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Pecore_anti_incendio.htm (02.06.16)
Dura
reazione di Giancarlo Moioli alle "tirate" antipecore dei
soliti "naturalisti" e Gev ("eserciti di pecore
degradano la montagna e calpestano le orchidee"
L'oasi
dei casari (il Lagorai) (24.11.15)
Laura
Zanetti ripercorre la storia recente delle malghe del Lagorai, la
catena montuosa, ricca di laghi e pascoli che divide la Valsugana
dalla Val di Fiemme e si prolunga verso il Tesino. Un territorio
fortunatamente sottratto (grazie all'impegno di persone come la
Zanetti) ai destini della "valorizzazione turistica" o
della "parchizzazione", strategie speculari ma coordinate
di assalto alla ruralità
...vado
in alpeggio per la libertà (29.06.15)
Per
fortuna che oltre a tanti allevatori rassegnati, a rimorchio
delle organizzazioni, esistono anche figure come quella di Giuseppe
Giovannoni, protagonista convinto e consapevole delle vicende dei
"ribelli del bitto" e, ora, dell'uscita della capra Orobica
da una condizione di marginalità. Parliamo della sua azienda tra 400
e 1700 m.
L'alpeggio
culla dei formaggi (lo dice la storia) 14.05.15
La
storia del formaggio nell'Italia settentrionale è in gran parte
legata all'alpeggio. In pianura le tecniche casearie sono state
introdotte nel medioevo dagli allevatori-casari di montagna che
praticavano la transumanza. Un abbozzo di storia del formaggio
d'alpeggio per capire perché i formaggi d'alpe sono anche oggi al
vertice.
Siccità
sugli alpeggi (23.08.15)
Colpiti i
pascoli più sostenibili La grave siccità che ha colpito gli alpeggi
a luglio non è rimasta senza conseguenze. Ma chi soffre di più
per il calo diproduzione di latte è chi non usa i mangimi, ovvero
chi rispetta il pascolo e l'ambiente. Così solo i "puristi"
si sono fatti sentire
Malghe
friulane: viva le vecchie cantine (15.02.13)
In
Friuli l'ERSA ha effettuato uno studio molto interessante,
registrando temperatura e umidità, che mette in evidenza come gli
ambienti realizzati con materiali edilizi moderni non siano in grado
di garantire l'inerzia termica e regolazione dell'umidità
La
storia di un alpeggio raccontata dai protagonisti (26.07.12)
Al Passo
della Forcora (VA) si terrà Domenica 29
luglio la VII
Festa dell'Alpeggio. Nell'occasione alcuni dei protagonisti della
rinascita di questi pascoli hanno redatto un interessante
cronistoria. Che, per ora, va dal 1976 al 1990. Per la seconda
puntata bisognerà aspettare il prossimo anno. La ricostruzione della
storia del loro alpeggio scritta dagli amici varesini potrebbe essere
di stimolo per altre realtà.
Nelle
malghe della val di Rabbi (Trentino)(02.07.12)
In
una valle tra le più autentiche delle Alpi, lontano dal turismo di
massa, ci sono malghe dove si produce
ancora poìna affumicata
e asni. Meritano una escursione. Intanto potete conoscerle attraverso
il mio fotoracconto.
All'alpe
Cavisciöla tra integralisti del bitto e vacche OB (04.08.11)
Un
alpeggio della val Brembana dove si arriva solo a piedi, dove il
latte si lavora in baite 'storiche'. È gestito da una giovane
coppia unita dalla passione per l'alpeggio, lei casara 'fliglia
d'arte', lui giovane ed orgoglioso caricatore d'alpe che ha fatto la
gavetta, fermo come una roccia sulle sue convinzioni.
Propugnatore di una perfezionata arte del pascolamento e del ritorno
alla Bruna alpina (O.B.). In alpe ci sono anche
dei cascin ("pastorelli") di 14 e 12 anni, l' per
imparare. Sembra una storia abilmente costruita per mitizzare una
realtà. Ma è vera. Un invito caloroso a tutti a farsi una
bella camminata e ad andare a conoscere Alfio e Sonia che vi
accoglieranno come amici anche se non vi conoscono.
