Due
notizie messe insieme a volte fanno capire le cose più di tante analisi
complicate. In quesi giorni il parlamento europeo ha dato il
suo
placet alla "riforma" (chissà perché si ostinano a chiamarla così)
della Pac.
Ha anche bocciato le proposte che miravano a impedire che i prodotti
vegetali (e a base di carne artificiale) possano utilizzare
denominazioni "meat sounding", ovvero camuffarsi da salsiccie, bresaole
e bistecche. Il finto ambientalismo si dimostra un vero e prezioso
sostegno alle strategie delle multinazionali che, dopo aver sottomessa
l'agricoltura, ora la vogliono cannibalizzare. Con pessime conseguenze
ambientali e sociali
di Michele
Corti
(26.10.20) Il parlamento europeo
ha sfornato una Pac che continua a premiare un tipo di agricoltura del
tutto subordinato alle multinazionali. Che non è certo un modello di
quella sostenibilità ambientale continuamente evocata. Però, per lisciare il pelo al
vegan-ambientalismo (e obbedire alle lobby alle multinazionali) ha rigettato gli
emendamenti, come quello dell'on. italiana Mara Bizzotto, che volevano
mettere uno stop all'inganno della finta carne.
Quando si dice
che il modello agricolo premiato dalla Pac è un modello che premia le
multinazionali si intende dire che l'agricoltura intensiva è un ottimo
cliente per le multinazionali, che la "fanno ballare" come
vogliono. In primo luogo quelle
"di punta" dell'agrochimica-sementi-ogm, dove dominano il mondo tre big
corporation.
Nel modello di agricoltura prevalente in Europa (e sostenuto dalla Pac) il valore dei beni
intermedi che concorrono alla produzione agricola è pari al 70% (in
Italia è un po' più basso ma la 'modernizzazione' va in questo senso). La percentuale di beni
intermedi (sementi, chimica, informatica, meccanica) è altissima sia per la riduzione
dei reimpieghi (alla faccia delle tante belle parole sulla circolarità
economica e sull'ecologia), sia perché i prezzi dei prodotti venduti dagli
agricoltori sono scesi mentre quelli dei beni industriali
acquistati salivano.
Il prodotto agricolo, a prezzi - infimi
- di
mercato , è poca cosa. Poca cosa ma è l'indispensabile base di una
catena di valore che, arrivata al consumatore finale, restituisce le
briciole all'agricoltura che sta in piedi, per l'appunro, grazie alle
sovvenzioni della Pac (titoli e Psr). All'agricoltore (dati Ismea,
2019) su 100€ di spesa di prodotti agricoli trasformati, ne rimangono
2. Il resto va all'industria di trasformazione (10), allo stato come
tasse (21), al commercio, distribuzione e logistica (29), ad altri
settori dell'economia (17), all'import di beni intermedi (16), ad
ammortamenti e salari (5).
In
forza delle sovvenzioni della Pac l'agricoltura sta in piedi
(espellendo gradualmente aziende sempre meno piccole). Ma in che modo
sta in piedi? La condizione del produttore agricolo è come quella del
criceto che corre disperatamente sulla ruota della gabbietta. I prezzi
diminuiscono senza tregua. Il latte è sceso a 35 cent, vicinissimo,
ormai, al mitico latte bavarese. In Lituania vale, però, solo
23
cent un po' di più negli altri paesi baltici. Come conseguenza della
tragedia dell'agricoltura dei paesi dell'Est, distrutta
dal comunismo, ristrutturata e pesantemente
sovvenzionata dall'Europa (dopo essere
passata in mano a tedeschi, olandesi, francesi e un po' anche agli
italiani). Non bastando il latte dall'est che tiene "freddo" il
mercato, ci sono anche grossi caseifici italiani che vanno a produrre
grana, mozzarelle pecorino all'Est.
L'allevatore
reagisce a questo stato di cose, forzando la produttività. Il
sistema è ben contento di assecondarlo: più mangimi, più integratori,
più farmaci, il business della selezione e della genetica (che, in
larga misura vuol dire ancora far fare più latte alle vacche) continua. Le
chiacchiere sulla qualità, la tutela del consumatore, il benessere
aninale lasciano ovviamente il tempo che trovano perché, quando si punta
alla quantità, sotto la spinta dei prezzi del latte spot tenuti bassi
dai paesi dell'Est (da un'agricoltura "dopata") e dall'Australia, c'è
poco da raccontare frottole.
