di Anna
Carissoni
fotografie di Giampiero Mazzoni
(dal libro "Donne di montagna")
(24.03.20)
Le donne di una volta sembravano
indistruttibili e,
anche questa volta, quel maledetto coronavirus sembrava averle
preservate, poi i primi casi al femminile. Quest'anno l' 8 marzo
era già caduto in tempo di contagio, senza le solite
celebrazioni. Il contagio, con le misure che modificano il modo
di organizzare la giornata, di gestire il tempo, è
un’occasione di riflessione, anche sulla figura della donna.
Nella
nostra storia il ruolo delle donne è sempre stato preminente,
al punto che – come scrive la storica delle culture popolari Laura
Tuan – lo spirito matriarcale nelle valli alpine e prealpine non è
mai morto:
Per
quanto represso, calpestato, rinnegato, il potere della donna
riecheggia ancora nella memoria delle anziane, nelle ricette
erboristiche, nei tratti fieri - lineamenti da signora di casa e da
signora della situazione - ancora scolpiti nei volti della vecchia
guardia matriarcale., nonché nel simbolismo delle innumerevoli
Madonne, che dalle santelle e dagli antichi santuari proteggono le
valli, eredi delle più antiche dee della terra, delle acque e della
forza creativa del femminile.
LE NOSTRE ANTENATE
MATRIARCHE
Vale
dunque forse la pena, anche come omaggio, seppur tardivo, alle nostre
antenate, soffermarci in particolare sul ruolo della donna della
montagna, una condizione specifica e particolarmente significativa
dell’ universo femminile della nostra regione, perché anche nella
nostra Valle vigeva un matriarcato di fatto: gran parte degli uomini
(pastori, boscaioli, minatori, muratori) se ne andava in giro per il
mondo per la maggior parte dell’anno e quanto questo condizionasse
la vita delle loro donne è evidente: esse non dovevano temere le
lunghe attese, dovevano rassegnarsi a non aver loro notizie per
lunghi periodi, ad allevare i loro figli pressoché in solitudine, a
prendersi cura dei vecchi e dei malati… E sempre senza l’aiuto
del marito allevare parallelamente anche qualche vacca, qualche
maiale, galline e conigli, coltivare l’orto, pensare alla
fienagione, alla filatura ed alla tessitura della lana, della canapa,
del lino: tutte le attività necessarie alla sussistenza, nel
contesto della difficile economia della montagna, attività praticate
dalle donne con un “surplus” di fatica e di responsabilità.
Non
è del resto una novità che nella società alpina la figura del
maschio - marito e padre – proprio a causa delle sue lunghe assenze
non fosse poi così importante: mi sembrano significativi, a questo
proposito, due vecchi proverbi che ho sentito ripetere tante volte
dalle anziane del mio paese: La
fómna la sta bé co’ l’óm ivvià e coi solcc in cà
(La donna sta bene con
l’uomo lontano e coi soldi in casa); e Ardìsne, tuse, da l’óm
che ‘l vàrda semper in dol caàgnöl.
(Alla larga, ragazze,
dall’uomo che sta sempre a guardare nel vostro cesto da lavoro,
insomma dall’uomo che sta sempre in casa).
Io
penso perciò alle nonne e alle bisnonne dei nostri paesi come alle
nostre “madri antiche”, anche se dalla loro scomparsa sono
trascorsi pochi decenni, perché è vero che “sulle
montagne le condizioni di vita premoderne hanno continuato ad
esistere quasi fino a ieri”.
Voglio
dunque ricordarne alcune perchè queste donne hanno incarnato i
valori del matriarcato nei suoi vari aspetti, rappresentando quei
significati profondi della femminilità che la violenza mercificante
della società dei consumi sta travolgendo, lasciando le donne più
sole e infelici dentro le gabbie della razionalità produttiva. Mi
ricordano, queste donne, le “donne
selvatiche”
delle leggende alpine e nordeuropee, caratterizzate dalle vesti
colorate, dalla disposizione a danzare, a cantare, a raccontare, le
attività che stabiliscono il loro contatto profondo con gli uomini e
con la natura; donne generose nel dono di sé e del loro sapere, ma
attente custodi del mistero della loro identità profonda, archetipi
di autonomia femminile e nello stesso tempo di grande ricchezza nelle
relazioni affettive, spirituali, erotiche; donne che rappresentano,
come scrive Claudio Risè,
“i
tre aspetti di una stessa forza creatrice elementare: la potenza
della voce; la trasformazione di tale forza cantata e raccontata in
energia di nutrizione; e la facoltà di procreazione”.