Ritorno
all'alpe Madri (Dosso del Liro, Como)(15.07.11)
Mario
Bassi ha potuto ritornare a caricare l'Alpe Madri dopo le incresciose
vicende di speculazioni sugli alpeggi che gli avevano impedito di
farlo lo scorso anno. Anche quest'anno Pierfranco Mastalli è andato
a trovarlo. Ci ha raccontato come l'alpeggiatore abbia ripreso la
vita di sempre nella suggestiva Valle del Dosso, montagna aspra e
dirupata.
All'alpeggio
Case di Viso con Andrea Bezzi, malghese, casaro, affinatore
(22.06.11)
Storia di una
esercitazione-seminario in cui si sono affrontati tanti problemi e
capite tante cose sulla realtà dell'alpeggio. Su tutte una:
l'allevatore di montagna non può pensare solo a mungere ma deve
usare le sue mani abili e tutte le sue capacità tecniche e
comunicative. La grande lezione di Andrea Bezzi che da diversi anni
segue un suo 'stile produttivo' che oggi viene ammirato. Andrea è
pienamente soddisfatto del suo lavoro "il più bello del mondo".
Se solo il Parco....
Una
vita ruralpina: Ambrosini Dante di Dubino (Valtellina)(27.08.10)
La
prima stagione d'alpeggio a 6 anni ;poi una serie di stagioni a
S.Sisto (Campodolcino) con le poche vacche di famiglia e le prime
esperienze da giovanissimo sfrosaduur.
Quindi la guerra con la prigionia. Immediato dopoguerra con
il contrabbando spericolato e il lavoro dei boschi (più il
primo). Poi in cantieri in Svizzera fino a un grave incidente
sul lavoro. Ancora alpeggi negli anni '60. Poi commercio e trasporto
bestiame (anca de sfroos föö de Livign); poi ancora alpeggi negli
anni '80. Da 10 anni carica (da solo) l'Alpe del Piani a 2070 m
e impara a fare il formaggio. 'Ma i vach e i cavaj i uu semper
tegnuu) (Foto M.Corti, Alpe dei Piani, 25.08.10)
All'Alpe
Nesdà (Plesio, CO) si festeggia la rinascita (30.07.10)
Gli alpeggi del Bregagno, nei
comuni di Garzeno, Pianello, Cremia, S.Siro, Plesio, Grandola e
Cusino rappresentavano un grande comprensorio di alpeggi con pascoli
alti fino a 2.000 m, affacciati sul lago di Como e di Lugano. Pochi
sono ancora caricati ma l'apertura di una nuova pista forestale, che
dai 'monti' di S.Siro porta all'Alpe Nesdà (passando per l'Alpe
Rescascía), può aprire nuove prospettive. Domenica 25, con una
bella cerimonia (che ha compreso anche la benedizione dei pascoli,
degli animali e dei fabbricati) si è aperta la prima forma prodotta
in alpe dopo anni di abbandono. Oltre agli strepitosi panorami questi
alpeggi hanno anche un altro asso nella manica: i prodotti. Il
formaggio che si produce (da secoli) è il Bitto, che qui, come nelle
Valli omonime, viene prodotto con l'aggiunta del latte di capra.
Insieme ad esso si produce una straordinaria mascarpa che diventa poi
zígher.
Lagorai
significa malghe: No al parco (26.07.10)
Amamont
(l'associazione transfrontaliera degli amici degli alpeggi e della
montagna) è andata nel Lagorai. Nella malga più autentica della
regione più autentica del Trentino. Da
Oswald Tonner,
malghese-simbolo dell'ecologia contadina contrapposta alle ideologie
della wilderness. Un'occasione per sostenere la biodiversità dei
pascoli e dei formaggi, per dire no alle 'bustine' di fermenti
selezionati più o meno 'autoctoni', al degrado delle malghe storiche
ridotte a pascoli di manze, ai progetti di trasformare le malghe
abbandonate in 'palestre' per i giochi di sopravvivenza nella
wilderness.
|
Alpeggi -
Montagna
sfregiata -
Boschi e parchi
La
felce aquilina
(Pteridium
aquilinum)
Causa
e conseguenza di grave degrado dei pascoli
di
Fausto Gusmeroli
(31.08.16) Tra i problemi legati alla gestione di pascoli
alpini quello dell'espansione della felce aquilina rappresenta un
aspetto relativamente nuovo ma di sicurà gravità Va tenuto conto che
l'espansione di questa felce non solo sottrae superfici al pascolamento
ma rappresenta anche un problema ambientale e sanitario (anche se sulle
Alpi meno grave rispetto ad altri contesti)
Alpe
Culino (Valgerola). Un caso particolarmente grave di inarrestabile
infestazione di Pteridium aquilinum com
conseguenza della cattiva gestione del pascolo, fatto piuttosto grave
perché l'alpe è gestita da Ersaf (Regione Lombardia).