La corsa alla riduzione dei costi,
all'esasperazione della produttività (ai litri di latte al giorno della
vacca corrispondono i q.li per ettaro del mais) è essa stessa il
fattore che spinge i prezzi in basso. Alla fine il reddito è rimasto lo
stesso producendo di più, il criceto è sempre allo stesso posto. Ma in
tutta questa rincorsa, sostenuta da una cultura produttivistica che
tutto l'apparato di organizzazionioni, associazioni, consulenti,
esperti, professori si guarda bene dal disinnescare (chi sega il ramo
su cui è seduto?), quante aziende sono state espulse e quante che si
credono grosse, moderne ed efficienti, lo saranno?
La
cultura produttivistica, con i suoi frusti miti industrial-quantitativi
con i modelli a stelle e strisce, con una cultura da business school
che con l'agricoltura c'entra poco, come una sirena che divora le sue
vittime, continua ad ammaliare l'agricoltore, (ancora molti, troppi)
che, identifica ancora la dimostrazione del suo successo personale e professionale, il
suo prestigio, in performance produttive che sono
trappole. E' una cultura
vecchia. Da retroguardia. Ma troppi interessi tendono a preservarla.
Oltre
a essere alla base di una "spirale dei prezzi al ribasso", le
sofisticate tecnologie, la genetica spinta, la monocoltura, inducono
dipendenza. Infilato in un vicolo cieco, il produttore agricolo cerca
aiuto da chi ha fatto di tutto per infilarcelo. Tirarsi indietro per
cercare alternative diventa difficile quanto tutto è improntato al
perserso stile iperproduttivista. Non è facile rompere il circolo
vizioso. Più si va avanti e più è difficile tirarsi fuori, scegliere la
propria via. Ci vuole coraggio. Gli esempi da seguire sono pochi.
L'ambiente ti scoraggia.
Le "alternative" proposte dal sistema e benedette
dall'ambientalismo di comodo. In queste centrali si fanno marcire
("digerire anaerobicamente") non solo sottoprodotti che potrebbero
essere utilizzati per le produzioni animali ma anche prodotti agricoli,
cereali, coltivati con (abbondante) utilizzo di pesticidi e
fertilizzanti chimici e
acqua di irrigazione. Terra sottratta alla produzione alimentare con
rese in termini energetici ridicole e senza un'effettiva riduzione
delle emissioni. Operazioni insensate, giustificate solo da incentivi
enormi pagati dal consumatore di energia elettrica. Operazioni che
grazie all'abientalismo di comodo ricevono etichette "green" che non
meritano affatto.
La
nuova Pac non aiuta, anzi. Perché è rimasta la logica della
condizionalità. Gli aiuti sono concessi a condizione (la
"condizionalità") di non inquinare troppo. Per i virtuosi che adottano
metodi e tecniche agroecologiche (che dovrebbero essere la norma) ci
sono dei regalini. Per far passare una Pac sostanzialmente uguale a sé
stessa (che non introduce alcuna riforma), il parlamento europeo ha
chiesto in cambio qualche altro contentino: una strategia Farm to fork
(inventivi alle filiere corte), una strategia "biodiversità" (staremo a
vedere in cosa si ridurrà), un limite minimo del 6% degli aiuti alle
piccole aziende.
La posizione ambientalista è
molto ipocrita
Di
fronte a una Pac che non cambia gli ambientalisti si sono stracciati le
vesti (o, meglio, hanno fatto finta di farlo). Dopotutto a loro non
interessa realmente che l'agricoltura diventi sostanzialmente e
concretamente ecologica, più indipendente dalle multinazionali e dalle
burocrazie, più forte. A loro basta che tutto di conformi a delle
etichette green, ai loro schemi, alla loro ideologia e
tornaconto. Basti pensare al famigeratoolio di palma
"sostenibile" che
riceve la benedizione del WWF (usato, insieme ad altri oli di semi, per
preparare i "salumi vegani", con buona pace della salute del
consumatore e della distruzione degli ecosistemi . Come possono
sostenibili delle
piantagioni, una monocoltura che ha sostituito le foreste equatoriali?
Basti pensare poi al mercanteggiamento dei crediti di carbonio, alle
pseudo
energie rinnovabili, ai biocarburanti. Tutte cose che, sulla carta,
"diminuiscono le emissioni gas inquinanti", in realtà tante componenti
della greed-economy (greed = avidità, neoliberale) che soggiogano
l'agricoltura e le comunità rurali alla speculazione e alle
multinazionali e si rivelano altamente impattanti
sull'ambiente.
