Ruralpini>Ruralismo>Graffiti>Denominazioni: protette o no?

Denominazioni “protette” e “non protette”: dalla padella alla brace?

 

Pubblicato in: Caseus, Arte e cultura del formaggio, anno XIII (2008), n.5, pp. 19-20 (Settembre-Ottobre2008)

file PDF

Riassunto - Le produzioni casearie di montagna si trovano spesso davanti ad un difficile dilemma. Se non hanno la protezione della Dop chiunque può imitarle. Ma appena si inzia a parlare di Dop iniziano a produrre il prodotti tipico anche i caseifici industriali delle zone a valle e persino della pianura. Poi, accampando la "ragione dei numeri" (detta altrimenti la "legge del più forte") grazie all'appoggio delle "istituzioni" (CCIAA, Provincie, Enti di promozione vari) la zona "tradizionale" di produzione viene allargata a tavolino e si scrive un disciplinare che "normalizza" e "standardizza" le tecnica di modo che "ci sta dentro" anche l'industria. Parliamo di Branzi e di Strachitunt, prodotti della Val Brembana. Il secondo è un caso esemplare: la Dop Strachitund Valtaleggio è stata pensata per rimediare all'esproprio della denominazione "Taleggio". Ma una volta che lo Strachitut è stato "lanciato" (Vissani) qualcuno a cominciato a farlo in pianura ... e a volere la Dop.

 

di Michele Corti

Che le Dop non rappresentino uno strumento di tutela delle produzioni realmente legate al territorio e della qualità dei prodotti è ormai un fatto acquisito. Lo scorso anno a Bra ben 40 rappresentanti di piccole produzioni casearie tradizionali hanno sottoscritto un atto di accusa nei confronti del sistema delle Dop chiedendo espressamente che l’Unione Europea istituisca un nuovo istituto di tutela.

La sistematica tendenza dei Consorzi di tutela e delle istituzioni ad allargare le aree di produzione e ad allentare i vincoli dei disciplinari ai metodi tradizionali di produzione ha per matematica conseguenza l’abbassamento della qualità.

Tutto è abbassato al minimo comun denominatore dei “disciplinari” (sul cui rispetto, peraltro, c’è da nutrire qualche dubbio). Il piccolo produttore artigianale che opera in condizioni disagiate e che, a causa dei vincoli ambientali, non può nemmeno volendo adottare metodi intensivi di allevamento o, sul piano della trasformazione, le scorciatoie tecnologiche offerte dalla “moderna scienza e tecnica casearia” viene confuso con il prodotto industriale, ottenuto con il latte di maxi-stalle.

Sì perché la “politica di marchio”, incarnata dalle Dop, implica che la visibilità e la riconoscibilità del singolo produttore siano il più possibile oscurate, messe in secondo piano. Ogni tentativo di affermazione di strategie di differenziazione aziendale incrina il “capitale” costituito dal marchio.

Se le aziende più grandi – che avrebbero i mezzi economici per promuovere il proprio marchio aziendale – preferiscono essere come gli “alberi della foresta” è perché è loro convenienza sfruttare quell’immagine, quella reputazione che i produttori storici hanno saputo creare.

Sfruttano una vera e propria rendita di posizione. Si rendono conto perfettamente che il valore patrimoniale associato alle produzioni tradizionali non è illimitato, che il consumatore, alla lunga, non sarà più disponibile a riconoscere particolari valori di individualità ed eccellenza a produzioni che sono gradualmente scivolate verso forme di standardizzazione e di rescissione dei legami con il territorio. Molti prodotti Dop sfruttano il valore evocativo della montagna. Ma questo valore è sottoposto ad usura; lo slogan del maggiore produttore (una multinazionale) di Taleggio: “Il Taleggio che sa di montagna” è accompagnato da gigantografie che tappezzano gli automezzi della rete distributiva raffiguranti vacche al pascolo sullo sfondo del “classico” paesaggio di alta montagna. Il sospetto è che quando una risorsa di immagine viene giocata così a fondo, così esplicitamente si è “in riserva”; il capitale simbolico è stato tutto consumato (o quasi).

