Ruralpini  

 

Fotoracconti/Alpe Cavisciöla

 

Home

Mi presento

Attualità

Alpeggi

Ruralismo

Osterie

Foto

Lin k

 

Condividi l'articolo su Facebook

:

Precedenti fotoracconti

Precedenti fotoracconti su Ruralpini

Val Seriana (BG)

Cantine (hilter) d'alpeggio. Monumenti minacciati  (Malga Valmezzana)

Festa delle malghe

Motocross in montagna: sport o vandalismo? Un problema non solo bergamasco

Valle Camonica (BS)

Festa della torchiatura a Cerveno

Malga Silter di Gianico Malghe Mortirolo

Case di Viso: bello perché vivo

Valtellina (SO)

Sostila: microcosmo ruralpino

Una storia in controtendenza: qualche volta gli alpeggi rinascono (Alpe Legnone)

(Aggiornamento Alpe Legnone)

Come nasce la maschèrpad'alpeggio delle Valli del Bitto

 Val San Giacomo (SO)

L'Alpe Andossi : due 'stili d'alpeggio' agli antipodi (ma comunque il bosco è stato fermato)

L'Alpe Laguzzolo torna a vivere con le capre di Barbara e Pietro

Alpe dei Piani e Dante Ambrosini classe 191

 Valli lariane (CO)

 I furmagitt de cavra del Miro (a Sala Comacina)

Una rinascita: Alpe Nesdale (Plesio)

Confronti deprimenti: Avert Possul e Alpe Giumello

Scargà l aalp (Alpe Graglio)

 

Valle Grana (CN)

Pastori e lupi: qual'è la razza in via di estinzione?

Valle Stura di Demonte (CN)

Gias Gardon: il lupo fa passare la voglia di fare i pastori

Valle Varaita (CN)

Festa dei marghè a Magliano Alpi e Fiero dei des a Bellino

Valle Pellice (CN)

Bricherasio: storie di giovani pastori. foto-videoracconto

Ossola (VB)

Capre ossolane e altro

Valle Strona (VB)

'A Forno c'erano 500 capre e a Luzzogno lo stesso' (Alpe Sass da Mur)

La Storia di due caprai, di una scrofa innamorata e di un gatto coraggioso (Alpe Balma)

Toni Lavarini sul suo alpeggio in Valstrona (anni '80)

Valle Anzasca (VB)

Adesso non ci passa più nemmeno il mulo (Alpe del Lago)

 La capretta che 'fa' il cagnolino (storia di un 'neo-insediamemento' agricolo)

Val Grande (VB)

Rosanna e Rolando: neomontanari che fanno agricoltura nella Val Grande (VCO), spacciata per 'la più grande area wilderness d'Europa'

Val Vigezzo (VB)

Alpe Basso: alla scoperta di una grande tradizione di formaggi misti (caprini e vaccini)

 

Lagorai (TN)

 Malga MontalonRoumiage de Setembre a Coumboscuro

 

 

 

(04.08.11) Visita ad un alpeggio dell'altra val Brembana che rappresenta un emblema di resistenza casearia, dove si trovano ancora i cascìn e la vera Bruna alpina

 

All'Alpe Cavisciöla, tra 'integralisti' del Bitto storico e mucche O.B.

di Michele Corti

Un alpeggio dove si arriva solo a piedi, dove il latte si lavora in baite 'storiche', gestito da una coppia unita dalla passione per l'alpeggio, lei casara 'fliglia d'arte', lui giovane ed orgoglioso caricatore d'alpe che ha fatto la gavetta,  fermo come una roccia sulle sue convinzioni, propugnatore dell'arte del pascolamento e del ritorno alla Bruna alpina. Sembra una storia abilmente costruita per mitizzare una realtà. Ma è vera. Un invito caloroso a  tutti a farsi una bella camminata e ad andare a conoscere Alfio e Sonia che vi accoglieranno come amici anche se non vi conoscono

 

 L’alpe Cavisciöla si trova in alta val Brembana, appena al di là (in prospettiva valtellinese) della cresta orobica.  All’alpe, che ha un piede a 1.400 m e una cima a 2.200 m, si arriva solo a piedi. Si lascia l’auto ai piedi della salita per il Passo di San Marco, presso il Rifugio Madonna delle Nevi [1].  A Cavisciöla mi sono recato il 22 luglio per trovare Alfio Sassella (classe 1970) e Sonia Marioli (classe 1977). Due personaggi importanti nell'ambito dei 'ribelli del Bitto'. Andarli ad intervistare mi serviva per completare il profilo dei ribelli stessi per portare a termine il mio libro che si intitola, per l'appunto "I ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa eversiva. Slow Food editore" (sarà presentato a Cheese, a Bra, il 17 settembre).