CATERINA
Il
lavoro delle donne in alpeggio è pressoché infinito: tutte
le incombenze di una casalinga
qualunque, unite talvolta a quelle di madre e spesso a quelle di una
casara. Bisogna inoltre
affiancare o sostituire, in caso di necessità, gli
uomini nei lavori che caratterizzano quest’attività: mungitura,
governo degli animali, conduzione al pascolo, sistemazione delle reti
e dei recinti, ecc. Anche cucinare spetta a lei, in modo che gli
uomini trovino qualcosa di caldo in ogni momento della giornata, dal
risveglio fino all’ora di andare a letto. Anche nei pochi giorni di
festa, quando mariti e figli si concedono uno strappo alla regola e
scendono a valle a far baldoria, loro devono essere vigili e
presenti, perché l’allevamento è un lavoro così,
“o
èndèm, o tèndèm!”
(o mi vendi, o mi accudisci assiduamente), e qualcuno deve sempre
esserci.
Caterina,
figlia unica, non aveva mai fatto rimpiangere al padre di non essere
maschio: bravissima in tutto, e col bestiame anche meglio di un uomo.
E anche bella e orgogliosa.
Quando
dalla Francia arrivò un giovanotto elegante - nipote di emigranti
locali che voleva conoscere il paese dei suoi avi, un tipo che
guardava le ragazze con uno sguardo sfrontato - lei non si chiuse in
casa come le altre a spiarlo da dietro le tendine. Lei lo affrontò a
viso aperto e gli parlò. Diventarono amici e poi amanti, finché
Caterina ne rimase incinta. Ma “il francese” sparì e non si fece
più vedere.
Caterina,
da allora, in paese non scese più nemmeno in inverno. La montagna
diventò il rifugio suo e del figlio, che appena grande andò pastore
in Svizzera. Rimasta sola, cominciò a bere ed a trascurare anche le
bestie, finché si ammalò e la portarono a morire in ospedale.
Durante la lunga agonia, e fino alla morte, Caterina cantò sottovoce
una canzone che le donne del paese non avevano mai sentito. Fu il
medico a capire che, nel delirio, Caterina cantava in francese.
MONICA
Monica
aveva quattro figli di cui una disabile e in casa con lei abitavano
anche i vecchi suoceri, entrambi infermi. In queste condizioni
riusciva tuttavia a pensare a tutto e ad accudire tutti. La sua
‘valvola di sicurezza’- lo ripeteva spesso – era il bosco,
dove si rifugiava non appena aveva un attimo libero: a ‘rifiatare’,
diceva, a ‘riposare’, anche se intanto raccoglieva legna, o erbe
buone, o noci o castagne. “Il
bosco è buono, ha sempre qualcosa da offrirti, anche nella cattiva
stagione –
diceva
– e l’aria degli alberi ti guarisce da tutto. Spero di morire nel
bosco, quando sarà la mia ora, non mi piacerebbe proprio morire in
un ospedale.”
L’altra
passione di Monica era cantare. Aveva una bella voce piena da
contralto, quando cantava sfaccendando sotto il portico ne risuonava
tutta la contrada. E non mancava mai alle feste campestri - S.
Antonio e la Madonna del Rosario al monte Alino, la Trinità sul
monte Cüsen… - in cui, dopo la Messa e la processione, le donne si
trattenevano e facevano cerchio cantando fino all’ora di cena
sedute sull’erba del sagrato. Il viso di Monica si illuminava,
quando cantava appariva felice, forse dimenticava per un po’ tutte
le sue fatiche.
Morì
a fine ottobre, pare per un infarto e la trovarono seduta nel bosco,
con la schiena appoggiata al grande castagno sotto il quale ogni
tanto faceva sosta. Sul viso aveva un’espressione serena, quasi
sorridente; e tutt’intorno un tappeto di foglie e di ricci dorati.
MARIA
Tutti
la chiamavano Maréa
scaèssa
(Maria spezzata) perché era come piegata in due, come se le avessero
rotto la
schiena. Invece era nata così, non si era sposata e viveva con un
fratello pure celibe e una vecchia Mèda. Rimaneva in paese anche
d’estate, quando gli altri si spostavano nella cascina a mezza
montagna: da lì le portavo il latte con un bidone, mattina e sera e
lei provvedeva alla vendita. Era generosa, spesso alla misura
pattuita aggiungeva un altro po’ di latte perché sapeva che
sarebbe servito a una famiglia particolarmente povera, o
particolarmente numerosa…..
