Ruralpini  resistenza rurale

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Donne di montagna
(al tempo delle disgrazie)




Anna Carissoni
ha inteso cogliere i tragici frangenti dell'epidemia  per ricordare le forti donne di un tempo, quando, le matriarche reggevano buona parte del peso del lavoro dei campi, delle stalle. Erano sì - quando serviva - infermiere, ostetriche, "veterinarie" (laureate all'università della stalla), ma  non erano certo gli "angeli del focolare", quelle creature deboli e sottomesse che la cultura femminista ha preso a (falso) bersaglio. Il femminismo applicato al mondo rurale, specie alpino era un non sense (infatti è figlio della società borghese).
Oggi negli ospedali  ma anche nel chiuso e nella solitudine delle case, delle famiglie, dove Dio solo sa che drammi si vivono, senza copertura di media e di social, molte donne stanno dando prova di piccoli/grandi eroismi, di quella forza delle donne di un tempo che non si è persa. Come un vecchio ceppo che "caccia"). Era sopita. Nella tragedia è riemersa. Eroiche le infermiere che sono restate al proprio posto di lavoro, saltando turni di riposo, sino al limite del cedimento fisico e psicologico. Eroiche ancora di più le  volontarie - medici e infermiere - che hanno affiancato il personale. Molte si sono contagiate. Qualcuna è morta.  Ma pensiamo anche alle cassiere dei supermercati. Anche loro hanno avuto caduti in questa guerra, morte al fronte del contagio per non far mancare gli approvvigionamenti. Donne "infermiere" e donne "vivandiere". In guerra - e questa lo è, eccome se lo è - altrettanto indispensabili.  E ci saranno altre storie che spero saranno ricordate.
Erano donne normali che sono morte contraddicendo l'immagine frivola, egotica, che la cultura edonista, consumista, conformisticamente trasgressiva, ha cucito addosso a uomini e donne, costretti - forse per non passare per degli "antisociali" - a recitare la parte dei gaudenti, dei crocieristi, degli internazionali, dei raffinati, dei gourmet. Qualcuno, volendo continuare a recitare la parte assegnata, rivendicando il "diritto allo sport all'aperto", ha infettato e ucciso il prossimo. Ma la cultura individualista, egoista, utilitarista che è la religione ufficiale della società di mercato non ha  avvelenato i pozzi, non del tutto almeno.  Il contagio ha fatto risalire a galla dalle profondità i valori "arcaici". E allora vediamo con Anna in cosa consisteva la "forza" delle donne di montagna.





di Anna Carissoni
 

fotografie di Giampiero Mazzoni
(dal libro "Donne di montagna")






(24.03.20) Le donne di una volta sembravano indistruttibili e, anche questa volta, quel maledetto coronavirus sembrava averle preservate, poi i primi casi al femminile.  Quest'anno l' 8 marzo era già caduto in tempo di contagio, senza le solite celebrazioni.  Il contagio, con le misure che modificano il modo di organizzare la giornata, di gestire il tempo, è
un’occasione di riflessione, anche sulla figura della donna.  Nella nostra storia il ruolo delle donne è sempre stato preminente, al punto che – come scrive la storica delle culture popolari Laura Tuan – lo spirito matriarcale nelle valli alpine e prealpine non è mai morto:

Per quanto represso, calpestato, rinnegato, il potere della donna riecheggia ancora nella memoria delle anziane, nelle ricette erboristiche, nei tratti fieri - lineamenti da signora di casa e da signora della situazione - ancora scolpiti nei volti della vecchia guardia matriarcale., nonché nel simbolismo delle innumerevoli Madonne, che dalle santelle e dagli antichi santuari proteggono le valli, eredi delle più antiche dee della terra, delle acque e della forza creativa del femminile.