Ecco allora che la strategia si rinnova, che nuovi prodotti “tradizionali” vengono “rilanciati” per essere fagocitati dall’industria casearia. La terra di Bergamo si presta molto bene all’illustrazione di queste dinamiche.

Taleggio, Val Taleggio e Strachitunt: è proprio l’impossibile di tutelare le produzioni di montagna?

 

Il “Taleggio Dop”, come tutti sanno, è un prodotto industriale al 99%. Una piccola quota di prodotto viene stagionata nelle grotte della Valsassina (Lc) e della stessa Val Taleggio (Bg) (così “sa” di montagna). Come molti sanno “Taleggio” non è denominazione tradizionale, ma è stata inventata dall’industria casearia proprio quando, nel periodo a cavallo della metà del ‘900, la produzione assumeva dimensioni di massa e il baricentro si trasferiva definitivamente in pianura. Il Taleggio Dop non è nient’altro che lo “stracchino quadro” conosciuto da secoli. Oggi il Taleggio Dop si produce in buona parte della pianura padana (in ben 10 province di montagna e di pianura).  Ogni tentativo della Val Taleggio di avere un qualche “compenso” (per esempio la localizzazione della sede del consorzio di tutela) per l’utilizzo della propria denominazione a vantaggio di un prodotto industriale è stato frustrato. Di più la richiesta di poter utilizzate la denominazione “Stracchino della Val Taleggio” nell’ambito dei PAT (prodotti agroalimentari tradizionali) è stata respinta in nome della tutela della denominazione di origine. Notiamo, per inciso, che il “Consorzio di tutela” ha depositato varie denominazioni che si richiamano al Taleggio e alle produzioni tradizionali da cui è derivato (“stracchino quadro”, “strachin quader” ecc.) rendendone indisponibile l’utilizzo pe l’identificazione di produzioni artigianali e locali.

Diversa è la storia del “Gorgonzola Dop”

 

… perché l’associazione di questo prodotto con il borgo del milanese occidentale ha profonde radici (legate al ruolo di crocevia di Gorgonzola e Melzo sulle rotte della transumanza bovina che collegava le Orobie alla “Bassa”).  Il “Gorgonzola Dop” attuale è quindi il “discendente” dello “stracchino tondo uso Gorgonzola” del passato (il Bergamasco: strachitunt). Il “Consorzio di tutela del Gorgonzola”, però, ha trascurato di depositare e tutelare tutte le denominazioni similari e tradizionali del “Gorgonzola” e in questo “spiraglio” la Val Taleggio ha cercato di infilarsi per cercare di “capitalizzare” in termini non tanto di produzione casearia quanto di “marketing territoriale” il legame storico tra il suo territorio e una lunga storia di caseificio lanciando lo “Strachitunt” prodotto, come in passato, con la tecnica delle “due paste”, ovvero mescolando una cagliata della sera precedente – già in parte consolidata – con quella della mattina in modo da ottenere un impasto non perfettamente amalgamato e far penetrare l’aria per favorire lo sviluppo del Penicillium nelle intercapedini tra le due masse.

 “Rispolverare” la storia, conferire una “patina” di antichità e di nobiltà alle merci rappresenta una primaria strategia di marketing, che sfrutta l’insicurezza del consumatore, il suo disorientamento nei confronti di incessanti novità e di una globalizzazione dei consumi totalizzante.  Ed ecco che sull’operazione di rilancio di una produzione tradizionale ormai “estinta”, portata avanti dal “Consorzio tutela strachitunt ValTaleggio”, si inserisce qualcuno con il solito “vizietto” dell’esproprio di una produzione tipica di montagna.  Il successo di mercato dello strachitunt (apprezzato da noti chef e “sbarcato” anche negli Usa) ha messo in moto l’interesse delle istituzioni pubbliche e parapubbliche provinciali competenti in materia di promozione agroalimentare  (Camera di commercio, Consorzio Agripromo, Bergamo città dei mille sapori ecc.). Il risultato è stato l’avvio della procedura per la richiesta della Dop (si attende l’ok della Regione Lombardia per ottobre). Ma già erano bastati i primi “rumori” circa un “futuro da Dop” della Strachitunt della Val Taleggio per attivarne la produzione … anche in pianura (Caseificio Taddei di Fornovo S. Giovanni, nella “Bassa”). Oggi il grosso dello Strachitund è prodotto in pianura.

