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Culture rurali e
popoli
Gana eme nawin uoo (Qui l'ambiente è duro)
Vivere in ambienti estremi
di
Michele Corti
Il
popolo Dogon del Mali
è un popolo laborioso e orgoglioso, che è riuscito a trovare un
equilibrio con un ambiente difficile. Anch'esso è stato messo in crisi
dalle "politiche di sviluppo" dello stato e delle ONG occidentali ma,
grazie alla fortissima identità culturale di questo popolo, portatore
di una cultura
articolata e peculiare, la sua realtà agricola e sociale non è stata
del tutto stravolta. Molte sono le analogie tra la realtà dei Dogon e
dei nostri
villaggi alpini di un tempo, parlare di queste esperienze di civiltà
contadina, così diverse e così simili aiuta moltissimo alla
comprensione reciproca e alla ricerca di forme di collaborazione
all'insegna della reciprocità. Ne abbiamo parlato a Palazzolo
sull'Oglio la scorsa settimana in un incontro fuori dagli stereotipi.
(28.05.19) Conoscere e apprezzare la bellezza e la ricchezza
delle culture tradizionali come quella dei Dogon (non a caso molto
studiata dagli antropologi) apprezzare la loro saggezza ecologica è un
modo per
sostenere la lotta contro
l'omologazione mondialista. La difficile condizione dei Dogon, che
difendono coraggiosamente la loro indentità sotto attacco degli jihadisti, lasciati
soli dallo stato del Mali (di fatto tutt'ora una colonia francese),
vittime dell'indifferenza dell'occidente buonista e politically
correct, dovrebbe spingerci a vergognarci di come stiamo rinnegando la
nostra civiltà, di come ci siamo sbrigativamente dimenticati che la
realtà effimera del
benessere attuale che narcotizza le società occidentali, datata solo
1-2 generazioni, è
stata preceduta da una lunga storia di fatiche e di lotta per la
sopravvivenza.
24 maggio 2019 presso la Sala della
musica di Palazzolo sull'Oglio. Alcuni componenti del gruppo venuto di
Dogon venuto dal Mali composto da rappresentanti dei villaggi che
compongono il grande Comune di Sangha per partecipare al ciclo di
incontri organizzato dall'associaizone
culturale SirioB di Palazzolo sull'Oglio
L'incontro tra popoli, l'accoglienza se non vogliono
essere funzionali al programma mondialista, se vogliono essere fondati
sui solidi valori dell'amicizia, della fraternità, e non
sull'astrattezza ingannevole dei diritti universali e della
negazione della differenza, devono presupporrre la conoscenza
reciproca dalla quale nasce la comprensione e il rispetto. Non esistono
gli africani come categoria indistinta ma centinaia di popoli con la
loro storia e le loro culture. Così come per gli europei. A ben
guardare l'attuale buonismo immigrazionista è la continuazione del
vecchio colonialismo, del vecchio razzismo: da una parte gli africani:
poveri,
arretrati, sottosviluppati, che desiderano partecipare del
benessere degli europei sazi ed egoisti. Un paternalismo e un razzismo
meno feroce (solo apparentemente) ma pur sempre una diversa forma di
paternalismo e di razzismo, che pretende di spogliare di ogni identità
collettiva chi "ospita" e chi è "ospitato". Che usa gli uni contro gli
altri. Non
tutti gli europei sono ovviamente sazi ed egoisti, come l'immagine
falsa del "paese del Bengodi" trasmessa dalle sirene mondialiste, che
predispone in modo negativo gli "ospitati". L'immigrazione incide
negativamente proprio su nuovi poveri della società
neoliberale, quella della brutale restaurazione del potere di classe e
delle abissali differenze di distribuzione della ricchezza, incide sui
perdenti
della globalizzazione per i quali sotto la patina affettata del
buonismo emerge il neodarwinismo sociale neoliberale che mostra loro
tutti il disprezzo destinato a chi non sa adattarsi al nuovo.