LE NOSTRE ANTENATE MATRIARCHE

Vale dunque forse la pena, anche come omaggio, seppur tardivo, alle nostre antenate, soffermarci in particolare sul ruolo della donna della montagna, una condizione specifica e particolarmente significativa dell’ universo femminile della nostra regione, perché anche nella nostra Valle vigeva un matriarcato di fatto: gran parte degli uomini (pastori, boscaioli, minatori, muratori) se ne andava in giro per il mondo per la maggior parte dell’anno e quanto questo condizionasse la vita delle loro donne è evidente: esse non dovevano temere le lunghe attese, dovevano rassegnarsi a non aver loro notizie per lunghi periodi, ad allevare i loro figli pressoché in solitudine, a prendersi cura dei vecchi e dei malati… E sempre senza l’aiuto del marito allevare parallelamente anche qualche vacca, qualche maiale, galline e conigli, coltivare l’orto, pensare alla fienagione, alla filatura ed alla tessitura della lana, della canapa, del lino: tutte le attività necessarie alla sussistenza, nel contesto della difficile economia della montagna, attività praticate dalle donne con un “surplus” di fatica e di responsabilità.

Non è del resto una novità che nella società alpina la figura del maschio - marito e padre – proprio a causa delle sue lunghe assenze non fosse poi così importante: mi sembrano significativi, a questo proposito, due vecchi proverbi che ho sentito ripetere tante volte dalle anziane del mio paese: La fómna la sta bé co’ l’óm ivvià e coi solcc in cà (La donna sta bene con l’uomo lontano e coi soldi in casa); e Ardìsne, tuse, da l’óm che ‘l vàrda semper in dol caàgnöl. (Alla larga, ragazze, dall’uomo che sta sempre a guardare nel vostro cesto da lavoro, insomma dall’uomo che sta sempre in casa).

Io penso perciò alle nonne e alle bisnonne dei nostri paesi come alle nostre “madri antiche”, anche se dalla loro scomparsa sono trascorsi pochi decenni, perché è vero che sulle montagne le condizioni di vita premoderne hanno continuato ad esistere quasi fino a ieri”.

Voglio dunque ricordarne alcune perchè queste donne hanno incarnato i valori del matriarcato nei suoi vari aspetti, rappresentando quei significati profondi della femminilità che la violenza mercificante della società dei consumi sta travolgendo, lasciando le donne più sole e infelici dentro le gabbie della razionalità produttiva. Mi ricordano, queste donne, le “donne selvatiche” delle leggende alpine e nordeuropee, caratterizzate dalle vesti colorate, dalla disposizione a danzare, a cantare, a raccontare, le attività che stabiliscono il loro contatto profondo con gli uomini e con la natura; donne generose nel dono di sé e del loro sapere, ma attente custodi del mistero della loro identità profonda, archetipi di autonomia femminile e nello stesso tempo di grande ricchezza nelle relazioni affettive, spirituali, erotiche; donne che rappresentano, come scrive Claudio Risè, “i tre aspetti di una stessa forza creatrice elementare: la potenza della voce; la trasformazione di tale forza cantata e raccontata in energia di nutrizione; e la facoltà di procreazione”.




CATERINA

Il lavoro delle donne in alpeggio è pressoché infinito: tutte le incombenze di una casalinga qualunque, unite talvolta a quelle di madre e spesso a quelle di una casara. Bisogna inoltre affiancare o sostituire, in caso di necessità, gli uomini nei lavori che caratterizzano quest’attività: mungitura, governo degli animali, conduzione al pascolo, sistemazione delle reti e dei recinti, ecc. Anche cucinare spetta a lei, in modo che gli uomini trovino qualcosa di caldo in ogni momento della giornata, dal risveglio fino all’ora di andare a letto. Anche nei pochi giorni di festa, quando mariti e figli si concedono uno strappo alla regola e scendono a valle a far baldoria, loro devono essere vigili e presenti, perché l’allevamento è un lavoro così, “o èndèm, o tèndèm!” (o mi vendi, o mi accudisci assiduamente), e qualcuno deve sempre esserci.

Caterina, figlia unica, non aveva mai fatto rimpiangere al padre di non essere maschio: bravissima in tutto, e col bestiame anche meglio di un uomo. E anche bella e orgogliosa.

