Un alpeggio dove si arriva solo a piedi, dove il latte si lavora in baite 'storiche', gestito da una coppia unita dalla passione per l'alpeggio, lei casara 'fliglia d'arte', lui giovane ed orgoglioso caricatore d'alpe che ha fatto la gavetta, fermo come una roccia sulle sue convinzioni, propugnatore dell'arte
del pascolamento e del ritorno alla Bruna alpina. Sembra una storia abilmente costruita per mitizzare una realtà. Ma è vera. Un invito caloroso a tutti a farsi una bella camminata e ad andare a conoscere Alfio e Sonia che vi accoglieranno come amici anche se non vi conoscono
L’alpe Cavisciöla si trova in
alta val Brembana, appena al di là (in prospettiva valtellinese) della cresta
orobica. All’alpe, che ha un piede a 1.400 m e una cima a 2.200 m, si arriva
solo a piedi. Si lascia l’auto ai piedi della salita per il Passo di San Marco, presso il Rifugio Madonna delle Nevi [1]. A Cavisciöla mi sono recato il 22 luglio per trovare Alfio Sassella (classe 1970) e Sonia Marioli (classe 1977). Due personaggi importanti nell'ambito dei 'ribelli del Bitto'. Andarli ad intervistare mi serviva per completare il profilo dei ribelli stessi per portare a termine il mio libro che si intitola, per l'appunto "I ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa eversiva.
Slow Food editore" (sarà presentato a Cheese, a Bra, il 17 settembre).
Percorsa la valle, costeggiando il torrente, si arriva al Pra del Muto (1.490
m); qui ha termine lo sterrato ‘gippabile’. È il piede dell’alpeggio da dove i
materiali (viveri, legna da ardere) salgono con una teleferica sino alle Casere
di Cavisciöla (1.800 m), da dove scendono il Bitto e la maschèrpa. Il sentiero 111, abbastanza ben tracciato con i classici
segnavia di continuità in vernice bianca e rossa, però, compie un ampio giro
che consente di salire alle Casere con pendenze relativamente modeste.
Inizialmente piega a sud salendo in una abetaia. Quando l’abetaia lascia il posto
al lariceto piega a ovest e, con lievependenza, conduce alla Casera Siltri [2].
Si tratta dell’alpeggio confinante con
Cavisciöla, dove incontro solo bestiame giovane e asciutto confinato in un recinto elettrico (foto sopra). Alfio Sassella, poi
mi spiegherà che le mucche da latte restano in basso, alimentate con grandi
quantità di mangime. “Davano 9-10 kg di mangime, poi hanno preso a dare anche i
misceloni [3];
così, alla fine, dopo anni di questo andazzo, sono stati fatti uscire dal
Consorzio C.t.c.b.”. Dalla Casera Siltri (1.724
m) alla Casera di Cavisciöla (1.792) il sentiero è quasi sempre in piano e si
può approfittarne per ammirare il panorama. In lontananza la Casera si
distingue per il colore rugginoso delle coperture di lamiera.
Con la mole del
monte Azzaredo alle spalle, immersa nella distesa di erba verde brillante, la Casera (foto sopra) ha
l’aria di quelle casette nordiche dai tetti rossi sullo sfondo di grandiosi e
quasi deserti paesaggi al tempo stesso marini e alpini. Alla Casera non c’è
nessuno. Bisogna scendere qui tutti i giorni con il cavallo per portare il Bitto e
depositarlo e a salare il formaggio (un gorno si e uno no), ma si vede che sono già venuti. Le tracce dei ferri dei cavalli, però,
sono ben evidenti sul sentiero che sale verso l’alto. Così le seguo. Il sentiero
ora è il n. 101. Si procede in costa alla montagna salendo dolcemente. Un punto
di riferimento è il laghetto (toponimo un po' pretenzioso) di Cavizzola, un
piccolo specchio alimentato da polle in mezzo a massi ciclopici. Qui i segni di
un recente pascolamento sono recenti. Disposti lungo la linea di massima
pendenza file di paletti di legno piantati nel terreno indicano un sistema di
pascolo molto ben gestito per mettere a disposizione della mandria quel tanto
che può utilizzare senza eccessivi sprechi. In questa regolarità di
allineamenti si nota la firma di un alpeggiatore esperto e appassionato che vuole
‘mangiare’ al meglio il suo ‘monte’ [4].