Impossibilitata a mantenere in vita la farsa del "sostegno ai
lavoratori" la sinistra progressista, laicista e clericale, si è
riciclata nel sostegno dei migranti, che hanno preso, nella mitologia
sociale della sinistra, il posto di un proletariato trasformato dal
capitalismo in precariato (con il consenso della stessa sinistra). Così
la nuova falsa sensibilità e apertura sociale si è espressa nella causa
delle porte e dei porti aperti, dell'accoglienza senza limiti, che
induce a rischiare le rotte dell'immigrazione clandestina e alimenta il
traffico di esseri umani (e loschi business di coop, caporalato e
"modelli di accoglienza"). Si presentano le porte spalancate alle
ondate immigratori, presentate come un fenomeno "naturale" contro il
quale nessun argine o regola è possibile, come un "aiuto"
all'Africa, anche se in Africa gli stessi vescovi si appellano ai
giovani perché non partano e considerano questi movimenti
migratori di massa verso l'Europa un fenomeno del tutto negativo.
Considerando la storia delle politiche di "sviluppo" e di "aiuto"
all'Africa, che hanno rafforzato il potere neocoloniale e arricchito le
multinazionali, acuito la dipendenza,
saccheggiato le risorse, non c'è meravigliarsi di questa nuova
ipocrisia buonista. Chi si batte per le "porte aperte" sono gli stessi
interessi che in Africa praticano il land grabbing e il
neocolonialismo.
Chiaro è
il vantaggio dell'elite borghese progressista nell'indebolire la già
ampia fascia di precariato e di sconfitti della globalizzazione, con
l'immissione incessante di un nuovo esercito
industriale di riserva pronto a subire qualsiasi condizione, un esercito che preme non solo sugli "indigeni"
ma anche sugli immigrati delle precedenti ondate. Lanciare agli
immigrati il messaggio
dell'occidente sazio, dell'occidente uniformemente e "naturalmente"
ricco, privilegiato, che non conosce la fatica è quanto mai deleterio
per la reciproca comprensione, esattamente come lo stereotipo
dell'africano che "non conosce il lavoro", che, vivendo in condizioni
climatiche favorevoli, non ha bisogno di darsi da fare per ripararsi
dal freddo e per coltivare quello che cresce quasi
spontaneamente.
Le cose non stanno così: la maggior parte delle culture africane sono
culture contadine o agropastorali che conoscono la fatica del lavoro,
l'aleatorietà dei raccolti, i disagi del clima, la carestia e la
siccità, le conseguernze delle epidemie di bestiame.
È bene farlo sapere agli europei, così come è importante far sapere che
non sono i contadini che lottano per la sopravvivenza a lanciarsi
nell'avventura migratoria ma i giovani degli strati urbanizzati e
scolarizzati che dispongono anche del reddito necessario per finanziare
il viaggio della spesso mal riposta speranza. Partono coloro che hanno
perso contatto con la propria cultura che si sono già largamente
occidentalizzati nell'accezione banale del termine (che rimanda a coke,
nike, smart phone e qualche altro feticcio). Così è bene che gli
africani conoscano quali fatiche e difficoltà comportasse la condizione
del contadino europeo, che aveva a che fare o con un ambiente difficile
o con la dura dipendenza sociale (o con entrambi). Il benessere dei
nipoti dipende in qualche misura dallo sfruttamento esercitato
dall'Europa sui paesi colonizzati ma, nel caso delle classi inferiori,
per lo più da incredibili sacrifici di lavoro, di emigrazione,
esercizio di piccole attività artigiane dei vcecchi. Apprendere
che si ha un passato molto
simile aiuta a comprendersi e rispettarsi. Il caso dei Dogon, un popolo
di 200 mila persone ma molto autoconsapevole, mette bene in
evidenza come, anche in Africa, la sopravvivenza comportasse (e
comporti) un duro lavoro. Chiarisce anche come, laddove una cultura
ancestrale sia viva e risponda ad esigenze materiali e simnboliche di
un popolo, l'identità collettiva e il legame con la terra restino forti
e non ci sia spinta emigratoria se le condizioni della sussistenza sono
assicurate. La Falesia
di Bandiagara è un'importante formazione
rocciosa, una montagna lineare, localizzata
nel Mali e
costituita da una falesia di roccia
sedimentaria con il bordo
a
500 metri di altitudine, che sovrasta la pianura a 300 m di quota . Si
estende da sud verso nordest per circa 200 km terminando con l'Hombori
Tondo (1.115
m).