Ma
la specialità della Maria erano le storie che ci raccontava la sera
nelle veglie nella stalla. Bellissime “storie di paura”, per lo
più, spaventose e meravigliose. Normalmente severa e di poche
parole, quando raccontava una storia si trasformava completamente.
C’erano
sempre di mezzo gli spiriti, nelle sue storie: vittime di omicidi e
sorprusi che tornavano nell’aldiqua per vendicarsi, peccatori
impenitenti che tornavano a raccontare agli amici ancora in vita le
pene e i tormenti dell’Inferno….Oppure animali che parlavano e si
comportavano con maggior giudizio dei cristiani, oggetti comuni che
si animavano diventando protagonisti di storie straordinarie.
Anche
il modo di raccontare era straordinario, ma allo stesso tempo
familiare perché la Maréa ambientava le sue storie in luoghi
precisi, ben conosciuti da tutti noi… A pensarci adesso, la Maréa
era un’autentica attrice, perché drammatizzava il suo raccontare
fino a farcene sentire non solo ascoltatori ma anche protagonisti.
Alla
fine di ogni storia, la Maréa sorrideva, contenta dello spavento che
ci leggeva negli occhi, palese conferma alla sua efficacia narrativa
e si concedeva il laborioso piacere di una presa di tabacco, dopo
aver pescato la tabacchiera nella profondità delle sottane.
Ricordo
come la rimpiangemmo, quando morì. Altre donne ci proposero, nelle
veglie invernali, il suo stesso repertorio, ma il loro raccontare era
tutt’altra cosa: troppo poco il fervore, troppo scialbi i colori
della voce, troppo studiati gli atteggiamenti se messi a confronto
con la naturalezza della vecchia storpia nel calarsi totalmente nei
personaggi…Forse perché era così brutta e sola, forse perché
soffriva della sua disgrazia come di un castigo immeritato, forse
perché la sua vita di tutti i giorni era fatta di cose banali, la
Maréa si era creata un mondo tutto suo, dove ogni punizione
corrispondeva ad una colpa e l’eguagliava in gravità, dove persino
il tavolo e le seggiole della cucina avevano un’anima e una voce,
dove i personaggi e gli avvenimenti erano sempre straordinari e
meravigliosi. E forse solo in quel mondo si sentiva davvero viva e
felice.
LIBERA
Piccola,
di costituzione minuta, nonna Libera abitava nella nostra stessa
casa, dove la sua camera e la sua cucina erano adiacenti alle nostre.
Per me e le mie sorelle era un autentico “parafulmini”: quando
l’umore di mia madre era minaccioso per via di qualche marachella o
di qualche disobbedienza, era dalla Nonna che ci rifugiavamo, spesso
proprio rintanandoci e nascondendoci sotto l’ampia sottana del
costume tradizionale che portò fino alla morte. Dal profondo tascone
di quella sottana emergevano poi miracolosamente e regolarmente
mintì
ed anisì (mentine
ed anicini) a consolarci dei nostri dispiaceri, mentre per asciugare
le nostre lacrime la Nonna aveva una serie inesauribile di
indovinelli e di filastrocche che ci facevano tornare il sorriso.
Le
donne del paese le portavano regolarmente i loro bimbi affetti da
rachitismo, o dissenteria, o altri disturbi: per tutti aveva un
rimedio, consiglio o erba o unguento che fosse, e non si faceva mai
pagare le sue “prestazioni”. Non usava solo erbe e piante per
curare i vari malanni: per esempio, ci chiedeva di portarle gli
scorpioni che fossimo riuscite a catturare (ne trovavamo spesso, in
sagrestia, quando aiutavamo le donne nelle pulizie delle feste della
chiesa di S. Rocco): ancora vivi, li metteva in un boccettino di olio
di ricino, che poi consigliava ai suoi “pazienti” per i dolori
muscolari. Per lei raccoglievamo anche le ragnatele: le servivano
come cicatrizzante per le ferite…
Quando
ci fu il disastro del Gleno - il 1° dicembre 1923 l’omonima diga
cedette, seminando distruzione e morte in tutta la Val di Scalve - la
Nonna raggiunse - a piedi! - uno dei paesi colpiti dove abitavano
alcuni parenti di suo marito, che in quel tempo era a lavorare
all’estero, trovò due piccoli orfani, gli unici sopravvissuti di
una famiglia di 8 persone, li prese e se li portò a casa dove li
allevò finché furono grandicelli: così, come se fosse la cosa più
naturale del mondo….