Foresta
distrutta per far posto alla monocoltura della palma da olio. Poi,
basta far passare il tempo, diventa "sostenibile" comprando le
ecoindulgenze degli ambientalisti
In
tutto il mondo l'ambientalismo urbano, sotto l'etichetta di difesa del
clima e della biodiversità, porta avanti politiche che favoriscono le
multinazionali e colpiscono i piccoli produttori agricoli, contadini,
pastori, cacciatori-raccoglitori ai quali vengono sottratte le loro
terre in nome della creazione di aree protette, per difendere tigri,
elefanti, gorilla. Poi, a parte che si scopre che - in certi paesi
africani - gli elefanti proliferano ed è necessario aprire la
caccia, si scopre che in questi parchi, cacciati con la
violenza
coloro chi vi abitavano da sempre, si organizza ogni tipo di business
(taglio di legname, miniere, turismo di lusso e persino venatorio).
Land
grabbing in Africa. La faccia buonista del capitalismo delle
multinazionali nasconde un neocolonialismo spregiudicato e crudele.
Canna da zucchero, girasole, jatropha mangiano le terre africane
sostituendo monocolture ad ambienti naturali e alla policoltura per lla
produzione di sussistenza. Servono per i "bio" carburanti. In analogia
con la produzione e il consumo di carne non sarebbe più ecologico
ridurre i consumi di carburanti fossili. Il business del land grabbing
e dei biocarburanti non ci sarebbe , però. Ancora una volta gli
ambientalisti che hanno spinto per addizionare bio diesel e etanolo
sono l'utilissimo strumento di inganno. In questi anni la
proliferazione dei centri commerciali che uccidono il piccolo
commercio, hanno rappresentato un potente stimolo all'utilizzo
dell'automobile ... e allo spreco alimentare (si riempie l'auto di
prodotti 3x2, confezioni "famiglia" di taglia spropositata per poi
gettarli). Tutto per il business. L'ambiente serve solo come pretesto
per bastonare le piccole attività sovraccaricandole di adempimenti e
certificazioni.
Che
credibilità possono avere gli ambientalisti presso i
contadini,
gli agricoltori? Zero, ovviamente. Purtroppo, però, non fidandosi (a
ragione) di chi
sventola la bandiera dell'ambiente, il mondo agricolo si tiene
attaccato a un sistema (quello legato agli interessi delle
multinazionali) e diffida di tutto ciò che è "eco" e "bio" quando
vengono usate questi suffissi a proposito di soluzioni ai problemi
ambientali ed agricoli. E' il falso
ecologismo urbano, da salotto, di comodo, il "green" burocratico,
speculativo, distorto
che è contro l'agricoltura. L'istanza agroecologica autentica, non
ideologica, è rurale e contadina.
Stragi
quotidiane. I lupi sono proliferati, volutamente, senza controllo,
fornendo dati del tutto falsi e sottostimati. Negando agli allevatori
gli indennizzi. L'animal-ambientalismo celebra i suoi successi ad ogni
strage, a ogni allevamento che chiude. E questa sarebbe un'ideologia di
"pace". Il lupo ferito viene curato a spese del contribuente, mantenuto
nei centri di recupero della fauna, a spese del contribuente,
rilasciato. Per gli animali domestici nessuna pietà. Possono essere
sbranati vivi, soffrire dolorose agonie. Per gli animal-ambientalisti
sono "cose", bistecche ambulanti. Quindi la loro sofferenza non esiste.
Del
resto l'animal-ambientalismo, quando parla di agricoltura ecologica
pensa sempre a un "settore protetto" da gestire a parte e del quale
farsi paladino . E' la logica dei parchi naturali
"incontaminati", che pretende di mettere sotto la campana di vetro
pezzi arbitrartiamente delimitati di territorio (dove poi gestire un
controllo che ha anche aspetti politici ed economici) ma che rinuncia a
priori a riportare l'insieme del territorio a una salute ecologica
soddisfaciente. C'è un idea meno ecologica di questa? Così
l'agricoltura bio è qualcosa da mettere sotto le ali, per la quale
"portare a casa" qualche contributo in più. Un orticello da
coltivare.
Per
quale motivo la generalità dei piccoli produttori, di chi, da sempre,
applica pratiche ecologiche (chi alleva gli animali al pascolo senza
usare fertilizzanti chimici e pesticidi, chi coltiva in modo
"spontaneamente" bio) dovrebbe fidarsi degli animal-ambientalisti, di
coloro che si oppongono a priori alla limitazione della fauna nociva,
che impediscono che il pastore possa difendere il suo gregge, che
difendono i cinghiali proliferati fuori di ogni controllo e al di fuori
di ogni habitat a loro adatto? Che, una volta istituite le aree
protette grandi e piccole, impongono regole ben poco ecologiche,
rispondenti solo agli astratti criteri dell'ambientalismo da tavolino
(vedi certi carichi di pascolo che portano in pochi anni
all'inarbustimento e trasformano i pascoli in boscaglie). Che
schiacciano il piccolo produttore sotto il peso di procedure di
autorizzazione costose e complicate per ogni minimo intervento? Che
esaltano il re-wilding, - frutto di un'ideologia di importazione di
matrice nord-americana - ovvero la barbarie della cancellazione di
paesaggi rurali storici millenari?