L'area della falesia rappresenta uno dei siti di maggiore interesse archeologico, etnologico e geologico dell'Africa
Occidentale, ed è stata
designata Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO nel 1989. Sotto la
scarpata si apre la pianura che, in direzione SE, porta al confine con il
Burkina Faso. A NO della falesia si estende, invece, un altopiano che
degrada lentamente verso il fiume Niger dove si trova la città di Bandiagara.
I Dogon si
sono insediati nella falesia di Bandiagara verso il XIV secolo,
provenienti dal Mandé, una regione a SO del Mali e NE della Guinea. La
migrazione era motivata dalla volontà di sfuggire all'islamizzazione. I
Dogon hanno preso il posto dei Tellem, un popolo di
cacciatori-raccoglitori che, dalla preistoria, si era insediato con villaggi sulla
scarpata. I Dogon hanno invece costruito i loro insediamenti sull'orlo
della falesia o alla sua base utilizzando solo parzialmente i vecchi
villaggi Tellem che, in alcuni casi sono stati trasformati in cimiteri.
La falesia è il centro della
dimensione di vita dei Dogon. Lo è stato per secoli. La pianura, con le
sue ondulazioni, che consente una limitata attività di coltivazione ha
rappresentato una realtà ostile popolata da spiriti cattivi. Dalla pianura arrivavano i razziatori
a cavallo che catturavano i Dogon per alimentare il mercato degli
schiavi. Per loro chiunque non fosse islamico era una preda potenziale.
La falesia forniva protezione, era la casa dei Dogon. In alto, sul
bordo della falesia, era possibile scorgere in lontananza l'arrivo dei
razziatori e preparare la difesa o cercare un nascondiglio sicuro tra
le tante caverne. Alla base della falesia, dove scorre un fiumiciattolo, si sviluppa
l'agricoltura Dogon, che è meglio definibile come una forma di
orticoltura. L'insediamento Dogon, la catena di villaggi alla base della falesia è frutto
di un equilibrio tra il miglior utilizzo della terra, che presuppone
villaggi di piccole dimensione e le necessità di difesa che esigono il
raggiungimento di una certa forza numerica. Il villaggio tipo
tradizionale era di 500-1000 persone. Il lavoro agricolo era
organizzato a livello comunitario perché era necessaria la presenza di
20-30 uomini per garantire una difesa. Al vertice di questi gruppi
composti da famiglie allargate vi era un anziano che coordinava
l'attività e dalla cima della falesia faceva da vedetta. Per lavorare i
campi più distanti era necessario aggregare gruppi più numerosi, sino a
50 uomini, reclutati tra le varie classi di età. I campi erano
assegnati ai vari gruppi sulla base di complessi sistemi di rotazione.
Sparse lungo una sottile e lunga fascia di territorio le
comunità Dogon hanno sperimentato una forte frammentazione in dialetti
della lingua.
Elementi caratteristici del sistema
tradizionale di produzione agricola Dogon sono i granai con la
copertura di paglia, che sembrano tanti buffi pupazzi con il cappello, e
i serbatoi a imbuto, scavati, a prezzo di un grande lavoro, nella roccia
impermeabile dell'altopiano al fine di conservare l'acqua durante la
stagione secca. Ogni dettaglio dell'ambiente dei Dogon viene sfruttato,
basi pensare che negli avvallamenti delle ondulazioni della pianura
sabbiosa, sul fondo degli impluvi, vengono collocati dei recipienti
d'argilla che, con la condensa del mattino, raccolgono un po' di acqua.