Il problema
La
diffusione della felce aquilina rappresenta un grave problema per i
pascoli di vari paesi del mondo. Essa non solo è fortemente tossica
(anche per i ruminanti) ma è anche cancerogena (contiene in quantità
elevate un sequiterpene cancerogeno: il Ptaquiloside). Dotata di grande
capacità di diffusione (il rizoma - molto profondo - ha
grande capacità di riproduzione
vegetativa ed è difficilmente estirpabile) è evitata quasi del tutto
dagli animali perché non solo tossica ma anche molto coriacea (tranne
negli stadi primaverili) ed è anche in grado di inibire anche la
crescita di altre piante. Il risultato, una volta insediata è quello di
una "conquista" quasi totale e duratura di estesissime superfici del
tutto perse dal punto di vista del pascolo. Anche dal punto di
vista
ambientale questa infestazione pone seri problemi. Il principio
cancerogeno, dilavato dalle acque meteoriche, può inquinare le falde
acquifere. L'abbondanza di residui al termine della stagione vegetativa
causa un accumulo di materiale combustibile anche a causa della sua
lenta degradabilità. In caso di incendio la pianta (decisamente
pirofila) si avvantaggia rispetto ad altre in forza della resistenza
dei suoi organi vegetativi. Ora si affaccia anche nel massiccio
alpino
dopo che da tempo si erano avuti preoccupanti segnali di espansione in
ambito prealpino. Le cause dell'espansione sono legate probabilmente
anche ai cambiamenti climatici in atto ma, alla base di macroscopici
casi di infestazione, ci sono sempre il sottopascolamento e una cattiva
gestione del pascolamento come si constata in alpeggio quando
pascoli
meno facilmente accessibili o con maggiore declivio vengono
trascurati
dai piani di pascolamento in quanto meno facilmente accessibili con i
sistemi di mungitura meccanica mobili e meno "remunerativi" dal punto
di vista dei tempi necessari all'allestimento dei recinti
elettrificati.
La
pianta
La
felce aquilina (Pteridium
aquilinum)
deriva
il proprio nome sistematico dal greco pteris
(felce)
e dal latino aquilinum
(per
via della forma della sezione rizoma che ricorda quella di un'
aquila). È specie antica, risalente a più di 55 milioni di anni fa,
robusta, alta fino a tre metri, perenne, rizomatosa, a foglie quasi
orizzontali e caduche. Con
il freddo invernale le foglie solitamente muoiono e formano un
tappeto che protegge dal freddo i rizomi sotterranei in mancanza di
copertura nevosa e in primavera ritarda il riscaldamento del suolo e
il conseguente sviluppo delle nuove foglie, piuttosto sensibili al
freddo.
I rizomi sono i principali organi di immagazzinamento dei
carboidrati (amido) e secondariamente di acqua. Possono avere un
diametro superiore a 2,5 cm e svilupparsi anche per diversi metri. Da
essi si snoda l’apparato radicale. Le radici sono nere, sottili e
fragili e possono approfondirsi nel suolo per più di 50 cm.
Essendo
una pteridofita, la felce aquilina non differenzia fiori e semi. Si
riproduce per via sessuale, attraverso spore e, soprattutto, per via
vegetativa, attraverso i rizomi. Le spore, piccole e brune, sono
prodotte da agosto a settembre entro sori lineari portati sulla
pagina inferiore delle foglie fertili. In natura la riproduzione
tramite esse sembra essere un fenomeno non molto frequente.
Soprattutto alle nostre latitudini, le spore non sono facilmente
osservabili sulle piante.
L’aggressività dei rizomi conferisce
invece alla specie una straordinaria capacità di propagazione per
via agamica. I cloni rizomatosi possono essere vecchi di secoli e
alcuni possono raggiungere il millennio. Possiedono un numero elevato
di gemme dormienti, per cui, quando disturbati o spezzati,
germogliano in ogni frammento, originando piante morfologicamente
giovani.