In
combutta con le multinazionali l'ambientalismo main-stream "!benedice"
le piantagioni e le monocolture che scacciano i contadini e distruggono
le foreste. Poi per "salvare l'anima" punta ad ampliare le aree
"incontaminate". In Occidente con mezzi indiretti (i grandi predatori
intoccabili, la burocrazia soffocvante che induce i contadini a
smettere. In Africa (ma anche India) con la violenza pura: stupri,
torture, omicidi, villaggi distrutti. Tutto con la scusa della "lotta
al bracconaggio" e della difesa delle "specie a rischio die stinzione".
L'uomo vale meno di un animale per la nuova morale della religione
ambiental-animalista.
Agroecologia
non vuol dire sottrarre sempre più terre coltivabili per "i parchi", le
"aree incontaminate", le micro foreste amazzoniche immaginarie che
compensano (ideologiocamente) la distruzione di quelle pluviali. E'
evidente che questa strategia di re-wilding che colpisce l'agricoltura
contadina, le comunità rurali, le produzioni più agroecologiche (senza
etichetta e certificazioni), porta acqua al mulino delle multinazionali
che puntano ad una agricoltura sempre più concentrata in aree
ristrette, sempre più industralizzata, sino a entrare nelle "fabbriche
del cibo", nei laboratori, sino a scomparire. Colture
idroponiche, "carne" ottenuta in provetta; una produzione alimentare
senza la "seccatura" di quegli zotici, fastidiosi contadini è sempre
stato l'ideale del capitalismo che si è sempre proposto come una
crociata l'eliminazione del piccolo produttore, pietra d'inciampo della
sua progressiva marcia trionfale. Fu il capitalismo di stato sovietico
a perseguire, con convinzione spietata e sanguinaria, l'obiettivo
dell'industrializzazione agricola e della distruzione dell'agricoltura
contadina. I risultati furono milioni di morti, carestia indotta dalla
più cupa follia mai vista sulla faccia della terra, terre una volta
fertili isterilite, un sistema dall'inefficienza clamorosa. Ma i tempi
non erano maturi.
Un
sistema che assume sempre più lineamenti totalitari ma, al tempo
stesso, è favorito da uno smisurato potere di controllo tecnologico sta
pensando di riprovarci. L'animal-ambientalismo, con le sue ideologie
(la lotta al cambiamento climatico come valore assoluto cui devono
sottomettersi tutti gli altri, anche quelli ecologici, l'anti-specismo)
si fa paladino della lotta contro le produzioni animali. Vuole assumere
il ruolo che fu delle religioni, aiutato attivamente anche dai capi
religiosi stessi. Si comincia dall'attacco indiscriminato alla
produzione di carne perché la produzione animale è meno
controllabile, meno concentrabile, più dispersa rispetto alle
commodities vegetali. Non a caso, nell'ambito stesso delle produzioni animali, il settore lattiero - dove c'è, guarda caso, una
Lactalis - ha fatto quantomeno smettere alla UE di consentire di chiamare spudoratamente "latte"
degli alimenti liquidi a base vegetale.
La
soia ha sostituito le foreste in Argentina e altrove. Chiediamoci se è
meglio il "latte di soia" o il latte (e la carne) prodotti con foraggi
coltivati valorizzando i prati permanenti e in rotazione e i pascoli
semi-naturali. Agli ambientalisti che gongolano per l'abbandono di
superfici va ricordato che potrebbero produrre beni alimentari di
qualità, cura del paesaggio, elevata biodiversità, sostegno ad attività
turistiche e artigianali circolari. Invece la boscaglia che avanza qui
è foresta di ben più strategica importanza ecologica che si perde
"lontan dagli occhi".