Di quest'acqua, così ingegnosamente raccolta, si dissetano i Dogon
durante i lavori nei campi lontani dal villaggio.
Sia che l'acqua serva per irrigare i
campicelli alla base della falesia o sul bordo dell'altopiano, il modo
per distribuirla implica un enorme lavoro di trasporto sulla persona .
Oggi con contenitori metallici e bidoni di plastica, in passato con
zucche vuote. Con questi metodi tradizionali, a prezzo di tanta,
fatica si ottiene un uso il più possibile parsimonioso della risorsa
acqua.
Sul plateau, grazie ai serbatoi scavati
nella roccia è possibile irrigare anche nella stagione secca. Il
sistema a gradoni consente di attingere l'acqua mano a mano che il
livello cale, sino a raggiungere quella rimasta sul fondo del serbatoio
La superficie rocciosa è stata ricoperta di terriccio trasportato
faticosamente e contenuto in piccole parcelle delimitate da pietre. Un
sistema che ha evidenti analogie con i nostri terrazzamenti anche se
applicato a terreni pianeggianti.
I Dogon sono orticoltori ma allevano
bestiame: vacche e capre, sia per integrare la dieta con latte e carne
sia per - e per loro questo è ancora più importante - per avere del
concime. Tra le varie conoscenze tradizionali sviluppate dal popolo
Dogon vi sono quelle sull'ottenimento e l'utilizzo al meglio dei
concimi naturali. Ve ne sono diversi utilizzati: letame di capra,
termitai, guano alle rocce fosfatiche. Il concime animale è
essenziale per coltivare il suolo sabbioso della pianura e consentire
di migliorare la capacità di trattenere l'acqua.
Le condizioni ambientali in cui opera
l'agricoltura dei Dogon sono molto severe, ma lo sono anche quelle dei
villaggi alpini. Sulle Alpi i vincoli principali sono rappresentati
dalla brevità della stagione calda e dalla pendenza. I suoli di
montagna sono leggeri, poco profondi, ricchi di scheletro, sono facili
da lavorare ma le radici non possono approfondirsi molto e il terreno
richiede concime organico. È interessante osservare che
l'agricoltura alpina tradizionale utilizzasse anc'essa cereali
"poveri", che maturano in fretta ed hanno scarse esigenze di
lavorazioni e di concimazione. Così anche sulle Alpi erano largamente
utilizzati miglio, panico, orzo distico, segale. E il grano saraceno
che non è un cereale ma si caratterizza anch'esso per un ciclo molto
rapido, adatto alle condizioni alpine. Prima della diffusione del grano
saraceno (XVI secolo) e del mais (nel XVIII secolo) il miglio era un
cereale di base anche sulle Alpi, con il quale si preparavano la
polenta e le minestre.Il miglio è la coltura base dei Dagon. Essi
utilizzano anche il fonio (Digitaria
exilis), un cereale "poverissimo" che ha l'aspetto di un'erba e
una granella piccolissima. Il fonio è oggetto di molti rituali Dagon
dal che si deduce che in passato era più importante. Eppure...
Per la sua rusticità e per le proprietà nutrizionali della sua farina
il fonio è oggi apprezzato anche in Occidente e considerato dalla
Fao uno dei 50 cibi del futuro. Questa risorsa alimentare si è
conservata grazie ai contadini. Se essi fossero stati indotti a
coltivare solo per il mercato e ad inseguire le altre rese non
esisterebbero più. La disponibilità di diverse colture e di diverse
varietà della stessa pianta coltivata ha consentito ai contadini di
sfruttare tutte le nicchie ecologiche al meglio. I Dogon, che si devono
confrontare con la scarsità dell'acqua, hanno imparato a conoscere in
modo preciso le esigenze di ogni terreno (acqua, concime, lavorazioni,
estirpazione di malerbe) e di ogni varietà colturale con estrema
precisione. Hanno imparato anche a riconoscere le diverse varietà per
le loro caratteristiche sensoriali (aroma, profumo, gusto) così come i
contadini di Teglio in Valtellina riconoscono dal profumo dei
pizzoccheri la varietà di grano saraceno impietaga per produrre la
farina bigia. Per la semina si tiene conto della conta dei cicli
lunari, della migrazione degli uccelli e della posizione del sole al
tramonto. La presenza di determinate infestanti suggerisce quando
iniziare o terminare una rotazione.
