendere il formaggio a fine alpeggio (12). Un secolo dopo le due piazze di Branzi (con 2.300 q.li e di Morbegno, con 1.000) (13)  superavano di poco la produzione di "formaggio grasso" della Valsassina e Valvarrone di un secolo prima. All'inizio del Novecento, però, il formaggio grasso a Lecco era quasi scomparso.
Dopo il 1880 nei grossi alpeggi, dove si producevano "formagge" di "grasso" e "semigrasso" si produceva a tutto spiano strachitunt (Gorgonzola).  Tutte cose dimenticate. Del resto l'amnesia storica è una malattia diffusa. Dopo essere stata la "città del Gorgonzola" (sede di numerose ditte con magazzini esportazione in Inghilterra) Lecco si dimenticò ben presto di questo titolo (che, in precedenza, era appartenuto, ovviamente, a Gorgonzola) ed esso passò a Novara per rimanervi.  A Lecco il ferro (in forme diverse) è rimasto quantomeno nella memoria mentre il formaggio è stato rimosso. Eppure è stata capitale del "formaggio grasso" e poi del "gorgonzola". Le mitologie della "grande industria siderurgica" eccitavano le culture del Novecento (operaismo, industrialismo), il formaggio no.

Va comunque precisato che il dna caseario della montagna lecchese era legato oltre al "grasso d'alpe" anche agli  stracchini ( i "quartiroli" , che solo con il Novecento vengono chiamati "taleggi") e ai furmagì (prima di capra poi vaccini con la nascita di aziende come la Cademartori a fine Ottocento).  Negli alpeggi più piccoli, non in grado di produrre una forma di "grasso" e neppure di "semigrasso" (cosa più facile unendo il latte di più mungiture), si producevano anche in passato gli stracchini. Anche se in grossi alpeggi come Biandino e Sasso (divisi, però, tra più proprietari) nel Settecento  la produzione principale era il "grasso" ("bitto") vi era anche una produzione accessoria di stracchini (all'inizio e alla fine dell'alpeggio verosimilmente). Nel contratto d'affitto ( rogato in Monza dal notaio Luigi Bonola il 7 dicembre 1794)(14) di una porzione alpe Biandino appartenente a Giovanna Cusatelli  i bergamini  affittuari (Locatelli e Invernizzi di Ballabio) si impegnavano, oltre al canone in denaro, a corrispondere anche un'appendizio in natura costituito  "formaggio grasso del più perfetto, sano e ben stagionato pesi tre, libbre dodici di stracchini simili della miglior pasta a stadera di oncie trenta da pesarsi in  Monza".  Il peso corrispondeva a 7,63 kg, la libbra valeva esattamente un decimo del peso. Quindi 23 kg di formaggio e 9 kg di stracchini. Questo ci dice solo che si producevano entrambe le tipologie ma non qual'era la proporzione.
I formaggi dovevano essere consegnati il primo ottobre insieme alla rata annuale dell'affitto . Per i bergamini non era un grosso problema perché dovevano venire in pianura e frequentavano Milano e dintorni. In un analogo contratto per la porzione dell'alpe Sasso della stessa proprietaria, stilato qualche giorno dopo dallo stesso notaio monzese (15) i bergamini che assumono la locazione (Arrigoni e Galbani di Bajedo, oggi frazione di Pasturo) si impegnano a corrispondere sei pesi (in due forme) di formaggio grasso e trentasei libbre di stracchini grassi.  Si conferma che le "formagge" erano di grosse dimensioni (23 kg). Esattamente come il "bitto". Attualmente il bitto dop è compreso tra 8 e 25 kg ma gli autori che lo hanno descritto in precedenza indicavano un peso tra 15 e 30 kg. Il Melazzini, nel 1904, stabiliva come limiti quelli di 16-40 kg (16). Dai dati riportati da Ruffoni con riferimento a libri di conti di caricatori gerolesi del Settecento si ricavano pesi unitari di 2/3 pesi (17).


Alpe Sasso nell'immediato primo dopoguerra. A destra G.B. Invernizzi "Pedron", grosso bergamino di Barzio  (da: M.Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte casearia e caseifico. Tradizioni da leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)