Gli
ambientalisti si prestano alla demonizzazione dell'allevamento animale,
all'esaltazione del veganesimo come se non vi fossero produzioni
vegetali insostenibili e non ci fossero produzioni animali virtuose:
quelle che non "rubano" alimenti altrimenti utilizzabili anche
dall'uomo, che si basano sull'utilizzo di pascoli seminaturali (sistemi
che, nel loro insieme, assorbono CO2) o di sistemi foraggeri che
prevedono l'utilizzo delle leguminose azotofissatrici capaci,
insieme al concime animale (deiezioni + residui vegetali delle
coltivazioni), di mantenere e arricchire il terreno di sostanza
organica, di rilasciare i principi nutritivi senza i fenomeni di
lisciviazione (in modo particolare dei sovraccarichi di azoto). La
sostenibilità di un sistema agroecologico deve ovviamente tenere conto
di na catena che parte da tutti i mezzi impiegati nella produzione
agricola: dall'energia fossile utilizzata per produrre
l'acciaio
per produrre una macchina (e quella per rottamarla), a quella
-tanta - utilizzata per produrre i fertilizzanti chimici, dall'energia
utilizzata nelle catene del freddo, nei trasporti intercontinentali
delle commodities a basso coso (ma ad elevato costo
ambientale)
al consumo finale da parte degli esseri umani. Fa comodo ignorare la
"testa" e la "coda" di un sistema e discutere di efficienza e
sostenibilità solo con riguardo a un segmento di una filiera. Ma
senza la sostenibilità
del consumo non c'è nessuna seria valutazione di un sistema
agro-alimentare. In Europa i consumi di carni e di prodotti animali
sono elevatissimi. E allora si capisce come la politica a favore della
"finta carne" è una finta politica ambientalista (e una vera politica
pro multinazionali).
In
Italia si consumano 80 kg di carne a persona (in altri paesi europei e
negli Usa anche di più). Si tratta, è bene precisare, di consumo
"apparente", che non tiene conto si scarto e spreco (in realtà il
consumo effettivo è pari alla metà). Ma è sempre alto e può essere
diminuito con vantaggio anche dela salute. In India il
consumo
(sempre apparente) è di 4 kg, e non aumenta. La Cina, smaniosa di
copiare il modello alimentare occidentale ci sta quasi raggiungendo
(determinando enormi problemi di inquinamento ambientale). Il consumo
di carni, nel complesso, diminuisce pochissimo perchè - dopo
anni
e anni di campagne vegan-ambientaliste - il calo delle "carni
rosse" è compensato dall'aumento delle "carni bianche". C'è di che
riflettere sul fatto che la carne che proviene dai sistemi meno
industrializzati, che consumano meno antibiotici (fattore
pericolosissimo di induzione di antibiotico-resistenza), che utilizzano
meno mangimi (e quindi hanno alle spalle una più contenuto utilizzo
indiretto di concimi chimici e pesticidi) risulti quella più
penalizzata. Negli ultini anni - 50% di macellazioni ovine (contro un
-10% di quelle bovine).
Gli
elevati argomenti etici utilizzati dall'animalismo per
rovinare
l'allevamento ovino (come se non bastassero i lupi e la burocrazia)
Se
è vero che in parte la carne nostrana è stata sostituita dalle
importazioni (con l'assurdo che quest'anno è partita per la Libia una
nave carica di ovini nostrani venduti a prezzi stracciati), è anche
vero che pesa su questo fenomeno la campagna animal-ambientalista sui
"poveri agnellini" (come se altre specie, per il fatto di non essere
morbidose e candide meritassero meno pietà). Ancora una
volta,
come nelle campagne "il lupo non si tocca", l'ambientalismo non si
distingue dall'animalismo che usa i richiami all'emotività, anche a
costo di capovolgere la realtà. Così come nella difesa
ideologica
del lupo non si considerano popolazioni e specie ma si fa del singolo
animale un tabù, così nel mettere in crisi i pastori (facendo mangiare
gli agnelli in Libia), non c'è una logica ecologica. E' più sostenibile
un allevamento intensivo che produce solo carne o un allevamento come
quello ovino da latte che utilizza (lupo permettendo) ancora pascoli
naturali (risorse rinnovabili) e produce la carne come sottoprodotto
del latte e dei formaggi. In realtà anche l'allevamento ovino estensivo
da carne produce in modo sostenibile (perché utilizza zero
mangimi, zero pesticidi, una goccia di carburanti fossili ) e, oggi,
produce qualcosa di prezioso in connessione con la carne: servizi
ecosistemici (prevenzione degli incendi boschivi, mantenimento di
paesaggi fruibili dal turismo dolce, biodiversità).
Come
si può ragionevolmente sostenere che la soluzione del problema
dell'impatto dei sistemi agrozootecnici si risolve con la "carne
artificiale" (le start up italiane sono finanziate da Bill Gates)? Cosa
c'è dietro alla "carne" prodotta a partire dalle cellule staminali (non
a casa iniziata nella Silicon Valley)? Difficile non vedere la stessa
tendenza a riprodurre organi in provetta, a riprodurre totalmente in
vitro l'essere umano (utero artificiale), a "ri-creare" una nuova (o
nuove) specie post-umana/e. In definitiva a sostituirsi a Dio ad
esercitare un potere sulla vita senza limiti (il biocapitalismo di cui
iniziò a discettare Faucault era uno scherzo in confronto).