Usi
P.
aquilinum
è
stata oggetto in passato di molteplici usi e per tale ragione fu
anche coltivata in molti paesi (Canada, Stati Uniti, Siberia, Cina,
Giappone e Brasile). Poteva fungere da copertura dei tetti, da
combustibile, da lettiera invernale per gli animali (è molto
assorbente e calda), da pacciamante e compost. I rizomi furono
altresì usati nella produzione di pelli di tannino e per colorare di
giallo la lana, mentre le ceneri fornivano potassio nell’industria
del vetro, del sapone e per la fabbricazione della candeggina.
La
specie trovò largo impiego anche nell’alimentazione dell’uomo.
Gli apici vegetativi arricciati delle giovani foglioline erano
consumati freschi in primavera o conservati mediante salatura o
essiccazione. I nativi americani si nutrivano dei rizomi dopo
averli cotti e pelati, oppure li trasformavano in farina per pane,
eventualmente in aggiunta ad altre farine. L’amido dei rizomi
sostituiva la fecola nella fabbricazione dei dolci (particolarmente
in Giappone), mentre per la produzione della birra si ricorreva ai
rizomi e alle foglie. Fu apprezzata anche come pianta medicamentosa:
i nativi americani assumevano i rizomi grezzi per curare le bronchiti,
mentre la farina era ritenuta un efficace rimedio contro i parassiti
verminosi intestinali.
Naturalmente, molto diffuso fu anche
l’utilizzo foraggero con il pascolo, sebbene la pianta non sia
molto appetita al bestiame.
Tossicità
Malgrado
l’uso alimentare, farmacologico e foraggero, P.
aquilinum è
noto per la sua tossicità verso l’uomo, gli animali e anche gli
altri vegetali. Tra i principi attivi vi sono sesquiterpeni e tannini
amari, fitosteroli e il glicoside cianogenico, che si trasforma
prontamente in acido cianidrico (HCN) quando la pianta viene
danneggiata o con l'umidità dell'apparato boccale dell'animale che la
bruca. Genera inoltre acidi fenolici, che riducono il pascolo,
possono agire da fungicida e sono implicati in attività
allelopatica. I principi attivi si ritrovano in ogni parte della
pianta: rizomi, foglie fresche e secche, apici arricciati delle
giovani foglioline e spore. La tossicità è maggiore nelle fasi
giovanili e negli apici delle foglie.
Nell’uomo,
l’ingestione provoca deficienza di vitamina B1 per azione di una
tiaminasi e maggiori incidenze di leucemie, cancro allo stomaco,
all’esofago e alla vescica, patologie osservate in modo particolare
in Brasile, Giappone e Venezuela, dove storicamente più frequente è
l’uso alimentare della pianta. A rischio carcinogenico sono
considerate pure le persone che lavorano vicino ad estesi e fitti
felceti nella fase di dispersione delle spore (è consigliato l’uso
di mascherine!). Anche negli animali, l’assunzione è causa di
deficienza di tiamina, specialmente nei monogastrici ( a rischio
cavalli), neoplasie in tutto l’apparato digerente, anemie ed
emorragie, spesso fatali, per avvelenamenti acuti a carico del
midollo osseo. In pecore si osserva inoltre cecità. I ruminanti, che
assumono tiamina prodotta dal microbismo ruminale, sono anch'essi
interessati da forme di avvelenamento per la presenza di principi
tossici termostabili non nattivati nel rumine (causa di emorragia).
L’avvelenamento si può verificare anche per lento accumulo, quindi
con basse assunzioni ripetute nel tempo.
Il
principale agente oncogeno è Ptaquiloside,
un sesquiterpenoide La molecola è risultata essere trasmissibile al
latte degli animali ed è solo parzialmente degradato durante il
processo della pastorizzazione, mentre lo è molto di più nel
processo di caseificazione, per cui i formaggi non presentano
problemi di contaminazione.
E’
stata ritrovata in concentrazioni elevate nelle acque di falda
sottostanti ai felceti, a seguito di fenomeni di lisciviazione. Il
suo ingresso nella catena alimentare può pertanto avvenire anche per
via indiretta.