Percorsa la valle, costeggiando il torrente, si arriva al Pra del Muto (1.490 m); qui ha termine lo sterrato ‘gippabile’. È il piede dell’alpeggio da dove i materiali (viveri, legna da ardere) salgono con una teleferica sino alle Casere di Cavisciöla (1.800 m), da dove scendono il Bitto e la maschèrpa. Il sentiero 111, abbastanza ben tracciato con i classici segnavia di continuità in vernice bianca e rossa, però, compie un ampio giro che consente di salire alle Casere con pendenze relativamente modeste. Inizialmente piega a sud salendo in una abetaia. Quando l’abetaia lascia il posto al lariceto  piega a ovest e, con lievependenza, conduce alla Casera Siltri  [2].

 

 

Si tratta dell’alpeggio confinante con Cavisciöla, dove incontro solo bestiame giovane e asciutto confinato in un recinto elettrico (foto sopra). Alfio Sassella,  poi mi spiegherà che le mucche da latte restano in basso, alimentate con grandi quantità di mangime. “Davano 9-10 kg di mangime, poi hanno preso a dare anche i misceloni [3]; così, alla fine, dopo anni di questo andazzo, sono stati fatti uscire dal Consorzio C.t.c.b.”.  Dalla Casera Siltri (1.724 m) alla Casera di Cavisciöla (1.792) il sentiero è quasi sempre in piano e si può approfittarne per ammirare il panorama. In lontananza la Casera si distingue per il colore rugginoso delle coperture di lamiera.

 

 

Con la mole del monte Azzaredo alle spalle, immersa nella distesa di erba verde brillante, la Casera (foto sopra) ha l’aria di quelle casette nordiche dai tetti rossi sullo sfondo di grandiosi e quasi deserti paesaggi al tempo stesso marini e alpini. Alla Casera non c’è nessuno. Bisogna scendere qui tutti i giorni con il cavallo per portare il Bitto e depositarlo e a salare il formaggio (un gorno si e uno no), ma si vede che sono già venuti. Le tracce dei ferri dei cavalli, però, sono ben evidenti sul sentiero che sale verso l’alto. Così le seguo. Il sentiero ora è il n. 101. Si procede in costa alla montagna salendo dolcemente. Un punto di riferimento è il laghetto (toponimo un po' pretenzioso) di Cavizzola, un piccolo specchio alimentato da polle in mezzo a massi ciclopici. Qui i segni di un recente pascolamento sono recenti. Disposti lungo la linea di massima pendenza file di paletti di legno piantati nel terreno indicano un sistema di pascolo molto ben gestito per mettere a disposizione della mandria quel tanto che può utilizzare senza eccessivi sprechi. In questa regolarità di allineamenti si nota la firma di un alpeggiatore esperto e appassionato che vuole ‘mangiare’ al meglio il suo ‘monte’ [4].

In lontananza si scorgono una recinzione e sagome di mucche che dominano la valle. Più in basso una baita che ha tutta l’aria di essere abitata (foto sotto nel cerchietto).

 

 

Sono i secchi e i bidoncini del latte luccicanti che, in lontananza, mi confermano che la meta, a questo punto, è sicura.  Li troverò i miei amici. Alla baita, che ha anche un toponimo (Baita Piedevalle) e che si trova a quota 1.944 m, si arriva in discesa. Ora si vede la porta aperta e il fumo. Poco prima di arrivare alla baita Alfio, che arriva anche lui dall’alto, dove si trova la malga [5], mi chiama e ci salutiamo.

 

 

Entrati nella piccola baita salutoSonia. La lavorazioe è già finita da un po'. Sul spresür (il tavolino di legno inclinato che raccoglie il siero che sgronda e lo lascia colare in un mastelletto sottostante) sono appoggiati due grossi cestelli di palstica traforata con la maschèrpa (ricotta grassa) e una forma di Bitto storico.