C'è
realmente bisogno di finte carni (vuoi quelle a partire da materie
prime vegetali, vuoi quelle dalle cellule staminali?). No. Devono poi
essere chiarite le consizioni di smaltimento dei terreni di coltura e
degli ormoni utilizzati per la coltivazione delle cellule, tra l'altro.
Ma siamo poi sicuri che la metteranno in commercio dopo studi di lungo
periodo sugli effetti sulla salute di tali pratiche
artuficiose?
La salute dei consumatori, invece, avrebbe solo beneficio dal tagliare
ragionevolmente il consumo di carne continuandone a mangiare di buona e
naturale. Senza inventarsi le finte carni.
Una
politica agroecologica senza secondi fini (il profitto, il
biopotere), disincentiverebbe la produzione poco sostenibile di carne e
incentiverebbe le produzioni che valorizzano i pascoli abbandonati, le
risorse poco utilizzate dell'agricoltura (sottoprodotti), le razze a
duplice attitudine (in grado di produrre buone quantità di latte e di
carne senza forzature contrarie anche al benessere animale). Limitando
le produzioni (con le razze a duplice attitudine si arriva comunque a
produrre 60-70 q.li di latte all'anno), si ottiene carne e latte di
qualità che, nel contesto di filiere corte (aziendali ma non solo) può
significare buoni prezzi ma, soprattutto, buoni ricavi per via dei
tagli dei costi imposti dai sistemi "spinti".
Considerato
che, oggi, al produttore agricolo rimangono
solo
le briciole di quello che spende il consumatore per alimentarsi,
gestire la filiera corta (completamente o delegando a dei partner
alcuni segmenti) consente un margine enorme di recupero di quote di
valore aggiunto che compensa anche cali di produzione significativi
(comunque di per sé compensati dal calo dei costi). Di qui il circolo
virtuoso: meno necessità di spingere la produzione, meno spese e
dipendenza dai sistemi industriali, di logistica, high-tech,
consulenza, più tempo per produrre bene e curare i rapporti di filiera
o con il consumatore ( e pensare con la propria testa).
Invece
no. Si vuol favorire la finta carne. E qui torniamo al gioco
ambientalista. Gridando alla crudeltà associata alla produzione di
carne (come se non contasse nulla la vita che trascorre l'animale, le
condizioni di trasporto, arrivo al macello), come se certi pet
costretti a vivere da giocattoli o umanizzati, impedendo ogni loro
espressione comportamentale non fossero vittime di crudeltà per tutta
la loro esistenza. Gridando poi indiscrimanatamente al "peccato contro
il clima" , alla "carne inquinante" (non considerando entro
quali
sistemi agricoli, di filiera, di consumo si collochi la sua
produzione)... si fa solo un piacere alle multinazionali.
Cosmetici
per cani: una vera crudeltà per un animale che utilizza
principalmente l'olfatto per relazionarsi alla realtà e ai suoi simili
Queste
sono ben liete di offrire a un consumatore sprovveduto... finte
bistecche, finte salsicce. Un vero vegetariano non ha bisogno
di
consumare qualcosa di colorato, aromatizzato, super-processato che
assomigli alla carne. Il meat sounding è elemento di ulteriore
confusione e torbidità dei fatti alimentari. La diseducazione ai fatti
alimentari, agricoli, ecologici, l'inculcamento di concetti astratti di
natura, l'inversione realtà fiction (l'animale è qualcosa che assomigla
al peluche, al cartoon, quindi il pet umanizzato), il forzato
distanziamento sociale tra le persone e gli animali (allontanamento
delle stalle dai paesi, guai ad allevare galline, conigli in contesti
vagamente urbanizzati) hanno fatto sì che il bambino pensi che il latte
sia prodotto da una fabbrica, idem le uova. Quei fatti della vita
biologica che ciascuno poteva osservare con naturalezza (anche i
bambini di città quando tornavano al paese dei genitori o dei nonni,
quando facevano le vacanze) oggi sono sconosciuti. E così nella Silicon
Valley qualcuno prova a fare la carne e il latte in laboratorio. La
diseducazione, la mancanza di trasparenza pagano (in termini di
profitti per le multinazionali).