In lontananza si scorgono una recinzione e sagome di mucche che dominano la valle.
Più in basso una baita che ha tutta l’aria di essere abitata (foto sotto nel cerchietto).
Sono i secchi e i
bidoncini del latte luccicanti che, in lontananza, mi confermano che la meta, a
questo punto, è sicura. Li troverò i
miei amici. Alla baita, che ha anche un toponimo (Baita Piedevalle) e che si
trova a quota 1.944 m, si arriva in discesa. Ora si vede la porta aperta e il
fumo. Poco prima di arrivare alla baita Alfio, che arriva anche lui dall’alto,
dove si trova la malga [5], mi
chiama e ci salutiamo.
Entrati nella piccola baita salutoSonia.
La lavorazioe è già finita da un po'. Sul spresür (il tavolino di legno inclinato che raccoglie il siero che sgronda e lo lascia colare in un mastelletto sottostante) sono appoggiati due grossi cestelli di palstica traforata con la maschèrpa (ricotta grassa) e una forma di Bitto storico.
Ci sono anche due cascìn [6]. Quella
del cascìn è un’istituzione quasi del
tutto scomparsa. Un tempo erano numerosi sul monte. Le famiglie avevano tutto
l’interesse ad avviare all’alpeggio i ragazzini già all’età di 9-10 anni. Se
non altro il periodo dell’alpeggio consentiva di ridurre le bocche da sfamare.
I cascìn ricevevano compensi molto
miseri: oltre al vitto (parco) e all’alloggio (molto spartano) alla fine
potevano portarsi via una maschèrpa
stagionata (due se erano stati ligi ai loro doveri). Oggi si trovano ben pochi cascìn sui monti del Bitto. Un tempo era
l’esigenza di alleggerire il numero di bocche da sfamare (almeno per tre mesi
in estate) che spingeva i genitori a inviare in alpeggio i ragazzini di 9-10
anni. Non ci andavano di loro volontà. Oggi chi fa il cascìnlo fa per vocazione, presi dalla ‘malattia’ dell’alpeggio.
Unavolta erano obbligati dalle famiglie, oggi, al contrario, devono spesso
superare il veto dei genitori preoccupati della vita dura. Alfio e Sonia hanno ricevuto dal papà di Sonia e da altri ‘maestri’ (pastori e casari) una
serie di conoscenze tradizionali sul mondo del Bitto e dell’alpeggio che ne
fanno a loro volta dei maestri per i giovanissimi. Il più grande dei cascìn è Alessandro,
14 anni, di Talamona come Alfio e Sonia.
È uno dei figli di Mario Ciaponi che 1999 ha cercato di rientrare nel circuito
dei caricatori partecipando senza successo all’asta per l’alpe Pedena che
l’Istituto del sostentamento del clero di Como ha preferito concedere in
affitto alla strana cordata costituita da: Comune di Albaredo, Parco delle
Orobie valtellinesi, C.t.c.b. e Latteria sociale Valtellina di Delebio. Alessandro è al suo secondo anno a Cavizzola ma ci tiene
a far sapere che “vado in alpeggio da quando ho nove anni”. Speriamo che, prima
o poi, possa gestire un ‘suo’ alpeggio con il padre e i fratelli. Con l’altro
ragazzo, più giovane, non ho modo di parlare perché la conversazione con Alfio
e Sonia ‘ parte’ in varie direzioni.