 

 

Ci sono anche due cascìn [6]. Quella del cascìn è un’istituzione quasi del tutto scomparsa. Un tempo erano numerosi sul monte. Le famiglie avevano tutto l’interesse ad avviare all’alpeggio i ragazzini già all’età di 9-10 anni. Se non altro il periodo dell’alpeggio consentiva di ridurre le bocche da sfamare. I cascìn ricevevano compensi molto miseri: oltre al vitto (parco) e all’alloggio (molto spartano) alla fine potevano portarsi via una maschèrpa stagionata (due se erano stati ligi ai loro doveri). Oggi si trovano ben pochi cascìn sui monti del Bitto. Un tempo era l’esigenza di alleggerire il numero di bocche da sfamare (almeno per tre mesi in estate) che spingeva i genitori a inviare in alpeggio i ragazzini di 9-10 anni. Non ci andavano di loro volontà. Oggi chi fa il cascìnlo fa per vocazione, presi dalla ‘malattia’ dell’alpeggio.

 

 

Unavolta erano obbligati dalle famiglie, oggi, al contrario, devono spesso superare il veto dei genitori preoccupati della vita dura. Alfio e Sonia hanno ricevuto dal papà di Sonia e da altri ‘maestri’ (pastori e casari) una serie di conoscenze tradizionali sul mondo del Bitto e dell’alpeggio che ne fanno a loro volta dei maestri per i giovanissimi. Il più grande dei cascìn è Alessandro, 14 anni, di Talamona come Alfio e Sonia. È uno dei figli di Mario Ciaponi che 1999 ha cercato di rientrare nel circuito dei caricatori partecipando senza successo all’asta per l’alpe Pedena che l’Istituto del sostentamento del clero di Como ha preferito concedere in affitto alla strana cordata costituita da: Comune di Albaredo, Parco delle Orobie valtellinesi, C.t.c.b. e Latteria sociale Valtellina di Delebio. Alessandro è al suo secondo anno a Cavizzola ma ci tiene a far sapere che “vado in alpeggio da quando ho nove anni”. Speriamo che, prima o poi, possa gestire un ‘suo’ alpeggio con il padre e i fratelli. Con l’altro ragazzo, più giovane, non ho modo di parlare perché la conversazione con Alfio e Sonia ‘ parte’ in varie direzioni.

 

 

A differenza di altri personaggi del gruppo dei ribelli che parlano con parsimonia, Alfio, ma ancheSonia, non si fanno pregare. I due si conoscono da bambini e sono fidanzati da quasi dieci anni. A Cavisciöla Alfio viene ormai da quattordici anni, Sonia da otto, da quando il padre ad alpeggio iniziato decise di venire via perché la proprietà non aveva eseguito i lavori pattuiti. Da allora Alfio, che faceva già il casaro da qualche anno cedette alla fidanzata l’onere e l’onore della caseificazione Alfio, non ancora caricatone in proprio, alla fondazione dell’Associazione produttori valli del Bitto era stato nominato consigliere eha seguito da vicino e con passione le vicende che hanno contrapposto l'Associazione stessa al Consorzio.  “L’ultimo anno prima che ce ne andassimo [la rottura è del 2005] le discussioni sono state accese. Da una parte ci davano contro, dal’altra erano gli stessi produttori delle altre valli a lamentarsi  del fatto che il Bitto marchiato venisse pagato tredici mila lire il chilo, il prezzo al quale in precedenza vendevano il formaggio semigrasso d’alpe. Ma oltre al formaggio vendevano anche il burro...”. Allora Alfio ribatté: “Ma perché non siete andati avanti a fare i prodotti di prima, perché volete fare Bitto?” .

In realtà non solo si era ampliata la zona di produzione ad aree dove non c’era nessuna tradizione di produzione del Bitto ma si erano anche incitati i produttori a ‘spingere’. “Fatene tanto, ci dicevano, c’è bisogno di avere i numeri”. Per Alfio il crollo della qualità (e dei prezzi) del Bitto è legato sia alla tendenza a  “farne tanto” che alla mancanza di tradizione produttiva delle aree dove se ne è intrapresa la produzione senza che sussistesse la minima tradizione.