Religiosa
doveva esserlo, a modo suo: certo non bigotta, e certo meno assidua
di nostra madre nel richiamarci al dovere di dì
sö ì pater,
di mortificare la gola, di non stare in ozio…Sul davanti dell’ampia camìsa
del costume tradizionale – indumento di biancheria intima che
fungeva anche da camicia da notte – portava cucite numerose
medagliette di santi e madonne nonché quei pezzettini di stoffa
variamente ricamate che si chiamavano i
passiénse:
le medagliette producevano, mentre camminava, un tintinnìo appena
percettibile, un suono che ho associato, nella memoria, agli eventi
lieti dell’infanzia, come per esempio la nascita di un fratellino,
perché quando successe era notte fonda e la nonna venne in camera
nostra ad annunciarci l’evento preceduta proprio da
quell’inconfondibile tintinnìo…
Era
la mitezza in persona, eppure era fiera di essere una parrese di
antica data; vestiva il costume tradizionale e teneva sempre infilato
nella calza destra, all’altezza della caviglia, il suo inseparabile
coltello, che poteva tornare utile in mille occasioni. Per ogni
evenienza teneva anche sempre a portata di mano, nel tascone della treèrsa,
una boccetta di acquavite: poteva sempre servire,
ü gussì
d’ quaéta (un goccino
di acquavite)!
Non
l’ho mai vista arrabbiata, non l’ho mai sentita parlar male di
nessuno. Mio padre e gli zii dicono di non aver mai preso, da lei e
dal nonno, una sberla che è una: lei e il nonno erano convinti che
le persone non si picchiano, che i problemi si risolvono ragionando,
anche con i bambini molto piccoli. Se combinano qualcosa che non va –
dicevano – bisogna prenderli sulle ginocchia e spiegare loro con
calma perché hanno sbagliato. I bambini capiscono tutto – dicevano
– basta solo spiegargliele, le cose, e prendersi il tempo di
ragionare con loro.
Non
so poi a cosa dovesse, la Nonna, la sua competenza…sanitaria,
allora ero troppo piccola per chiederglielo.
CAROLINA
Seppi
solo crescendo che sua suocera – la mia bisnonna Carolina
- era una levatrice e aveva studiato nientemeno che a Milano! E seppi
anche che agli inizi del ‘900, dopo il suo arrivo nella condotta di
Parre, la giovane levatrice era stata criticata fortemente perché
voleva sempre avere a disposizione, quando assisteva le partorienti,
una gran quantità d’acqua bollita. La gente lo considerava uno
spreco di legna da ardere, ma cambiò idea a poco a poco, quando si
accorse che il tasso di mortalità sia dei neonati che delle puerpere
andava gradatamente scendendo….
Anche
della bisnonna Carolina mio padre e gli zii mi hanno sempre parlato
come di una donna leggendaria: ormai vecchia e in pensione, fumava la
pipa sulla sua sedia a dondolo mentre raccontava loro storie
bellissime che inventava su due piedi: aveva perso una figlia
ventenne - dicevano - l’unica femmina tra i suoi figli, buona e
bellissima, e da quel dolore non si era mai ripresa del tutto, ma ai
piccoli riservava una tenerezza infinita, così come ad ogni essere
vivente, pianta o erba o animale che fosse. Allo zio Beniamino, che
spesso trascorreva l’estate con lei quando abitava a Campello di
Gorno per via del lavoro del bisnonno minatore, aveva permesso di
tenere in casa un maialino al quale da bambino era affezionatissimo e
che trattava come un micio o un cagnolino. Conosceva come le sue
tasche le montagne e i boschi dei dintorni, li percorreva in lungo e
in largo facendo lunghissime camminate, ne conosceva alla perfezione
tutti i tipi di piante, di erbe, di animali.
Io
purtroppo non l’ho conosciuta, la bisnonna Carolina,, e scomparsi
anche i miei genitori e gli zii, sono venute meno anche le occasioni
di farmi raccontare di lei.
Ma
le ricordo tutte con affetto, le nostre antenate matriarche.
E
non dimentico una delle frasi un po’ misteriose che nonna Libera
diceva spesso a me e alle mie sorelle:
“Eh,
care i mé tuse, la éta…. La éta l’è ü negutì d’or, tecàt
a ü fil d’arzént e‘ntorciàt in d’öna fòia ‘d zèrnech…”. (Eh,
ragazze mie, la vita…. La vita è un piccolo niente d’oro, appeso
ad un filo d’argento e avvolto in una foglia di ginepro…).
P.
S. Il ginepro, come tutti sanno, non ha foglie normali ma agh