Il fonio
Per l'inizio della stagione si
tiene conto della conta dei cicli lunari, della migrazione degli
uccelli e della posizione del sole al tramonto. La presenza di
determinate infestanti suggerisce quando iniziare o terminare una
rotazione. I Dogon sono un esempio di civiltà contadina molto ben
organizzata... e quanto della loro esperienza troviamo riflesso in quella
dei nostri contadini che hanno strappato per millenni un po' di pane
alla montagna. Quando i Dogon, per minimizzare gli effetti della
scarsità di acqua, distribuiscono le loro colture su micro parcelle di
terra, fanno la stessa cosa dei nostri contadini che cercavano di
disporre piccolissimi campi a varie altitudini, a varie esposizioni, di diversa
natura del terreno. Il tutto per minimizzare gli effetti della
grandine, della siccità (che colpisce anche le Alpi, specie in alcuni
comparti), delle avversità biotiche. Il tecnocrate supponente grida
all'irrazionalità della polverizzazione fondiaria, invece non capisce
che, per le famigli,e questa possibilità di distribuire la superficie
posseduta su tanti campicelli era una forma di assicurazione. Fa anche
finta di ignorare che la polverizzazione attuale è una degenerazione
patologica, legata all'emigrazione permanente e all'abbandono della
montagna rispetto a un sistema che per secoli era riuscito a garantire
un certo equilibrio (attraverso le strategie matrimoniali
la frammentazione veniva periodicamente ricomposta).
Se i Dogon devono impiegare fatiche
immani per trasportare l'acqua e scavare la roccia dei loro serbatoi di pietra,
quanta è stata (e ancora è) la fatica del riportare a monte il terriccio
dei terrazzamenti trasportato a valle dall'acqua meteorica, nel trasportare il
fieno su pendii proibitivi per i quadrupedi, nel trasportare il letame
in spalla.
Una vita con i pesi in spalla o in
testa, su e giù. Abbiamo fatto vedere queste immagini ai Dogon
che ne sono stati colpiti.
... e che somiglianza tra le contadine
alpine che spigolavano e trebbiavano i cereali e il grano saraceno e le
loro sorelle africane.
Con la colonizzazione francese gli
antichi equilibri hanno cominciato a rompersi. I Dogon, che non
dovevano più temere le razzie degli schiavisti, presero a colonizzare
la pianura creando nuovi villaggi. Dal 1938, anche sull'altopiano, si
sono estese le coltivazioni e i villaggi grazie alla realizzazione di
piccole "barrages" (dighe) che consentivano di accumulare molta più acqua delle
vecchie cisterne scavate nella roccia. Così si è sviluppata la
coltivazione di cipolle mentre
nel piano si continuava a coltivare nella stagione umida sorgo e miglio in rotazione con
fagioli (anche un po' di riso, piselli sesamo, tabacco). Le cose
sono cambiate in modo più drastico dopo gli anni '80 che hanno
conosciuto la terribile siccità del 1984 e 1985, seguita dall'invasione
delle locuste nel 1986. Per aiutare i Dogon lo stato e le ONG
occidentali hanno spinto per una politica di emigrazione (nelle città) e di intensivizzazione delle
coltivazioni agricola da reddito, sempre incentrata sulla cipolla che
sull'altopiano risulta di elevata qualità. Sono state realizzate
sull'altipiano delle dighe più grosse e la popolazione è cresciuta. I coltivatori dipendono però dai concimi
chimici acquistati tramite il governo, dagli aiuti internazionali per
la manutenzione delle dighe.