A differenza di altri personaggi del gruppo dei ribelli che parlano con parsimonia, Alfio, ma ancheSonia, non si fanno pregare. I due si conoscono da bambini e sono fidanzati da quasi dieci anni. A Cavisciöla Alfio viene ormai da quattordici
anni, Sonia da otto, da quando il padre ad alpeggio iniziato decise di venire via perché la proprietà non aveva eseguito i lavori pattuiti. Da allora Alfio, che faceva già il casaro da qualche anno cedette alla fidanzata l’onere e l’onore della caseificazione Alfio, non ancora caricatone in proprio, alla fondazione dell’Associazione produttori valli del Bitto era stato nominato consigliere eha seguito da vicino e con passione le vicende che hanno contrapposto l'Associazione stessa al Consorzio. “L’ultimo
anno prima che ce ne andassimo [la rottura è del 2005] le discussioni sono state
accese. Da una parte ci davano contro, dal’altra erano gli stessi produttori
delle altre valli a lamentarsi
del fatto che il Bitto marchiato venisse pagato tredici mila lire il chilo,
il prezzo al quale in precedenza vendevano il formaggio semigrasso d’alpe. Ma
oltre al formaggio vendevano anche il burro...”. Allora Alfio ribatté: “Ma perché non siete andati avanti a fare i prodotti di
prima, perché volete fare Bitto?” .
In realtà non solo si era ampliata la zona di produzione ad
aree dove non c’era nessuna tradizione di produzione del Bitto ma si erano
anche incitati i produttori a ‘spingere’. “Fatene tanto, ci dicevano, c’è
bisogno di avere i numeri”. Per Alfio il crollo della qualità (e dei prezzi) del
Bitto è legato sia alla tendenza a “farne tanto” che alla
mancanza di tradizione produttiva delle aree dove se ne è intrapresa la produzione senza che sussistesse la minima tradizione.
Guido (classe 1933), il papà di Sonia.
È stato tra i fondatori dell’Associazione produttori valli del Bitto. Era un
casaro professionista che aveva trasmesso alla figlia, sin da tenera età, la
passione e la tecnica necessarie per fare Bitto. Egli era stato ‘inviato’ insieme ad altri
casari a ‘insegnare’ a fare Bitto in
altre valli. Alfio, a cui il padre della fidanzata deve aver raccontato tutti i
dettagli di quella esperienza, racconta come in Val Malenco, all’alpe Prabello
“non c’erano alpeggio, ma una specie di villaggio dove si faceva il formaggio
come a casa”. Una differenza
incommensurabile - agli occhi di Alfio – rispetto alla realtà delle valli del
Bitto: “tiravano su la cagliata con le mani e per romperla usavano un ramo”.
“Anche i bergamaschi, però, - nell’esperienza di Alfio [7] - non
avevano l’idea del casaro ‘fisso’: “ci mettono un po’ tutti le mani, alla bersagliera.
Uno mescola, l’altro accende il fuoco, l’altro tira su la cagliata; come
capita. Quando ho iniziato a fare io il formaggio è capitato che un pastore
bergamasco ha messo le mani nella mia caldaia. Ho bestemmiato”. Tutt’altra cosa
nelle valli del Bitto e val Tartano. “Da noi il casaro era venerato; non solo
in alpeggio, anche giù in paese, come il prete e il sindaco, eranospecializzati, maestri”.
Secondo Alfio, però, è stato tutto quello spingere a produrre di più che ha rovinato il Bitto (del C.t.c.b.). “Ci sono alpeggi,
anche qui nei dintorni che in una stagione producono 600 q.li di latte; ancora
a fine agosto usano la caldaia grande da cinque quintali”. Usano tanto mangime.
Poi, qualche volta, chi esagera (come nel caso dell’alpeggio vicino già citato)
viene fatto uscire dalla Dop. “A noi ci hanno accusato di essere trogloditi,
retrogradi, vantandosi di produrre il doppio di noi, però conosco gente che in
una stagione ha speso tra viaggi dell’elicottero e il mangime 25 mila euro. Con
solo cinquanta vacche, ovviamente pompate di mangime”. La polemica di Alfio
coglie anche l’altro aspetto: il prezzo “Poi il prezzo è sceso a 7-7,5 € al kg,
ho visto io le fatture due anni fa”.
Alfio non si sottrae certo alle polemiche, a differenza di
altri ribelli più ‘vecchio stampo’ che condividono sino in fondo la linea del
Bitto storico ma non amano esporsi e ‘battagliare’ per una forma di pudore.