Un vero
consumatore vegetariano o moderatamente carnivoro (come vuole
la natura onnivora della nostra specie e il naturale soddisfacimento di
fabbisogni vitaminici) sa bene quali sono le proprietà dei diversi
vegetali e li assume senza auto-ingannarsi sulla loro natura. Nel mondo
orientale l'uso di prodotti vegetali che, in qualche modo,
sostituiscono la carne (si pensi al tofu, al seitan) erano frutto di un
sistema (densità di popolazione, scarsità di terre, orientamento alla
rtisicoltura ad alta intensità) che implicava un'agricoltura senza
animali. Nemmeno per la trazione. Il maiale era allevato con
gli
scarti. Non per amore degli animali o ragioni religiose ma
per
necessità (a differenza dell'India).
Il
consentire da parte della UE di mettere in vendita finti hamburger,
finte salsiccie ecc. favorisce il business dell'industria alimentare
che essa vuole sfruttare per bene, secondo un copione già visto: si
offre una versione che abbia un legame (il richiamo del nome,
l'apparenza) con prodotti tradizionali realizzandolo con materie prime
poco costose, con l'aggiunta di ingredienti che aiutano a raggiungere
una somiglianza organolettica. Una ricostruzione di apparenze che non
intacca la radicale diversità dei prodotti. Per i vegan-ambientalisti
ideologici una conquista. Un risultato che possono vantare come un
successo. La UE può "giustificare" il favore alla lobby agroindustriale
più spregiudicata accampando la crescente "sensibilità ambientalista".
Dal che si dimostra per l'ennesima volta quanto sia utile al peggior
capitalismo il supporto ideologico dell'ambientalismo. Il nuovo "oppio
del popolo".
Una
"transizione energetica" ed ecologica che pone seri problemi di costi
economici e sociali pensata per penalizzare i più poveri. Il sostegno
ambientalista che va solo a soluzioni "ecologiche" gradite al business.
Nessun impegno a incalzare le istituzioni e a scontrarsi con i grandi
interessi economici su temi realmente ecologici. C'è poi l'irritante
animal-ambientalismo di stato di Costa, esagerato e plateale, con la
farsa dell'orso Papillon. Il WWF che sfascia impunemente le spiagge
(con Jovanotti). Tutto ciò sta facendo aprire a molti gli occhi. E così
si sta rompendo il tabù dell'ambientalismo buono, puro e santo che
nessuno, tranne i fautori impavidi dell'energia nucleare e degli ogm,
osava criticare.
Il
capitale sostituisce la sinistra con il liberal-ambientalismo? (13.07.19)
Troppi segnali indicano che il sistemacapitalista sta cambiando
cavallo. La sinistra è stata utile a far ingoiare austerity e
ultraliberismo ma ormai non imbroglia più nessuno. Serve un nuovo
soggetto che inganni il popolo con altre storie. La catastrofe
climatica ben si presta a far ingoiare bocconi ancora più amari
alla plebe, non solo sul piano del lavoro e dei diritti
sociali ma
anche del cibo (menù: insetti e alghe). Alle manovre in corso
partecipano, oltre ai burattinai, Greta, Bergoglio e, da poco,
anche il
sindaco Sala autocandidato leader del nuovo partito
liberal-ambientalista
Sergio
Costa e l'orso M49: un caso politico illuminante (13.06.19)
Da due mesi la provincia di Trento ha chiesto l'autorizzazione a
catturare l'orso M49, autore di una serie di gravi predazioni (il
bestiame viene aggredito dentro le stalle anche in vicinanza di case
abitate). Il ministro Costa, un generale dei carabinieri forestali, da
sempre organico ai Verdi, non si preoccupa neppure di rispondere in
modo formale e comunque fa sapere che "non è opportuno" catturare il
plantigrado. Ne fa un arma della sua battaglia politica contro la Lega
e l'autonomia delle regioni del Nord
L'ambigua
cultura del bosco
(30.03.19)
L'ideologia del bosco ha radici plurime che si richiamano a una...
selva di simboli. Essa è capace di richiamare valori che si collocano
agli antipodi: libertà e autoritarismo, peccato e innocenza,
razionalità e irrazionalismo, individualismo e statalismo.
Come tutte
le suggestioni ambigue anche il richiamo apparentemente innocente
all'amore per il bosco è capace di suscitare un consenso manipolato.
Idolatria
boschiva: cosa c'è dietro? (24.03.19)
La superficie forestale ha superato nel 2018 quella agricola,
rappresenta il 40% del territorio nazionale contro l'11% del
1950.
L'Italia à dunque un paese ricco di boschi (di che qualità?) e gli
ambientalisti da salotto (ma anche tanti esperti con il paraocchi)
giubilano.