Dipendono dal mercato delle cipolle e non dispongono pià, come in molte
parti dell'Africa di colture di sussistenza.
Sono solo formalmente quindi dei contadini autonomi ma in realtà sono
sottoposti a una forte dipendenza.
Il miglio, che resta la base della dieta Dogon, deve essere acquistato
dai villaggi del piano dove la
coltivazione si è estesa e intensificata, dove si sono allevati più
bovini per disporre del concime necessario aumentando la pressione di
pascolo e il rischio desertificazione
Cipolle
ed emiri. L'Arabia saudita è uno degli attori del land grabbing nel
Mali, finanzia la costruzione di moschee e di istituzioni assistenziali
islamiche e, ovviamente, non è estranea al terrorismo jihadista che
infesta il paese.
Allargando lo sguardo al resto del Mali,
specie dove l'acqua del Niger consente l'agricoltura industrializzata
intensiva, le cose stanno molto peggio che nel paese Dogon. Gli
organismi internazionali (Banca mondiale e Fondo monetario
internazionale) hanno dettato al fragile governo
semicoloniale (strettamente pilotato da Parigi) l'agenda agricola
e alimentare. Così è stata attuata la totale liberalizzazione del
mercato dei cereali lasciandolo in balia delle società
multinazionali che lo controllano. Non solo ma il governo, attraverso
l'autorità del fiume Niger, spinge per svendere agli investitori
stranieri la terra di proprietà statale.
Campi
di cotone. Alternato ai cereali il cotone è una delle colture che
vedono ridursi le rese nonostante il "miglioramento" genetico
vartietale e i grandi input di cui beneficia la coltivazione
Il furto legale delle terre dei villaggi è possibile perché solo una
minima frazione della proprietà fondiaria è acatastata; dove manca un
proprietario registrato il titolare della terra è lo stato che la cede
a lotti di decine di migliaia di ettari per volta al prezzo di un caffè
all'ettaro. Chiamasi land grabbing. In un paese dove, nel 2016, l'Onu è
dovuto intervenire con 16 milioni di dollari di aiuti alimentari, dove
3,5 milioni di persone e un milione di bembini sono a rischio di
denutrizione, centinaia di migliaia di ettari di terra fertile sono
stati regalati a poche decine di investitori stranieri e locali (dietro
i quali, però, spesso ci sono gruppi stranieri). In testa alla
classifica vi sono canadesi e cinesi ma vi sono anche sauditi,
americani, indiani. Buona parte dei prodotti raccolti sono no
food. Il cotone (sopra) occupa grandi superfici e dove è coltivato, con
elevati input chimici, determina perdida di sostanza organica nel suolo
tanto che tra qualche decennio non ne sarà più possibile la
coltivazione (G. Kidron, A. Giora, I. Benenson, Itzhak, Degradation of soil fertility following
cycles of cotton–cereal cultivation in Mali, West Africa: A first
approximation to the problem, in «Soil and Tillage Research»,
106(2):254-262).
Piantagioni
e, giustapposta, la maglia poderale dell'agricoltura contadina dove, su
ogni fazzoletto di terra si produzono più colture
Le
conseguenze delle monocolture per l'esportazione e del land grabbing
sono gravissime, sia sul piano ambientale che sociale. Le monocolture
industriali implicano l'eliminazione degli alberi e una ridotta
copertura vegetale del terreno favorendo l'erosione. La perdita
di sostanza organica, unita agli effetti dell'erosione prepara il
terreno alla desertificazione. Sugli equilibri biologici del suolo, in
particolare sulla componente del microbiota, agiscono negativamente i
pesticidi, applicati in quantità elevate, specie sulle colture no food
ed energetiche.