Per Alfio la bandiera del Bitto storico e della ribellione è
intimamente legata alla sua identità personale. Questo per almeno due motivi: il primo
è che Alfio non discende da una dinastia di alpeggiatori anche se la famiglia
risiede a Talamona da diverse generazioni [8]. Alfio si è fatto da solo, come pastore,
casaro, caricatore “In val Tartano, a Pedena [con il papà diSonia], ad Azzaredo, a Terzera [alpeggi nei dintorni
di Cavizzola] e poi qui”. Forse proprio il fatto che Alfio non appartenesse a
una dinastia l’ha spinto ad impegnarsi
ancora di più a costruirsi, consapevolmente, l’identità di caricatore d’alpe
‘tradizionale’ in sintonia con il suocero. C’è però un altro aspetto della storia di Alfio in grado di
spiegare la sua grande determinazione e la sua posizione di ribelle
‘militante’: la vicenda dell’azienda F.lli Sassella. Per qualche anno Alfio ha
collaborato con il fratello Alex. Alfio curava la stalla e in estate prendeva
le bestie e saliva in alpeggio mentre Alex gestiva l’agriturismo con tanto di
caseificio aziendale e la distribuzione del latte crudo con i dispositivi
automatici. “Alex voleva passare alla Frisona, mentre io puntavo nella direzione opposta, quella del recupero della Bruna
alpina originale; voleva mettere il
robot di mungitura e aveva in mente di vendere tutto il latte con i
distributori automatici”. Fedele alla sua mentalità Alfio racconta che: “quando ci
siamo separati ho scelto le vacche migliori e ho lasciato tutto il resto a mio
fratello”. In ogni caso il nostro amico sa quello che vuole: ha dovuto
affittare delle stallette per tenere i suoi animali ma ora sta costruendo una
stalla nuova “a posta fissa, come le stalle tradizionali, ma con un sistema
moderno che consente alla mucca un grande movimento”. La nuova ditta è intestata
alla fidanzata.
A questo punto interviene Sonia : “Mio papà è morto lo scorso anno; se avesse saputo che facevamo una stalla
nuova avrebbe fatto i salti di gioia”; poi prosegue: “Ho iniziato a quattro
anni ad andare in alpeggio con il papà, ma andavo a vedere come lavorava anche
quando in inverno faceva il casaro per la latteria a Talamona; lo ha fatto anche a Piagno, Regoledo, Cosio,
anche in Svizzera”. “Siamo stati vent’anni all’alpe Pedena nella valle del
Bitto di Albaredo ma in precedenza i miei caricavano in val Tartano, all’alpe
Torrenzuolo; ci andava mio nonno”. Sonia
non si ricorda bene a che età a iniziato a fare il Bitto ma è abbastanza
sorprendente sentire da questa ragazza di 34 anni che “sarà quasi vent’anni”.
Sulla graduale assunzione del ruolo di casara Sonia aggiunge particolari che gli altri
protagonisti della nostra storia non ci avevano descritto: “Si passa per dei
gradi successivi: prima ti fanno fare la maschèrpa,
poi impari a tenere su la grana, poi a tirare su la cagliata e così via, finché
alla fine sei in grado di fare tutto da solo”. Alfio, invece, non è cresciuto
nell’ambiente dell’alpeggio ed è arrivato a lavorare da solo nel 1998 a
ventotto anni. “Mi sono sentito una grande responsabilità: all’inizio dellastagione dovevo lavorare ben quattordici quintali di latte”.
Il maestro diAlfio è stato il papà di Sonia. Sonia precisa che “Alfio e mio papà andavano
d’accordo perché sono molto tradizionalisti; io sono più moderna di Alfio, se
possibile mungerei anche a macchina”. Nel corso di questa intervista, molto
poco formale, c’è stato il tempo di mangiare un piatto di pasta cotta in un
paiolo sulle fiamma di legna viva (foto sopra). Il fumo è fastidioso, almeno per me. Come
pelare una cipolla, anche peggio. Agli
altri non pare dare alcun fastidio. “Quando il tempo è brutto il fumo va via”.