 

 

Guido (classe 1933), il papà di Sonia. È stato tra i fondatori dell’Associazione produttori valli del Bitto. Era un casaro professionista che aveva trasmesso alla figlia, sin da tenera età, la passione e la tecnica necessarie per fare Bitto.  Egli era stato ‘inviato’ insieme ad altri casari  a ‘insegnare’ a fare Bitto in altre valli. Alfio, a cui il padre della fidanzata deve aver raccontato tutti i dettagli di quella esperienza, racconta come in Val Malenco, all’alpe Prabello “non c’erano alpeggio, ma una specie di villaggio dove si faceva il formaggio come a casa”.  Una differenza incommensurabile - agli occhi di Alfio – rispetto alla realtà delle valli del Bitto: “tiravano su la cagliata con le mani e per romperla usavano un ramo”. “Anche i bergamaschi, però, - nell’esperienza di Alfio [7] - non avevano l’idea del casaro ‘fisso’: “ci mettono un po’ tutti le mani, alla bersagliera. Uno mescola, l’altro accende il fuoco, l’altro tira su la cagliata; come capita. Quando ho iniziato a fare io il formaggio è capitato che un pastore bergamasco ha messo le mani nella mia caldaia. Ho bestemmiato”. Tutt’altra cosa nelle valli del Bitto e val Tartano. “Da noi il casaro era venerato; non solo in alpeggio, anche giù in paese, come il prete e il sindaco, eranospecializzati, maestri”.

 

 

Secondo Alfio, però, è stato tutto quello spingere a produrre di più che ha rovinato il Bitto (del C.t.c.b.). “Ci sono alpeggi, anche qui nei dintorni che in una stagione producono 600 q.li di latte; ancora a fine agosto usano la caldaia grande da cinque quintali”. Usano tanto mangime. Poi, qualche volta, chi esagera (come nel caso dell’alpeggio vicino già citato) viene fatto uscire dalla Dop. “A noi ci hanno accusato di essere trogloditi, retrogradi, vantandosi di produrre il doppio di noi, però conosco gente che in una stagione ha speso tra viaggi dell’elicottero e il mangime 25 mila euro. Con solo cinquanta vacche, ovviamente pompate di mangime”. La polemica di Alfio coglie anche l’altro aspetto: il prezzo “Poi il prezzo è sceso a 7-7,5 € al kg, ho visto io le fatture due anni fa”.

Alfio non si sottrae certo alle polemiche, a differenza di altri ribelli più ‘vecchio stampo’ che condividono sino in fondo la linea del Bitto storico ma non amano esporsi e ‘battagliare’ per una forma di pudore.

Per Alfio la bandiera del Bitto storico e della ribellione è intimamente legata alla sua identità personale. Questo per almeno due motivi: il primo è che Alfio non discende da una dinastia di alpeggiatori anche se la famiglia risiede a Talamona da diverse generazioni [8].   Alfio si è fatto da solo, come pastore, casaro, caricatore “In val Tartano, a Pedena [con il papà diSonia], ad Azzaredo, a Terzera [alpeggi nei dintorni di Cavizzola] e poi qui”. Forse proprio il fatto che Alfio non appartenesse a una dinastia l’ha spinto ad impegnarsi ancora di più a costruirsi, consapevolmente, l’identità di caricatore d’alpe ‘tradizionale’ in sintonia con il suocero.  C’è però un altro aspetto della storia di Alfio in grado di spiegare la sua grande determinazione e la sua posizione di ribelle ‘militante’: la vicenda dell’azienda F.lli Sassella. Per qualche anno Alfio ha collaborato con il fratello Alex. Alfio curava la stalla e in estate prendeva le bestie e saliva in alpeggio mentre Alex gestiva l’agriturismo con tanto di caseificio aziendale e la distribuzione del latte crudo con i dispositivi automatici. “Alex voleva passare alla Frisona, mentre io puntavo nella direzione opposta, quella del recupero della Bruna alpina originale; voleva mettere il robot di mungitura e aveva in mente di vendere tutto il latte con i distributori automatici”. Fedele alla sua mentalità Alfio racconta che: “quando ci siamo separati ho scelto le vacche migliori e ho lasciato tutto il resto a mio fratello”. In ogni caso il nostro amico sa quello che vuole: ha dovuto affittare delle stallette per tenere i suoi animali ma ora sta costruendo una stalla nuova “a posta fissa, come le stalle tradizionali, ma con un sistema moderno che consente alla mucca un grande movimento”. La nuova ditta è intestata alla fidanzata.