Nel contratto di locazione dell'alpe Sasso del 1794 vi è un'altra clausola interessante. I locatari si impegnavano a riscuotere, per conto della proprietà, il corrispettivo del "diritto precario di passaggio" dai "bergamini dell'alpe Trona". Questi bergamini, come ci informano i documenti dell'archivio parrocchiale di Gerola relativi ai contratti di affitto di Trona (18) erano i Ticozzi di Pasturo. In precedenza  Trona era stata caricata da bergamini di Barzio (Scandella) sin dal 1709. Un documento conservato nell'archivio pensa concerne la concessione ad Alessandro Arrigone detto Scandella e Antonio Rosa di Barzio della "llicenza precaria di poter passare per la strada solita delli detti Monti per andare con li loro bestiame al Monte di Trona, giurisdizione di Valtelina, e ritornare per la medema tenendo però sempre il loro bestiame nella strada solita battuta" (19). Alla fine del Settecento questi diritti di passaggio erano diventi così consuetudinari che il contratto sopra citato si limita a indicare i termini della riscossione del "tributo annuo" per la "precaria concessione di passaggio con le loro malghe" che in realtà era piuttosto modesto e consistente in "libbre quindici [11 kg] strachini grassi e stagionati". Va considerato che questo itinerario, lungo la "via del bitto",  prevedeva il passaggio anche dall'alpe Sasso e dall'alpe Varrone con i relativi "tributi".


Tre versanti ma un'unico distretto con gli stessi attori

In un gioco di continua "triangolazione" tra Valsassina, alta Valbrembana, valli orobiche valtellinesi, l'uso delle alpi collocate allo snodo di questo grande comprensorio (alpivo e minerario) ha visto succedersi "caricatori" di tutti e tre i versanti. Se prima del 1709 erano i bergamaschi a caricare Trona (20), con l'inizio dell'Ottocento i caricatori saranno valtellinesi. La secolare tendenza di caricatori valsassinesi e brembani a caricare alpi del versante valtellinese si ribalterà tra Otto e Novecento quando (e la tendenza continua sino ad oggi) alpeggi in Valvarrone, Valsassina e alta Valbrembana verranno caricati da valtellinesi.
La spinta a caricare oltre il crinale orobico di valsassinesi e brembani era legata all'affermazione dei bergamini. Con la fissazione in pianura (in qualità di affittuari o proprietari di aziende agrozootecniche) dei bergamini transumanti, che inizia a delinearsi verso la fine dell'Ottocento ma assumerà dimensioni "di massa" dopo la prima guerra mondiale, per i valtellinesi si aprirono inedite grandi possibilità di affitto di alpeggi.
Non solo per l'affievlirsi della concorrenza dei bergamini (imbattibile per i piccoli alevatori locali come oggi avviene quando società e grandi aziende zootecniche della pianura - per motivi di speculazione sui premi Pac - partecipano alle aste) ma anche per un'altro motivo: i gerolesi fino alla metà dell'Ottocento scendevano nel fondovalle abduano per una "piccola transumanza" invernale piuttosto breve che sfruttava gli incolti e le aree con vegetazione riparia dell'alveo del grande fiume. Con gli anni Trenta dell'Ottocento, per iniziativa dell'imperial regio governo, si avvia la bonifica dell'asta dell'Adda che consentirà di aumentare moltissimo la superficie coltivata, creando nuove aziende agricole. Da un sistema fortemente orientato al pastoralismo gli allevatori della Valgerola (20)  passarono ad un sistema agropastorale che poteva disporre di ampie superfici foraggere nel fondovalle. Fu così possibile aumentare il bestiame allevato. Se prima i valsassinesi andavano a Trona nel Novecento i valtellinesi si spinsero sino ai piani di Bobbio (Biandino e Sasso non furono mai interesati da questi movimenti perché di proprietà privata). ne furono, invece, interessati eccome gli alpeggi della Valvarrone, non già quelli utilizzati dagli abitanti per l'alpeggio "di sussistenza" ma i pochi affittati di proprietà dei comuni come si deduce dalla seguente tab. dell'Inchiesta sui pascoli alpini della Soc. agraria di Lombardia del 1912.

Società agraria di Lombardia,  Atti della commissione d’inchiesta sui pascoli alpini, Vol III, “I pascoli alpini della provincia di Como” Milano, Premiata Tipografia Agraria, 1912


I migliori alpeggi della Valvarrone passano a fine Ottocento dai valsassinesi ai gerolesi (ma si fa sempre "bitto")

Inizialmente i valtellinesi hanno iniziato ad utilizzare le alpi della Valvarrone, poi si sono "allargati" a Bobbio e agli alpeggi bergamaschi. Il percorso delle malghe, inverso a quello precedente,  ma sempre attraverso la trafficata bocchetta di Trona, data agli ultimi decenni dell'Ottocento.  La vicenda della famiglia dei bergamini Platti di Pasturo è molto interessante  perché ne possiamo ricostruire una vicenda secolare che arriva sino ad oggi.  I Platti ("Martinaj") appaiono, insieme agli Arrigoni "Cascin" di Bajedo tra i "consorti" di una quota dell'alpe Biandino nel 1881 insieme agli Invernizzi Pedron di Barzio (che si inseriscono già nel 1876 rilevando la quota della cappellania della chiesa di Sant'Antonio da Padova di Prato San Pietro (21).