Da 100.000 ha irrigati dal Niger il governo e le agenzie di "sviluppo"
prevedono di estendere l'irrigazione a a 1 o 2 milioni, ma il Niger non
può sopportare il prelievo e molti ambienti acquatici del delta e delle
sue sponde così come molte attività umane sono a rischio. Sul piano
sociale è devastante sapere che poche decine di società straniere (più
o meno cammuffate) possiedono centinaia di migliaia di ettari coltivati
in un paese dove, in media, le aziende agricole si estendono su 4,7 ha
e moltissime aziende contadine non superano l'ettaro. 100 ha di land
grabbing in un contesto di super meccanizzazione danno lavoro a una
persona invece che a 21 famiglie e riducono biodiversità e resilienza
ecologica degli agroecosistemi. Tutto questo è promosso da
agenzie internazionali che promuovono la "sostenibilità".
Tutto questo avviene con il beneplacito dell'occidente, della Francia
in primis,che esercita un potere coloniale malamente mascherato, della
UE.
La resistenza al land grabbing anche in Mali sfocia in manifestazioni
represse nel sangue dalle forze di repressione. Perché il land grabbing
provoca la dislocazione forzata dei villaggi e la perdita da parte
delle popolazioni dell'accesso alla sussistenza e al cibo. E mentre
l'occidente decadente non sa più quali diritti inventare (spesso solo
per legittimare e incoraggiare ogni inclinazione individuale, ogni
perversione, ogni comportamento di minoranza), mentre la proliferazione
dei diritti provoca il conflitto, inevitabile di un diritto con
l'altro, (troppi diritti, nessun diritto) e quindi il trionfo del più
forte economicamente, sempre nella prospettiva neoliberale e di
neodarwinismo sociale mascherato da buonismo, agli africani, che i
progressisti piangono solo quando salpano nei barconi, vengono negati i
diritti a un posto dove vivere e lavorare, i diritti ad
un'alimentazione sana e sufficiente a coprire le necessità della vita.
Scandalo nello scandalo sono le terre
destinate a colture bioenergetiche. La canna da zucchero da
bio-etanolo, il girasole da biodisel, la jatropha da biodisel e
biokerosene. La coscienza ambientalista ipocrita dell'occidente si
placa a fronte della sostituzione di energia fossile con un po' di
biocarburanti. Ma per i contadini africani c'è la violenza dello
sradicamento e della represssione (ce ne siamo occupati qui
a proposito del Senegal, paese confinante con il Mali dove il land
grabbing è opera anche di società italiane, persino da multiutility del
sistema PD).
Sul bilancio di queste produzioni in termini di energia fossile
risparmiata ci sarebbe molto da obiettare, ma ciò che colpisce è che
queste coltivazioni, fatte per lucrare gli incentivi alle energie green
in una logica di vera e propria truffa, sfruttando il
catastrofismo climatico e gli appelli dei gretini, divorano acqua e
terra, favoriscono la perdita di fertilità e la
desertificazione, scacciano le comunità contadine dalle loro
sedi, costringono paesi poveri a importare a caro prezzo derrate
alimentari aggravando il ciclo della dipendenza, del debito, della
povertà. Alimentano l'emigrazione verso le bidonvilles da dove,
una minoranza fortunata, spiccherà poi il salto verso l'Europa
consentendo agli stessi poteri economici che sfruttano e rovinano
l'Africa, di rifarsi una verginità invocando l'accoglienza di fronte
alla nuova tratta degli schiavi che svuota l'Africa di energie
lavorative giovani e scolarizzate e che (due piccioni con una fava)
disarticola le compagini sociali di un Europa alle prese con una
società sempre più liquida e precaria, consegnandole sempre più inermi
nelle grinfie delle elite euromondialiste camuffate di buonismo.