Quando dalla Francia arrivò un giovanotto elegante - nipote di emigranti locali che voleva conoscere il paese dei suoi avi, un tipo che guardava le ragazze con uno sguardo sfrontato - lei non si chiuse in casa come le altre a spiarlo da dietro le tendine. Lei lo affrontò a viso aperto e gli parlò. Diventarono amici e poi amanti, finché Caterina ne rimase incinta. Ma “il francese” sparì e non si fece più vedere.

Caterina, da allora, in paese non scese più nemmeno in inverno. La montagna diventò il rifugio suo e del figlio, che appena grande andò pastore in Svizzera. Rimasta sola, cominciò a bere ed a trascurare anche le bestie, finché si ammalò e la portarono a morire in ospedale. Durante la lunga agonia, e fino alla morte, Caterina cantò sottovoce una canzone che le donne del paese non avevano mai sentito. Fu il medico a capire che, nel delirio, Caterina cantava in francese.




MONICA

Monica aveva quattro figli di cui una disabile e in casa con lei abitavano anche i vecchi suoceri, entrambi infermi. In queste condizioni riusciva tuttavia a pensare a tutto e ad accudire tutti. La sua ‘valvola di sicurezza’- lo ripeteva spesso – era il bosco, dove si rifugiava non appena aveva un attimo libero: a ‘rifiatare’, diceva, a ‘riposare’, anche se intanto raccoglieva legna, o erbe buone, o noci o castagne. “Il bosco è buono, ha sempre qualcosa da offrirti, anche nella cattiva stagione – diceva – e l’aria degli alberi ti guarisce da tutto. Spero di morire nel bosco, quando sarà la mia ora, non mi piacerebbe proprio morire in un ospedale.”

L’altra passione di Monica era cantare. Aveva una bella voce piena da contralto, quando cantava sfaccendando sotto il portico ne risuonava tutta la contrada. E non mancava mai alle feste campestri - S. Antonio e la Madonna del Rosario al monte Alino, la Trinità sul monte Cüsen… - in cui, dopo la Messa e la processione, le donne si trattenevano e facevano cerchio cantando fino all’ora di cena sedute sull’erba del sagrato. Il viso di Monica si illuminava, quando cantava appariva felice, forse dimenticava per un po’ tutte le sue fatiche.

Morì a fine ottobre, pare per un infarto e la trovarono seduta nel bosco, con la schiena appoggiata al grande castagno sotto il quale ogni tanto faceva sosta. Sul viso aveva un’espressione serena, quasi sorridente; e tutt’intorno un tappeto di foglie e di ricci dorati.




MARIA

Tutti la chiamavano Maréa scaèssa (Maria spezzata) perché era come piegata in due, come se le avessero rotto la schiena. Invece era nata così, non si era sposata e viveva con un fratello pure celibe e una vecchia Mèda. Rimaneva in paese anche d’estate, quando gli altri si spostavano nella cascina a mezza montagna: da lì le portavo il latte con un bidone, mattina e sera e lei provvedeva alla vendita. Era generosa, spesso alla misura pattuita aggiungeva un altro po’ di latte perché sapeva che sarebbe servito a una famiglia particolarmente povera, o particolarmente numerosa…..

Ma la specialità della Maria erano le storie che ci raccontava la sera nelle veglie nella stalla. Bellissime “storie di paura”, per lo più, spaventose e meravigliose. Normalmente severa e di poche parole, quando raccontava una storia si trasformava completamente.

C’erano sempre di mezzo gli spiriti, nelle sue storie: vittime di omicidi e sorprusi che tornavano nell’aldiqua per vendicarsi, peccatori impenitenti che tornavano a raccontare agli amici ancora in vita le pene e i tormenti dell’Inferno….Oppure animali che parlavano e si comportavano con maggior giudizio dei cristiani, oggetti comuni che si animavano diventando protagonisti di storie straordinarie.