Alpe Biandino all'inizio del Novecento (da: M.Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte casearia e caseifico. Tradizioni da leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016)

Successivamente gli Invernizzi "Pedron" (ma siamo già nel Novecento) acquisiscono Sasso mentre i (Platti-Doniselli) sono ancora lì a "mangiare" non solo Biandino ma anche Sasso (attualmente di proprietà Bregaglio dope le vicende della "Società funivie di Introbio che, negli anni '60, si prefiggeva la creazione di una megalomane stazione sciistica tra Biandino e il Camisolo con tanto di campi da golf e grandi alberghi).
Dove caricavano prima del 1876 i Platti "Martinaj" di Pasturo? A Varrone. Un fatto che concorda con i ricordi della gente della valle che non ha dimenticato come i migliori alpeggi venissero in passato ceduti ai valsassinesi (22). All'inizio del Novecento l'Inchiesta sui pascoli alpini (23) segnala come in Valvarrone carichi ancora un bergamino che, oltre alle proprie bestie non ne manteneva nella malga nessuna "locale", anzi aveva degli asciutti affidati da un fittavolo della Bassa. L'alpeggio in questione era Artino, poi utilizzato da diversi caricatori di Gerola per produrre bitto e collocato in sponda sinistra dell'alta Valvarrone (confinante con la Valbiandino). Il sistema del calecc' e tutto il "metodo delle valli del bitto" erano presenti a Varrone e Areggio (Larecc') dove l'affitto era concesso a piccole società di caricatori (10 a Varrone, 8 ad Areggio) con bestiame in gran parte proveniente dalla Valtellina.  Il "bitto" non è solo un "formaggio grasso" ma è il prodotto di un sistema che, prima che di caseificazione, è di pascolamento. In alpeggi "al cuore del bitto" come Varrone e la stessa Trona, però, sino al Sette-Ottocento c'erano caricatori della Valsassina e dal momento che i calecc' sono certo un sistema ancora più vecchio è giocoforza che i valsassinesi (così come i brembani che caricavano gli alpeggi delle valli del bitto) seguissero un sistema che non può certo ritenersi esclusivo di queste valli dal momento anche che, in non pochi alpeggi del versante brembano, caricati da bergamini, a inizio Novecento i calecc' erano ancora comuni.


Note

AS = Archivio di stato

(1) M. Corti, I ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa eversiva, Slow Food editore, Bra,  2011

(2) M. Corti, La civiltà dei bergamini. Una tribù lombarda di malghesi tra i monti e il piano tra il quattordicesimo e il ventesimo secolo, Centro studi valle Imagna, Sant'Omobono terme, 2015

(2) L'uso di malga con il senso attualmente utilizzato in Trentino, parte del Veneto e qualche area orientale della Lombardia si afferma solo alla fine del medioevo. Il lombardo (compreso il bergamasco) mantiene "!malga" con il significato antichissimo di "gruppo di animali da latte al pascolo". Questo aspetto ed altri etnolinguistici relativi ai fatti dlel'alpeggio sono ampiamente discussi in: M. Corti, "Süssura de l aalp. L'alpeggio nelle Alpi lombarde tra passato e presente"in SM Annali di San Michele, vol. 17, 2004, pp. 31- 155

(3) C.Ruffoni, "La storia degli alpeggi e del formaggio Bitto. La grande svolta (l'età moderna)", in M. Corti, C.Ruffoni, Il formaggio Val del Bitt. La stora gli uomini, gli alpeggi, Ersaf, Milano, 2009, pp. 21-72.

(4) M. Corti (qui su Ruralpini) Val Tartano, anima orobica

(5)  C.Ruffoni, op. cit.

(6) La "paga" è l'unità di proprietà del pascolo corrispondente al diritto di caricare un capo grosso. Non è un'unità di superficie perché la proprietà di un "monte" è indivisa (condominio)

(7) ASMi, Notarile, Atti notai di Milano, 45742 (Antonio Castiglione, n. 1329, 30 novembre 1799)

(8) ASCo, Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Lecco, Registri catasto Lomvardo-Veneto, 157.

(9) M. Tizzoni, P. Invernizzi, M. Lambrugo, Memorie del sottosuolo. Per una storia mineraria della Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2015

(10) M.Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni, Arte casearia e caseifico. Tradizioni da leggenda in Valsassina, Bellavite, Missaglia, 2016

(11) G. Tamassia, Quadro economico dei cantoni di Taceno e Lecco, IV distretto del Lario, Giusti&Ferrario e C., Milano, 1806.

(12) M.Corti, G.Camozzini, P. Buzzoni, op. cit. , cap. 2

(13) M.Corti, Bitto: una storia esemplare, una questione aperta” in: Caseus. Arte e cultura del formaggio, anno XI (2006), n. 3, pp. 19-30

(14) ASMi, Notarile, Atti dei notai di Milano, 49174 (Luigi Bonola, 7 dicembre 1794)

(15) Ivi.