Ma per ora, purtroppo, splende il sole. La baita è identica a quelle del
passato: bassa e fumosa. Solo la copertura in lamiera rappresenta una relativa
modernità, peraltro con dei risvolti non positivi sull’isolamento termico e
sull’allontanamento del fumo. Il pavimento è un rozzo selciato; le pietre sono
saldamente incastrate tra loro ma la superficie è agli antipodi del concetto di
liscio prescritto dai canoni dell’igienismo. Sonia
ci scherza su: “certo che non è lavabile …”.
Al momento della colazione siamo in sette: oltre ai cascìn si è aggiunto un collaboratore
straniero e un amico di Talamona salito a far visita ad Alfio e Sonia. Le visite sono comuni. “Alla domenica c’è sempre su tanta gente che
ci viene a trovare”. Allora si fa la
polenta taragna (condita con il Bitto). Dopo la pasta non mancano Bitto e
salame. Il Bitto è di un mese ma non è solo dolce, è già aromatico. Di sicuro con
tutte le visite di amici e di gente che viene ad acquistare o prenotare il
Bitto non ci si deve sentire troppo isolati quassù. Al termine del pranzo i cascìn si mettono in branda. La zona
notte è un grande tavolato soppalcato (vedi le foto sopra) non separato dal resto della baita dove
si mangia, si fa il Bitto, si prepara la polenta o la pasta. Come una volta.
È il momento del riposo e,
per lasciare in pace chi vuole approfittarne, chiedo di andare a vederela malga. A poca distanza dalla baita Alfio mi fa vedere un calécc (il tipico 'caseificio diffuso' delle valli del Bitto e limitrofe. Lo ha restautato lui. "Ci sono in gito anche altri ruderi ma chissà da quando non sono più stati usati". Nell'alpe ci sono cinque baite più la casera e il piede, quindi non c'è bisogno di calécc che rappresentano un modello di alpicoltura intensiva
e razionale basato su decine di stazioni d'alpeggio. Il calécc reataurato è adibito a vitellaia (foto sopra).
A fianco del calécc c'è un masso coppellato. Alfio me ne fa vedere altri due nel raggio di pochi metri e mi informa che ci sono nell'alpeggio anche altre incisioni con croci.
Le mucche sono all’interno della recinzione elettrica, molto tranquille. Alfio va giustamente fiero del suo bestiame: “Su 45 capi ho 5 Brown [9], 5
Pezzate Rosse, una Grigia alpina; le altre sono, chi al 100%, chi al 50% Brune
originali svizzere [O.B. = Original Braunvieh]”.
Tutte hanno le corna ed Alfio è molto dispiaciuto che un torello, che ha acquistato di recente, ne sia privo. Poi mi fa vedere la manza che ha
potuto acquistare in Austria grazie alla donazione di un odontotecnicobrianzolo sostenitore dei ribelli (foto sotto al centro).
È figlia di uno dei migliori tori della razza O.B. sottolinea Alfio “Guarda le forme arrotondate, come è diversa da una Brown”.
La O.B. o ‘Bruna alpina originale’
che dir si voglia si presta anche alla produzione di carne (“Ingrasso tutti i
vitelli – dice Alfio – non ne vendo nessuno, con la nuova stalla vorrei aprire anche un punto vendita anche per la carne”).
La produzione di carne non è però lo scopo principale dell’operazione di Alex; da bravo ‘integralista’ desidera
un tipo di bovina da latte adatta all’alpeggio, forte di arti, tendini, unghioni;
provvista di un po’ di riserve corporee per ‘ammortizzare’ le condizionivariabili della vita sul pascolo alpino.