 

 

A questo punto  interviene Sonia : “Mio papà è morto lo scorso anno; se avesse saputo che facevamo una stalla nuova avrebbe fatto i salti di gioia”; poi prosegue: “Ho iniziato a quattro anni ad andare in alpeggio con il papà, ma andavo a vedere come lavorava anche quando in inverno faceva il casaro per la latteria a Talamona;  lo ha fatto anche a Piagno, Regoledo, Cosio, anche in Svizzera”. “Siamo stati vent’anni all’alpe Pedena nella valle del Bitto di Albaredo ma in precedenza i miei caricavano in val Tartano, all’alpe Torrenzuolo; ci andava mio nonno”. Sonia non si ricorda bene a che età a iniziato a fare il Bitto ma è abbastanza sorprendente sentire da questa ragazza di 34 anni che “sarà quasi vent’anni”. Sulla graduale assunzione del ruolo di casara Sonia aggiunge particolari che gli altri protagonisti della nostra storia non ci avevano descritto: “Si passa per dei gradi successivi: prima ti fanno fare la maschèrpa, poi impari a tenere su la grana, poi a tirare su la cagliata e così via, finché alla fine sei in grado di fare tutto da solo”. Alfio, invece, non è cresciuto nell’ambiente dell’alpeggio ed è arrivato a lavorare da solo nel 1998 a ventotto anni. “Mi sono sentito una grande responsabilità: all’inizio dellastagione dovevo lavorare ben quattordici quintali di latte”.

Il maestro diAlfio è stato il papà di Sonia. Sonia precisa che “Alfio e mio papà andavano d’accordo perché sono molto tradizionalisti; io sono più moderna di Alfio, se possibile mungerei anche a macchina”. Nel corso di questa intervista, molto poco formale, c’è stato il tempo di mangiare un piatto di pasta cotta in un paiolo sulle fiamma di legna viva (foto sopra). Il fumo è fastidioso, almeno per me. Come pelare una cipolla,  anche peggio. Agli altri non pare dare alcun fastidio. “Quando il tempo è brutto il fumo va via”. Ma per ora, purtroppo, splende il sole. La baita è identica a quelle del passato: bassa e fumosa. Solo la copertura in lamiera rappresenta una relativa modernità, peraltro con dei risvolti non positivi sull’isolamento termico e sull’allontanamento del fumo. Il pavimento è un rozzo selciato; le pietre sono saldamente incastrate tra loro ma la superficie è agli antipodi del concetto di liscio prescritto dai canoni dell’igienismo. Sonia ci scherza su: “certo che non è lavabile …”.

Al momento della colazione siamo in sette: oltre ai cascìn si è aggiunto un collaboratore straniero e un amico di Talamona salito a far visita ad Alfio e Sonia. Le visite sono comuni.  “Alla domenica c’è sempre su tanta gente che ci viene a trovare”.  Allora si fa la polenta taragna (condita con il Bitto). Dopo la pasta non mancano Bitto e salame. Il Bitto è di un mese ma non è solo dolce, è già aromatico. Di sicuro con tutte le visite di amici e di gente che viene ad acquistare o prenotare il Bitto non ci si deve sentire troppo isolati quassù. Al termine del pranzo i cascìn si mettono in branda. La zona notte è un grande tavolato soppalcato (vedi le foto sopra) non separato dal resto della baita dove si mangia, si fa il Bitto, si prepara la polenta o la pasta. Come una volta.

 

 

È il momento del riposo e,  per lasciare in pace chi vuole approfittarne, chiedo di andare a vederela malga. A poca distanza dalla baita Alfio mi fa vedere un calécc (il tipico 'caseificio diffuso' delle valli del Bitto e limitrofe. Lo ha restautato lui. "Ci sono in gito anche altri ruderi ma chissà da quando non sono più stati usati". Nell'alpe ci sono cinque baite più la casera e il piede, quindi non c'è bisogno di calécc che rappresentano un modello di alpicoltura intensiva e razionale basato su decine di stazioni d'alpeggio. Il calécc reataurato è adibito a vitellaia (foto sopra).

 

 

A fianco del calécc c'è un masso coppellato. Alfio me ne fa vedere altri due nel raggio di pochi metri e mi informa che ci sono nell'alpeggio anche altre incisioni con croci.

 

 

Le mucche sono all’interno della recinzione elettrica, molto tranquille. Alfio va giustamente fiero del suo bestiame: “Su 45 capi ho 5 Brown [9], 5 Pezzate Rosse, una Grigia alpina; le altre sono, chi al 100%, chi al 50% Brune originali svizzere [O.B. = Original Braunvieh]”. 