Ambientalismo,
neocolonialismo, capitalismo: violenza ed ecoingiustiziacontrogli
ultimi (23.02.19)
La gestione delle aree protette nei paesi ex-coloniali rappresenta
l'ambito nel quale è più evidente la continuità con il vecchio
colonialismo. In nome della tutela della natura le grandi
organizzazioni ambientalistiche gestiscono floridi business e non hanno
esitato a scacciare con l'inganno, a volte anche con la
violenza,
milioni di persone dalle loro sedi ancestrali.
Le
radici storiche e ideologiche del beceroanimalismo (09.12.18) L'Italia le
circostanze storico-sociali hannoprodotto
una cultura fortemente antirurale lontana anche dalla dimensione
naturale concreta. Nella realtà contemporanea su questo sfondo si è
sviluppato un animalismo ben poco ecologico, molto ideologico che
sconfina nel culto pagano e che reitera i cliché anticontadini
(30.06.15)Proseguiamo
la riflessione sul biocapitalismo e le ideologie ambientaliste
allargando la riflessione all'animalismo che in modo più esplicito e
violento nega il valore della vita umana. Esso si presenta come un
perfetto strumento per legittimare i paradigmi del nuovo biocapitalismo
in cui l'uomo diventa una merce da fabbricare e la vita umana può
essere rliminata senza particolari scrupoli (come e peggio che nei Gulag e
nei Lager)
L'imbroglio
ecologico (IV e ultima parte)
(09.12.13)Nella
storia di Legambiente si rispecchia un ambientalismo di regime,
apparato di controllo sociale e di "acculturazione" funzionale
alla greed economy turbocapitalista. Con un "pensiero
ecologico" debole
appiattito sulla modernità e l'ideologia scientista,
tecnocratica.
Centralismo comunista accoppiato con i meccanismi delle
corporation. Ma
il dissenso cresce.
L'imbroglio
ecologico (parte III)
(02.12.2013)Dalla
critica al capitalismo della prima ecologia politica alla
partecipazione all'affarismo della green economy. L'ambientalismo, nel
solco del progressismo illuminista, come supporto ideologico
e
cosmetico al biocapitalismo dello sfruttamento integrale
L'imbroglio
ecologico (parte II)
(16.11.2013) La
nascita dell'ambientalismo come movimento sociale negli anni '80. I
condizionamenti sulla nascita del movimento ambientalista del travaso
dell' "eccesso di militanza" dalla "sinistra rivoluzionaria" e
dell'egemonia culturale del PCI. La divaricazione tra localismo e
ambientalismo quale occasione mancata. La necessità di andare oltre la
sinistra (e la destra) per recuperare spazi di autonomia sociale
L'imbroglio
ecologico (ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali nell'era del
capitalismo neoliberista)(I)
(07.11.2013)Oggi
l' ambientalismo è la proiezione della Green economy capitalista e i
movimenti devono imboccare con coraggio nuove strade, oltre la sinistra
e la destra e oltre l'ambientalismo per una nuova autonomia dei
soggetti e delle comunità popolari. L'imbroglio ecologico è finito
perché il ruolo dell'ambientalismo istituzionale è palesemente di
controllo sociale. Prima parte di un ampio contributo che ripercorre la
storia dei rapporti tra ambientalismo, sinistra, capitalismo e
movimenti sociali dai primordi del movimento ambientalista ad
oggi.
Dalla
tecnocrazia alla scienza comunitaria (III)
(02.01.13)La
tecnocrazia ha imposto un modello di scientificizzazione della politica
che svuota la democrazia. Si è imposta anche nella forma di "ecopotere"
con il pretesto della "tutela della natura dall'uomo". La riduzione del
rischio presuppone però una strada diversa, quella di
una scienza
civica e comunitaria e più ampi spazi di democrazia
Ripensare
la relazione tra la natura e la società (II)
(02.01.13) L'affermazione
di una gestione partecipata dei problemi ambientali e delle risorse è
indispensabile per fronteggiare crescenti rischi e la tendenza
tecnocratica a concentrare decisioni con pesanti implicazioni sociali
nelle mani di pochi e sulla base di incerti presupposti scientifici.
Per muoversi in questa direzione, però, è necessaria una profonda
revisione di alcuni fondamenti ideologici della modernità e della
"civiltà occidentale" e dello stesso ruolo della scienza. Oltre
l'ambientalismo istituzionale crescono nuove reti (I)
(01.12.12)
Da una ventina di anni in qua sta emergendo un post-ecologismo "di
base" non ideologico che opera nella dimensione del monitoraggio
ambientale e della stessa gestione sostenibile e partecipata delle
risorse