Il disciplinare del marchio “Bergamo, città dei Mille… sapori” prono alla regola “va favorito lo sviluppo economico” (leggasi “chi produce di più ha ragione, quindi la montagna ha sempre torto e … resti senza sviluppo) recita all’Art. 2: “Ai fini della concessione del marchio collettivo “Bergamo, città dei Mille… sapori”, la zona di produzione dello Strachitund è rappresentata dal territorio della provincia di Bergamo. Amen e de profundis per lo Strachitund che voleva riappropriarsi di un po’ di quello che l’industria e ala pianura avevano espropriato alla montagna. E’ lo stesso identico copione che abbiamo visto applicare al Bitto e a tanti altri prodotti.

L’iter della Dop è all’inizio, ma con due interpretazioni diverse dell’area di produzione (avallate anche a livello istituzionale) non c’è da scommettere sull’approvazione della Dop limitata alla sola Val Taleggio (le esperienze pregresse vanno tutte nell’altro senso o … nel congelamento delle Dop).

 

Il Branzi: un copione che si ripete

 

Un’altra “guerra per la Dop” è quella che si sta combattendo, sempre in territorio bergamasco, per il Branzi. Da decenni il Branzi viene prodotto con un marchio depositato “Formaggio Tipico Branzi” dalla Latteria sociale di Branzi, in alta Val Brembana, fondata nel 1953 proprio per valorizzare questa produzione tipica. Nel 2005 cinque produttori (con l’esclusione della Latteria di Branzi) A fare la prima mossa è, nell’ottobre del 2005, il «Consorzio tutela formaggio Branzi» costituitosi su iniziativa di cinque aziende produttrici: la Cooperativa agricola sociale Sant’Antonio di Vedeseta (quella che produce l’ “autentico” Strachitunt, ahi le “guerre tra poveri”), la Casera Monaci di Almenno San Salvatore (in pianura), i caseifici Paleni di Casazza (in Val Cavallina, in prossimità della pianura – ma non fate la “Formaggella della Val Cavallina”?) i Fratelli Paleni di Gromo (in Val Seriana) e Monaci di San Giovanni Bianco (nel fondovalle brembano, ma all’imbocco della Val Taleggio e con qualche titolo a produrre Strachitunt dal momento che ritira latte in Val Taleggio). L’organismo, che ha la sua sede legale alla Camera di commercio di Bergamo, chiede la concessione della Denominazione d’origine protetta. La Latteria di Branzi reagisce l’anno successivo fondando il «Consorzio dei produttori del formaggio Branzi» e … chiedendo la Dop. Va intanto precisato che la produzione del Branzi è inequivocabilmente legata alla Val Brembana e che la Latteria di Branzi, pur allargando l’area di ritiro del latte alla limitrofa Valle Imagna ha introdotto regole precise circa la provenienza locale del foraggio ad fine di tutelare la qualità del latte e il legame con il territorio.

L’argomento forte dei “grossi” o dei “tanti” è sempre quello: “noi rappresentiamo la quantità” (vedi l’argomento del Consorzio di tutela del Bitto contro l’Associazione produttori: “noi siamo 80 voi siete 16”). Il “Consorzio tutela formaggio Branzi” replica al “Consorzio dei produttori del formaggio Branzi” che i propri cinque operatori hanno una produzione di 120 mila forme annue, corrispondente all’80% della produzione bergamasca di Branzi. Che trattasi di Branzi lo hanno deciso loro.  Ovviamente il consumatore è confuso e l’iter della Dop pregiudicato. A questo punto c’è da chiedersi se la Dop, in tutte queste vicende, rappresenti uno strumento di tutela delle produzioni tipiche o, al contrario, uno strumento per affossarle. Apparentemente le denominazioni “non protette” parrebbero in balia di tutti coloro che si svegliano alla mattina e si inventano una produzione “tipica” appropriandosi di un patrimonio costruito altrove. Ma tutte le volte che si è solo iniziato a parlare di Dop si è “istigato” anche chi non ne aveva prima alcuna intenzione a produrre quei “prodotti tipici”.