 

 

Tutte hanno le corna ed Alfio è molto dispiaciuto che un torello, che ha acquistato di recente, ne sia privo. Poi mi fa vedere la manza che ha potuto acquistare in Austria grazie alla donazione di un odontotecnicobrianzolo sostenitore dei ribelli  (foto sotto al centro).

 

 

È figlia di uno dei migliori tori della razza O.B. sottolinea Alfio “Guarda le forme arrotondate, come è diversa da una Brown”. La O.B. o ‘Bruna alpina originale’ che dir si voglia si presta anche alla produzione di carne (“Ingrasso tutti i vitelli – dice Alfio – non ne vendo nessuno, con la nuova stalla vorrei aprire anche un punto vendita anche per la carne”).

 

 

La produzione di carne non è però lo scopo principale dell’operazione di Alex; da bravo ‘integralista’ desidera un tipo di bovina da latte adatta all’alpeggio, forte di arti, tendini, unghioni; provvista di un po’ di riserve corporee per ‘ammortizzare’ le condizionivariabili della vita sul pascolo alpino.

 

 

Transitando in un’area perfettamente piana (dove secoli fa era un lago) Alfio mi fa notare che: “Qui l’erba non è il massimo perché il terreno è umido, ma le mucche non fanno fatica a pascolare e hanno sempre l’acqua a disposizione, così la produzione di latte resta buona nonostante l’erba di mediocre qualità. Poi, però, quando passano alla parcella di pascolo successiva, con erba fine e sostanziosa, la produzione di latte torna su come all’inizio della stagione”. Pendenze, qualità dell’erba, asperità del terreno, distanza dai punti di abbeverata sono molto variabili da singola area di pascolo ad un'altra. Aggiungasi che in caso di condizioni meteo inclementi (vento forte, pioggia intensa, ma anche giornate calde) il pascolamento è ostacolato. In queste condizioni le ‘macchine da latte’ subiscono le conseguenze delle brusche  variazioni e ne deriva una condizione di stress. Alfio, che pone nell’alpeggio il centro della sua attività (“Cerco di fare più di 100 giorni di alpeggio”) resta (molto razionalmente) attaccato alla tradizione. Quando ha introdotto le B.O. nella stalla (ancora in comune con il fratello) i tecnici dell’Associazione allevatori erano scandalizzati “Vuoi distruggere decenni di selezione, ma non vedi che bestie grossolane che stai tirando dentro, stai tornando indietro”.  “I vecchi contadini, però davano ragione a me”  ricorda Alex con orgoglio. E pian piano la sua scelta ‘controcorrente’, da ‘troglodita’ è oggetto di crescente interesse.“Per ora non vendo ancora manze, ma ho già parecchie richieste”. Mentre l'interessante conversazione procede ci dirigiamo verso la stazione d'alpeggio che verrà utilizzata dopo quella in uso.

 

 

Passiamo da un'area dove la genziana lutea pare seminata (foto sopra) e, subito dopo, ci si spalanca la visione della parte alta dell'alpeggio. "La baita più alta è a 2100 m, costrita trent'anni fa, ma le mucche per i canali erbosi salgono anche sulle cime a 2300 m". Ora appare più chiaro perché Alfio non gradisce Holstein e Brown!

 

 

Nelle baita che sorge in un'ampia spianata erbosa (foto sotto) Alfio vuole verificare in che condizioni sia. Tra pochi giorni bisognerà sistemarla.

 

 

Con disappunto il nostro deve constatare che "le marmotte hanno fatto disastri". I pezzi di legna lasciati in ordine presso il focolare sono sparsi intorno (foto sotto).

 

 

La baita spoglia, pur con qualche oggetto lasciato dalla stagione precedente, appare desolatamente nuda. Nella foto sotto si vede bene il paièr, il tavolat-giacilio dei pastori. Ci si chiede come possono dormire tutti qui dentro. In effetti di fronte alla baia c'è un piccolo portico per il ricovero degli animali. Una luce è stata tamponata ed è stata ricatata una stanza.

 

 

La giornata dell'alpeggiatore non conosce mai soste. Avevamo visto la malga delle capre in fase di riposo ai piedi di un ghiaione non distante dalla baia in uso. Alfio sa che le capre nel mentre noi esegiamo il nostro 'giro turistico' si sono spostate. Sono sul sentiero che porta già alla Casera.  Intercettate le spinge verso la baita. Lentamente in fila indiana le capre tagliando il pendio erboso  si dirigopno docilmente dove il pastore le vuole portare (in vista della mungitura pomeridiana).