Ulteriori minacce
Come se non bastasse vi sono
ulteriori minacce per le comunità rurali africane. I parchi continuano
ad espandersi (in Mali in pochi anni sono apssate dal 2 all'8 %)
e , spesso, agiscono allo stesso modo del land grabbing, ovvero
costringendo alla deportazione e ai trasferimenti forzati
villaggi e tribù come abbiamo documentato anche qui
su Ruralpini. Vi è poi la bioprospezione, un termine ostico per
nascondere ciò che c'è dietro la biopirateria, la spregiudicata azione
di furto di biodiversità a danno delle comunità africane. Si rubano
piante, si rubano molecole derivate da particolarti piante, si rubano
batteri. L'industria le brevetta e mette sul mercato farmaceutico o
degli integratorti alimentari prodotti a carto prezzo che contengono i
componenti isolati dai campioni rubati ai campi, alle savane, alle
foreste, in definitiva ai loro legittimi abitatori e utilizzatori. Come
se non bastasse, e i Dogon ne sono particolarmente colpiti, vi sono i raid terroristici jihadisti.
Vicini dei Dogon sono i Peul, gente di etnia Fulani, pastori nomadi da
lungo tempo islamizzati. Essi controllano i Dogon e con il telefonino
satellitare danno loro informazioni su quando, come e doive attaccare.
Così la piana che dall'epoca coloniale era stata coltivata da Dogon ha
dovuto essere abbandonata e interi villaggi si sono trasferiti, veri
profughi, sull'altopiano accolti dalla solidarietà della gente Dagon.
Di fronte all'assenza dello stato i cacciatori Dogon, per quanto male
armati rispetto ai loro nemici armati sino ai denti, foraggiati da
paesi amici dell'Occidente, hanno costituito una milizia Dan Na
Ambassagou che recentemente ha reagito contro gli attacchi e colpito un
villaggio Peul. Anche se lo scontro interetnico è legato ai problemi
della siccità e della desertificazione, solo la cattiva coscienza di
un Occidente narcotizzato può credere che, di fronte agli attacchi
sistematici contro gli animisti (i Dogon lo sono ancora in buona parte) e
i cristiani da parte del terrorismo islamico non vi sia la religione. In questa
regione subsahariana, del resto, il fenomeno jihadista, che ebbe una
forte recrudescenza nell'XVIII secolo, non è certo nuovo e mostra la
costante volontà di procedere all'islamizzazione forzata di ogni etnia.
Di contro a queste minacce è possibile mettere in atto delle forme di
collaborazione diretta basate sulla restituzione delle terre,
sull'emigrazione temporanea, sullo scambio di conoscenze, saltando le
agenzie internazionali e le organizzazioni che hanno dimostrato di
perseguire gli interessi del capitale e di sè stesse. Bisognerà tornare
a parlarne.
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Articoli
ruralpini su temi connessi
Ambientalismo,
neocolonialismo, capitalismo: violenza ed ecoingiustizia contro gli
ultimi
(23.02.19)
La gestione delle aree protette nei paesi ex-coloniali rappresenta
l'ambito nel quale è più evidente la continuità con il vecchio
colonialismo. Il fenomeno dei profughi a causa dei parchi
continua, così come gli abusi contro le comunità che cercano di
resistere e di tornare a frequentare le loro foreste. Storie che
l'occidente non vuole conoscere perché l'ambientalismo alla WWF è
rimasto l'unica illusione, l'unica fede salvifica - non sottoposta alla
verifica di congruenza con la realtà - alla quale si aggrappa
l'occidente alla deriva.
Land
grabbing all'emiliana
(10.03.13) La lotta
contro le biomasse è per le Terre Nostre ma è anche una lotta a
fianco dei contadini del Sud del mondo. In Senegal le ditte
emiliane delle biomasse creano disastri. Il progetto della Tampieri di
Faenza, che aveva portato a scontri con morti e feriti nel 2011 a
Fanaye è ancora oggetto di proteste, attentati e arresti in
questi giorni.
contatti: Whatsapp 3282162812
redazione@ruralpini.it
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