Per
quanto concerne l’entomofauna, nonostante si possano avere diverse
interferenze da parte dei composti attivi, fino ad una chiara azione
insetticida, sui felceti prosperano normalmente numerosi e abbondanti
insetti erbivori.
Più
marcati sono invece gli effetti sulle specie vegetali, a seguito
della liberazione di sostanze allelopatiche. È senz’altro questo
un fattore importante nel conferire a P.
aquilinum
la
capacità di costituire popolamenti pressoché puri e molto stabili.
Anche laddove, come nelle regioni più settentrionali dell’areale,
non si hanno rilasci diretti dalle foglie, i composti allelopatici
sono prontamente lisciviati dalle foglie morte. Essi permangono a
lungo nel suolo, tanto da poter inibire le specie erbacee anche nella
stagione successiva alla rimozione delle felci.
Distribuzione
ed ecologia
Pteridium
aquilinum
è
elemento cosmopolita, presente in ogni parte del globo terrestre ad
eccezione dei deserti caldi e freddi. L’elevata efficienza nel
controllo degli stomi le consente di vivere in ambienti
eccessivamente aridi per la gran parte delle altre felci; d’altro
canto la sua distribuzione non sembra limitata dall’umidità.
Essendo sensibile alle gelate primaverili, nella aree a clima
continentale si ritrova più comunemente in siti elevati e in pendio.
A bassa quota, il più precoce e intenso riscaldamento del suolo fa
crescere anticipatamente le foglie, esponendole ai danni da gelo,
specialmente in spazi aperti e in assenza di lettiera. In questi
ambienti, la pianta predilige pertanto stazioni ombreggiate, dove si
presenta con foglie meno numerose, più grandi e sottili e dove
produce però meno spore.
Anche
rispetto al terreno, la specie ostenta un’ampia adattabilità. Solo
i luoghi costantemente sommersi le sono preclusi. Le matrici
profonde, fertili (ricche di potassio, in particolare), ben drenate e
con buona capacità idrica ne rappresentano l’ambiente di elezione,
dove facilmente s’impostano popolamenti puri. I felceti innalzano
la fertilità del suolo, mettendo in circolazione buone quantità di
azoto, fosforo e potassio per lisciviazione dalla lettiera di foglie
e, per il fosforo, per mobilizzazione da parte del sistema
rizomatoso. Nonostante sia tipica dei substrati silicei, si ritrova
anche nelle matrici basiche. Le sue spore, infatti, sono in grado di
germinare bene anche in condizioni di elevata alcalinità, fatto che
contribuisce ad accrescerne l’aggressività nei luoghi
incendiati.
P.
aquilinum è
in assoluto una delle specie più adattata agli incendi. L’apparato
rizomatoso la rende anzitutto molto resistente. Il fuoco distrugge le
foglie, ma alcuni rizomi, in particolare quelli più profondi, si
mantengono, grazie alla protezione dello strato di ceneri
soprastante. Così, mentre i competitori sono annientati, la felce
può germogliare dai rizomi sopravvissuti. I nuovi germogli sono
molto vigorosi e in piena luce producono molte spore, facilmente
disperse dal vento anche a lunga distanza. Oltre che
straordinariamente resistente al fuoco, la pianta ha anche un effetto
di promozione degli incendi: lo spesso strato di foglie morte è
infatti un ottimo combustibile!
La
fase giovanile di sviluppo dei nuovi fusti primaverili. In questa fase
la pianta è abbastanza appetita dal bestiame perché la tossicità è
ridotta ed è meno coriacea. Il pascolamento con elevati carichi
istantanei per brevi periodi attraverso l'effetto di calpestamento e di
asportazione della massa verde (che se ripetuta determina l'esaurimento
delle scorte energetiche del rizoma), possono rappresentare un
effiucace metodo di lotta. Il pascolo di servizio di greggi ovine si
presta efficacemente a queste finalità.
P.
aquilinum,
infine, sembra anche trarre giovamento dal rialzo termico globale del
pianeta. Al contrario è sfavorita dalle piogge acide, che
danneggiano le foglie e il processo di riproduzione sessuale. La
sensibilità è molto elevata, ciò che ne fa un buon indicatore
biologico.