Anche il modo di raccontare era straordinario, ma allo stesso tempo familiare perché la Maréa ambientava le sue storie in luoghi precisi, ben conosciuti da tutti noi… A pensarci adesso, la Maréa era un’autentica attrice, perché drammatizzava il suo raccontare fino a farcene sentire non solo ascoltatori ma anche protagonisti.

Alla fine di ogni storia, la Maréa sorrideva, contenta dello spavento che ci leggeva negli occhi, palese conferma alla sua efficacia narrativa e si concedeva il laborioso piacere di una presa di tabacco, dopo aver pescato la tabacchiera nella profondità delle sottane.

Ricordo come la rimpiangemmo, quando morì. Altre donne ci proposero, nelle veglie invernali, il suo stesso repertorio, ma il loro raccontare era tutt’altra cosa: troppo poco il fervore, troppo scialbi i colori della voce, troppo studiati gli atteggiamenti se messi a confronto con la naturalezza della vecchia storpia nel calarsi totalmente nei personaggi…Forse perché era così brutta e sola, forse perché soffriva della sua disgrazia come di un castigo immeritato, forse perché la sua vita di tutti i giorni era fatta di cose banali, la Maréa si era creata un mondo tutto suo, dove ogni punizione corrispondeva ad una colpa e l’eguagliava in gravità, dove persino il tavolo e le seggiole della cucina avevano un’anima e una voce, dove i personaggi e gli avvenimenti erano sempre straordinari e meravigliosi. E forse solo in quel mondo si sentiva davvero viva e felice.




LIBERA

Piccola, di costituzione minuta, nonna Libera abitava nella nostra stessa casa, dove la sua camera e la sua cucina erano adiacenti alle nostre. Per me e le mie sorelle era un autentico “parafulmini”: quando l’umore di mia madre era minaccioso per via di qualche marachella o di qualche disobbedienza, era dalla Nonna che ci rifugiavamo, spesso proprio rintanandoci e nascondendoci sotto l’ampia sottana del costume tradizionale che portò fino alla morte. Dal profondo tascone di quella sottana emergevano poi miracolosamente e regolarmente mintì ed anisì (mentine ed anicini) a consolarci dei nostri dispiaceri, mentre per asciugare le nostre lacrime la Nonna aveva una serie inesauribile di indovinelli e di filastrocche che ci facevano tornare il sorriso.

Le donne del paese le portavano regolarmente i loro bimbi affetti da rachitismo, o dissenteria, o altri disturbi: per tutti aveva un rimedio, consiglio o erba o unguento che fosse, e non si faceva mai pagare le sue “prestazioni”. Non usava solo erbe e piante per curare i vari malanni: per esempio, ci chiedeva di portarle gli scorpioni che fossimo riuscite a catturare (ne trovavamo spesso, in sagrestia, quando aiutavamo le donne nelle pulizie delle feste della chiesa di S. Rocco): ancora vivi, li metteva in un boccettino di olio di ricino, che poi consigliava ai suoi “pazienti” per i dolori muscolari. Per lei raccoglievamo anche le ragnatele: le servivano come cicatrizzante per le ferite…

Quando ci fu il disastro del Gleno - il 1° dicembre 1923 l’omonima diga cedette, seminando distruzione e morte in tutta la Val di Scalve - la Nonna raggiunse - a piedi! - uno dei paesi colpiti dove abitavano alcuni parenti di suo marito, che in quel tempo era a lavorare all’estero, trovò due piccoli orfani, gli unici sopravvissuti di una famiglia di 8 persone, li prese e se li portò a casa dove li allevò finché furono grandicelli: così, come se fosse la cosa più naturale del mondo….