Transitando in un’area perfettamente piana (dove secoli fa era un lago) Alfio mi fa notare che: “Qui l’erba non è il
massimo perché il terreno è umido, ma le mucche non fanno fatica a pascolare e
hanno sempre l’acqua a disposizione, così la produzione di latte resta buona
nonostante l’erba di mediocre qualità. Poi, però, quando passano alla parcella
di pascolo successiva, con erba fine e sostanziosa, la produzione di latte
torna su come all’inizio della stagione”. Pendenze, qualità dell’erba, asperità
del terreno, distanza dai punti di abbeverata sono molto variabili da singola
area di pascolo ad un'altra. Aggiungasi che in caso di condizioni meteo
inclementi (vento forte, pioggia intensa, ma anche giornate calde) il
pascolamento è ostacolato. In queste condizioni le ‘macchine da latte’
subiscono le conseguenze delle brusche variazioni e ne deriva una condizione di
stress. Alfio, che pone nell’alpeggio il centro della sua attività (“Cerco di
fare più di 100 giorni di alpeggio”) resta (molto razionalmente) attaccato alla
tradizione. Quando ha introdotto le B.O. nella stalla (ancora in comune con il
fratello) i tecnici dell’Associazione allevatori erano scandalizzati “Vuoi
distruggere decenni di selezione, ma
non vedi che bestie grossolane che stai tirando dentro, stai tornando indietro”. “I vecchi contadini, però davano ragione a me” ricorda Alex con orgoglio. E pian piano la
sua scelta ‘controcorrente’, da ‘troglodita’ è oggetto di crescente interesse.“Per ora non vendo ancora manze, ma ho già parecchie richieste”. Mentre l'interessante conversazione procede ci dirigiamo verso la stazione d'alpeggio che verrà utilizzata dopo quella in uso.
Passiamo da un'area dove la genziana lutea pare seminata (foto sopra) e, subito dopo, ci si spalanca la visione della parte alta dell'alpeggio. "La baita più alta è a 2100 m, costrita trent'anni fa, ma le mucche per i canali erbosi salgono anche sulle cime a 2300 m". Ora appare più
chiaro perché Alfio non gradisce Holstein e Brown!
Nelle baita che sorge in un'ampia spianata erbosa (foto sotto) Alfio vuole verificare in che condizioni sia. Tra pochi giorni bisognerà sistemarla.
Con disappunto il nostro deve constatare che "le marmotte hanno fatto disastri". I pezzi di legna lasciati in ordine presso il focolare sono sparsi intorno (foto sotto).
La baita spoglia, pur con qualche oggetto lasciato dalla stagione precedente, appare desolatamente nuda. Nella foto sotto si vede bene il paièr, il tavolat-giacilio dei pastori. Ci si chiede come possono dormire tutti qui dentro. In effetti di fronte alla baia c'è un piccolo portico per
il ricovero degli animali. Una luce è stata tamponata ed è stata ricatata una stanza.
La giornata dell'alpeggiatore non conosce mai soste. Avevamo visto la malga delle capre in fase di riposo ai piedi di un ghiaione non distante dalla baia in uso. Alfio sa che le capre nel mentre noi esegiamo il nostro 'giro turistico' si sono spostate. Sono sul sentiero che porta già alla Casera. Intercettate
le spinge verso la baita. Lentamente in fila indiana le capre tagliando il pendio erboso si dirigopno docilmente dove il pastore le vuole portare (in vista della mungitura pomeridiana).
Poi si apprestano a superare un dosso roccioso che consente di arrivare direttamente alla baita senza salire per poi ridiscendere come fa il sentiero. Nella foto scatatta alle capre (sotto) finisce dentro - non me ne ero accorto - anche Alfio che mi saluta con la mano.
Non sono molti gli allevatori come Alex che non si lasciano intimidire dai ‘tecnici’, dagli ‘esperti’, dai ‘professori’. Alex ha saputo
difendere le sue idee ribelli all’ortodossia zootecnica e casearia perché è consapevole
del grande valore della tradizione del Bitto storico, una tradizione che ha
consapevolmente deciso di seguire meritandosi, con il suo impegno, la sua
passione, il suo ‘integralismo’ di ricevere il testimone dal padre di Sonia. Per tutto questo lo ammiro e sono fiero di avere amici come lui. Mentre Alfio
riporta la malga delle capre verso la baita e si prepara alla mungitura cui seguiranno i lavori serali dei recinti da rifare ecc. , io scendo a valle con la soddisfazione di aver ottenuto
ulteriore conferma dell’autenticità e della bellezza delle storie del Bitto
storico e dei ribelli nel suo nome.
Andate a trovare queste belle persone.