In
molte zone delle Alpi si è assistito in questi ultimi decenni ad una
massiccia espansione della specie, in grado di raggiungere anche quote
elevate (1800-1900 m). Ciò a causa essenzialmente dell’abbandono
delle pratiche pastorali. Senza la forte pressione selettiva del
taglio e del pascolamento, molte praterie delle fasce montana e
subalpina ne sono state rapidamente invase. Soprattutto laddove è
stato usato ripetutamente il fuoco per controllare le infestanti
legnose, si sono insediati felceti molto densi, la cui progressione
verso la vegetazione forestale climatogena non appare così scontata,
perlomeno in tempi brevi. L’aggressività della pianta e i suoi
meccanismi allelopatici rappresentano un ostacolo tutt’altro che
agevole all’ingresso di altre specie.
Strategie
e mezzi di lotta
La
forte espansione delle comunità di Pteridium,
la loro persistenza e i potenziali rischi sanitari per il bestiame e
l’uomo, pongono la necessità di specifiche azioni di controllo. Le
strategie di intervento cambiano in funzione dell’obiettivo che si
desidera perseguire: se questo è il recupero delle praterie, occorre
eradicare la pianta con misure specifiche; se invece non vi è
interesse al ripristino delle cotiche erbose, si deve puntare a
stimolare l’evoluzione dei felceti a bosco.
Per l’eradicazione,
escludendo i formulati chimici, gli strumenti di lotta applicabili
sono principalmente di tipo fisico e biologico. I trattamenti vanno
ripetuti per più anni, fino ad esaurimento completo delle scorte
dell’apparato rizomatoso. I trattamenti fisici consistono
principalmente in tagli della biomassa aerea. Si effettua un primo
taglio ad inizio estate ed un secondo dopo che i rizomi hanno
rigenerato la copertura di foglie. In alternativa si può eseguire un
solo sfalcio in piena estate o, dove possibile, si può anche pensare
ad un’aratura. Circa i mezzi biologici, i risultati più evidenti e
sicuri si ottengono con il pascolamento degli animali. L’impatto è
legato fondamentalmente al calpestio, che crea nel suolo condizioni
negative per l’apparato rizomatoso. Occorre naturalmente cercare di
evitare chi gli animali assumano quantità significative di biomassa,
data la tossicità della pianta. Sempre in tema di lotta biologica,
va segnalato che in esperienze condotte in Gran Bretagna si sono
ottenuti esiti favorevoli con l’impiego di alcune specie di
farfalle sudafricane (Conservula
conisigna
e
Panotima
sp. near angularis),
capaci di danneggiare gravemente le foglie della pianta nella
stagione primaverile. Al momento non si ha invece notizia di agenti
attivi sui rizomi.
In
merito all’evoluzione a bosco, l’incertezza e la difficoltà che
accompagnano la progressione naturale dei felceti sembrano
giustificare specifiche misure atte a forzare la dinamica. Si tratta
in pratica di procedere all’impianto artificiale delle specie
arboree che caratterizzano la vegetazione climax
del
luogo o dei primi stadi della serie evolutiva che ad essa conduce. La
competizione esercitata dalle piante forestali, soprattutto nei
confronti della luce, dovrebbe progressivamente penalizzare la felce.
L’impianto può essere effettuato anche solo su parte della
superficie (a macchia di leopardo, a strisce o altro). Importante è
la preventiva rimozione delle felci nei punti interessati
dall’alloggiamento ed il successivo controllo delle ricrescite,
così da agevolare l’insediamento delle piantine.
Note
conclusive
L'infestazione
da felce aquilina, pur non presentando in Italia la gravità
evidenziata in altri Paesi, rappresenta indubbiamente un potenziale
rischio per la salute. Assolutamente da evitare è il consumo diretto
e l’utilizzo di acque di falda prossime ai felceti. L’impiego di
mascherine ha senso solo dove le piante sporificano, ciò che non
avviene alle nostre latitudini alpine.
Per quanto riguarda
possibili contaminazioni al latte, nelle nostre condizioni alpine il
rischio va considerato nullo o molto modesto, stante le superfici dei
felceti che, salvo situazioni particolari, non sono mai così estese.
Inoltre è molto improbabile che gli animali al pascolo assumano dosi
significative di felce, sia perché la pianta è poco appetita, sia
perché i pastori cercano di evitare che ciò avvenga.
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