 

 

Poi si apprestano a superare un dosso roccioso che consente di arrivare direttamente alla baita senza salire per poi ridiscendere come fa il sentiero. Nella foto scatatta alle capre (sotto) finisce dentro - non me ne ero accorto - anche Alfio che mi saluta con la mano.

 

 

Non sono molti gli allevatori come Alex che non si lasciano intimidire dai ‘tecnici’, dagli ‘esperti’, dai ‘professori’. Alex ha saputo difendere le sue idee ribelli all’ortodossia zootecnica e casearia perché è consapevole del grande valore della tradizione del Bitto storico, una tradizione che ha consapevolmente deciso di seguire meritandosi, con il suo impegno, la sua passione, il suo ‘integralismo’ di ricevere il testimone dal padre di Sonia. Per tutto questo lo ammiro e sono fiero di avere amici come lui. Mentre Alfio riporta la malga delle capre verso la baita e si prepara alla mungitura cui seguiranno i lavori serali dei recinti da rifare ecc. , io scendo a valle con la soddisfazione di aver ottenuto ulteriore conferma dell’autenticità e della bellezza delle storie del Bitto storico e dei ribelli nel suo nome.

Andate a trovare queste belle persone.

 

 

 

1 - Anche se moderna (risale al XIX secolo) la chiesetta della Madonna delle Nevi in località Ponte dell’Acqua di Mezzoldo, fu edificata per gli stessi scopi per i quali nel XVII secolo, nella valsassinese val Biandino (sulla via del Bitto), venne edificato l’omonimo Santuario: non far mancare ai malghesi transumanti che affollavano gli alpeggi della zona la possibilità di ricevere l’eucaristia. È probabile che la ‘Madonna delle Nevi’ rappresenti una trasposizione della ‘bianca dea’ celtica; quella Brigit (Belisama) che tra Valsassina e alta val Brembana continuò ad essere celebrata sotto le sembianze, alquanto trasparenti, di Santa Brigida di Kildare. torna su

-Siltri è sinonimo di ‘casera’, ‘cantina’; dal bergamasco e bresciano ‘Silter’ = locale a volta, cantina. Con evidenti assonanze con l’inglese ‘shelter’ (luogo protetto, riparo). torna su

3 - Vengono definiti‘misceloni’ degli alimenti ‘completi’ per il bestiame che contengono oltre a materie prime ricche di proteine ed energia anche foraggi e sottoprodotti trinciati ricchi di fibra. Con i ‘misceloni’ gli animali non hanno più bisogno di nulla (tranne un po’ di fibra lunga per favorire la ruminazione). Assumendo già molta fibra con il ‘miscelone’ la capacità d’ingombro del rumine è saturata e non c’è posto per l’erba di pascolo. I misceloni sono adottati da chi ha interesse a mantenere le mucche da latte presso i fabbricati per non dover suddividere il pascolo in lotti con le recinzioni elettriche e per evitare la ‘seccatura’ di dover radunare la mandria e trasferirla dai pascoli alla mungitura. È ovviamente un finto alpeggio. torna su

4 - Con significato di alpeggio (muunt nella parlata locale). torna su

5 - La ‘malga’ da queste parti ha sempre valore di ‘mandria di mucche o capre da latte radunate al pascolo’. torna su

6 - Pastorelli, ragazzi che a 9-10 anni era iniziati all'alpeggio con compiti di sorveglianza del bestiame. torna su

7 - La relativa ‘decadenza’ del caseificio d’alpeggio bergamasco, in contrasto con una gloriosa tradizione secolare, è avvenuta dopo la prima guerra mondiale in relazione con la fissazione dei malghesi transumanti alle basse. torna su

8 - Il cognome Sassella rivela una lontana discendenza – che risale al bisnonno di Alfio – da Grosio in alta Valtellina. torna su

9 - Brown Swiss = razza internazionale formatisi negli Usa a partire dalla fine dell’Ottocento e poi esportata in Europa dove ha quasi del tutto sostituito la Bruna di origine svizzera. La Brown ha caratteri più spiccatamente lattiferi ed è di colore molto più chiaro dell’originale. torna su

 

 

           

 

pagine visitate dal 21.11.08

Contatore sito counter customizable
View My Stats commenti, informazioni? segnalazioni scrivi

 Creazione/Webmaster Michele Corti