(16) M. Corti, op. cit., 2006

(17) C. Ruffoni, op. cit.

(18) Ivi

(19) Archivio Pensa. Licenza e facoltà di transito dall’Alpe di Biandino.1709 giugno 25. “Essendo che M.r Antonio Rosa quondam Lorenzo e M.r Alesandro Arrigone detto Scandella, ambidui bergamini della terra di Barsio habbino ricercato dalli SS.ri Giacomo e Giovanni Pietro, SS.ri carlo Bernardo e Giovanni Battista consorti Cubii di Primaluna e dalli SS. Carl’Antonio, Leonardo e Rocco consorti Fondra di prato S. Pietro e dal Sig.r Carlo Cusatello habitante in Introbio, tutti compatroni del Monte o sia Alpe di Biandino ogn’uno alla rata de suoi acquisti, eccettuando il Monte della Schala quale è solamente di ragione delli SS.ri consorti Cubii e Fondra escluso detto Sig.r Cusatello, di concendere ad essi Rosa et Arrigone la licenza precaria di poter passare per la strada solita delli detti Monti per andare con li loro bestiame al Monte di Trona, giurisdizione di Valtelina, e ritornare per la medema tenendo però sempre il loro bestiame nella strada solita battuta, considerato perciò il semplice transito et escluso ogni altro danno In virtù della presente valitura come publico instromento li sudetti SS.ri Cubii, Fondra e Cusatello conpatroni come sopra concedono et hanno concesso alli sudetti Rosa et Arrigone la facoltà di poter transire come sopra con il loro bestiame tenendo sempre la strada battuta e rimosso ogni altro danno per l’anno corrente 1709 et sucessivamente per li anni nelli quali continuaranno caricare detto Monte di Trona … Li medemi SS. Consorti Cubii e Fondra concedono anche a detti Rosa er Arrigone la facoltà del transito per la strada delli Monti della Scala proprii d’essi SS. Cubii e Fondra per il tempo e nei modi come sopra compresa nella detta ricognitione.”

(20) Queste considerazioni non valgono per i contadini-allevatori della valle del bitto di Albaredo che erano, e restarono, legati al un'economia di sussistenza e non furono i grado di acquistare terreni al piano. La disponibilità economica dei gerolesi era legata alla loro partecipazione ad un sistema di alpeggio imprenditoriale dai tratti comuni a quello dei bergamini brembani e valsassinesi. Va tenuto in considerazione che sia la Valgerola che la la val Tartano mantennero per secoli legami strettissimi con la Valsassina e alcuni centri della valle di Averara nel caso di Gerola, con Valleve, in alta Valbrembana, nel secondo. A Gerola e a Tartano i cognomi largamente prevalenti sono quelli dei centri oltre il crinale orobico. Riferisce il Pensa che,quando nei secoli passati moriva un Acquistapace o uno Spandri (cognomi di Gerola e di Cortenova in Valsassina) la salma venisse trasportata percorrendo la "via del bitto" - eventualmente dopo essere stata conservata in un blocco di neve compressa se la morte accadeva in inverno - sino al Cimitero di Cortenova ( P. Pensa Quando da Gerola si andava a Cortenova ogni tanto sostando vicino al "posamort" in L'Ordine, 12.1.1979). Da Cambrembo e da Foppolo, in Valbrembana, accadeva l'opposto ed i morti venivano trasportati al cimitero di Sant' Antonio in Sparavera (una contrada della val Lunga). Questi insediamenti delle alte valli, nati come trasformazione di precedenti insediamenti temporanei, mantennero a lungo tempo scarsissimi legami con la Valtellina per il semplice fatto che i collegamenti con il fondovalle erano resi oltremodo difficoltosi, specie in caso di ghiaccio, dalla necessità di superare le asperità rocciose tipiche della parte più stretta delle valli, prima del loro sbocco.

(20) C. Ruffoni, op. cit.

(21) ASCo, Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Lecco, Registri catasto Lombardo-Veneto, 157

(22) Valvarrone e Valsassina appartengono alla stessa Comunità montana ed erano unite politicamente anche in passato (sia pure in "squadre" diverse della stessa unità territoriale), ma tengono tutt'oggi a rimarcare la propria identità

(23) Società agraria di Lombardia,  Atti della commissione d’inchiesta sui pascoli alpini, Vol III, “I pascoli alpini della provincia di Como” Premiata Tipografia Agraria, Milano, 1912

(24) Società agraria di Lombardia Atti della commissione d’inchiesta sui pascoli alpini, Vol II, Fasc. III,  “I pascoli alpini della provincia di Bergamo ” , Premiata Tipografia Agraria, Milano, 1907.





 

 

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