Religiosa doveva esserlo, a modo suo: certo non bigotta, e certo meno assidua di nostra madre nel richiamarci al dovere di dì sö ì pater, di mortificare la gola, di non stare in ozio…Sul davanti dell’ampia camìsa del costume tradizionale – indumento di biancheria intima che fungeva anche da camicia da notte – portava cucite numerose medagliette di santi e madonne nonché quei pezzettini di stoffa variamente ricamate che si chiamavano i passiénse: le medagliette producevano, mentre camminava, un tintinnìo appena percettibile, un suono che ho associato, nella memoria, agli eventi lieti dell’infanzia, come per esempio la nascita di un fratellino, perché quando successe era notte fonda e la nonna venne in camera nostra ad annunciarci l’evento preceduta proprio da quell’inconfondibile tintinnìo…

Era la mitezza in persona, eppure era fiera di essere una parrese di antica data; vestiva il costume tradizionale e teneva sempre infilato nella calza destra, all’altezza della caviglia, il suo inseparabile coltello, che poteva tornare utile in mille occasioni. Per ogni evenienza teneva anche sempre a portata di mano, nel tascone della treèrsa, una boccetta di acquavite: poteva sempre servire, ü gussì d’ quaéta (un goccino di acquavite)!

Non l’ho mai vista arrabbiata, non l’ho mai sentita parlar male di nessuno. Mio padre e gli zii dicono di non aver mai preso, da lei e dal nonno, una sberla che è una: lei e il nonno erano convinti che le persone non si picchiano, che i problemi si risolvono ragionando, anche con i bambini molto piccoli. Se combinano qualcosa che non va – dicevano – bisogna prenderli sulle ginocchia e spiegare loro con calma perché hanno sbagliato. I bambini capiscono tutto – dicevano – basta solo spiegargliele, le cose, e prendersi il tempo di ragionare con loro.

Non so poi a cosa dovesse, la Nonna, la sua competenza…sanitaria, allora ero troppo piccola per chiederglielo.




CAROLINA

Seppi solo crescendo che sua suocera – la mia bisnonna Carolina - era una levatrice e aveva studiato nientemeno che a Milano! E seppi anche che agli inizi del ‘900, dopo il suo arrivo nella condotta di Parre, la giovane levatrice era stata criticata fortemente perché voleva sempre avere a disposizione, quando assisteva le partorienti, una gran quantità d’acqua bollita. La gente lo considerava uno spreco di legna da ardere, ma cambiò idea a poco a poco, quando si accorse che il tasso di mortalità sia dei neonati che delle puerpere andava gradatamente scendendo….

Anche della bisnonna Carolina mio padre e gli zii mi hanno sempre parlato come di una donna leggendaria: ormai vecchia e in pensione, fumava la pipa sulla sua sedia a dondolo mentre raccontava loro storie bellissime che inventava su due piedi: aveva perso una figlia ventenne - dicevano - l’unica femmina tra i suoi figli, buona e bellissima, e da quel dolore non si era mai ripresa del tutto, ma ai piccoli riservava una tenerezza infinita, così come ad ogni essere vivente, pianta o erba o animale che fosse. Allo zio Beniamino, che spesso trascorreva l’estate con lei quando abitava a Campello di Gorno per via del lavoro del bisnonno minatore, aveva permesso di tenere in casa un maialino al quale da bambino era affezionatissimo e che trattava come un micio o un cagnolino. Conosceva come le sue tasche le montagne e i boschi dei dintorni, li percorreva in lungo e in largo facendo lunghissime camminate, ne conosceva alla perfezione tutti i tipi di piante, di erbe, di animali.

Io purtroppo non l’ho conosciuta, la bisnonna Carolina,, e scomparsi anche i miei genitori e gli zii, sono venute meno anche le occasioni di farmi raccontare di lei.

Ma le ricordo tutte con affetto, le nostre antenate matriarche.

E non dimentico una delle frasi un po’ misteriose che nonna Libera diceva spesso a me e alle mie sorelle:

Eh, care i mé tuse, la éta…. La éta l’è ü negutì d’or, tecàt a ü fil d’arzént e‘ntorciàt in d’öna fòia ‘d zèrnech…”. (Eh, ragazze mie, la vita…. La vita è un piccolo niente d’oro, appeso ad un filo d’argento e avvolto in una foglia di ginepro…).

P. S. Il ginepro, come tutti sanno, non ha foglie normali ma agh











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