Artigiani
del latte nella morsa
Pubblicato in Caseus.
Arte e cultura del formaggio, anno XII (2007), n. 1,
pp. 20-21 (Novembre-Dicembre)
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Riassunto.
Stretti tra la morsa dell'adeguamento alle norme igienico-sanitarie,
le pressioni "normalizzatrici" delle varie
agenzie (Consorzi di tutela in primis), il basso
potere di mercato di fronte ai grossisti-stagionatori-affinatori
gli artigiani del latte quando non soccombono sono a
volte spinti ad adottare soluzioni che snaturano nel
profondo le tradizioni produttive e che, a volte, allontanano
talmente il formaggio "artigianale" dai connotati
della genuinità da far accettare il prodotto industriale
quale inevitabile surogato di una artigianalità divenuta
impossibile da realizzare.
di Michele
Corti
In queste pagine non
mancano i richiami all'insieme delle pressioni (legislative, commerciali e di altro tipo) che
subiscono gli stoici
(purtroppo sempre meno numerosi) artigiani del latte che resistono ai suadenti inviti ad
usare quelle "bustine", quelle "polverine" che ... "fanno venire bene il formaggio". Mettiamo insieme delle prescrizioni igienico-sanitarie
non pensate certo
per le condizioni di produzione dei prodotti tradizionali, dei progettisti che applicano le
suddette regole all’ "adeguamento strutturale" dei locali, ma che ignorano cosa
sia il formaggio, tecnici e piazzisti, consorzi di tutela (!?) interessati alla
standardizzazione qualitativa al ribasso
e all'aumento di produzione, grossisti-stagionatori cui interessa in primis la qualità estetica e la bassa incidenza dello scarto. Cosa ne può derivare? Vorrei con alcuni esempi reali
mettere in evidenza come agiscano
queste pressioni nella loro combinazione, della cui perversa efficacia non sempre ci si rende conto.
Se consideriamo
quello che hanno combinato geometri e architetti per "adeguare" le casere degli
alpeggi (che dovrebbero rappresentare una delle ultime ridotte di una produzione artigianale)
c'è veramente da rischiare
di perdere ogni speranza.
UN
ADEGUAMENTO FATALE PER LE PRODUZIONI TRADIZIONALI
I locali da "adeguare" hanno
normalmente spazi ridotti e particolari caratteristiche e conformazioni
"arcaiche" che il sapere tradizionale
aveva escogitato per adattare al meglio la trasformazione casearia e i
successivi processi di affinamento alle caratteristiche dell'ambiente (natura
della roccia del substrato, condizioni climatiche esterne). Per
"accontentare i veterinari" è stata spesso sacrificata la forma
alla sostanza; per avere (spesso solo sulla carta) "filtri", servizi igienici
"a norma", barriere contro la contaminazione incrociata ecc., sono
state create suddivisioni dei locali e un'articolazione degli spazi che
non risponde più alle logiche che avevano originariamente presieduto
alla realizzazione delle strutture.
Se un locale di
conservazione e affioramento del latte presenta aperture (realizzate in forme spesso
particolari) su tre lati dell'edificio, la circolazione dell'aria e la temperatura interna non saranno le stesse dividendo il locale originale. A
volte, per ridistribuire gli spazi, si va oltre e, dove c'era il locale di stagionatura dei formaggi
(nell'angolo più fresco,
esposto a Nord e seminterrato), si colloca la sala del latte, e viceversa. Parrebbe assurdo che il
locale di stagionatura venga ricollocato nella zona più calda della casera, ma succede anche
questo (l'ho constatato
in una grossa malga delle valli bresciane). Una delle lamentele più frequenti dei malghesi
relativamente agli "adeguamenti igienicosanitari" è proprio quella relativa alla temperatura del locale di
maturazione.
Spesso dopo la "ristrutturazione" è più caldo.
UN CASO LIMITE RISCONTRATO IN UNA VALLE BERGAMASCA
I malghesi lamentano che il
locale di conservazione del formaggio della "casera", completamente ristrutturata due anni fa (e in venrità
all'esterno molto
ben sistemata, anche dal punto di vista della qualità formale del manufatto), è
diventato più caldo e che, di conseguenza,
i problemi con le forme di formaggio sono aumentati. Cos'è successo? Nella ristrutturazione, il focolare è
stato addossato alla parete del locale di conservazione del formaggio (per di
più sistemato in angolo tanto buio
che il casaro deve usare una lampada da speleologo sulla testa per
vederci). Forse è un caso limite, giustificato dal fatto che l'architetto progettista si intende più di politica che di formaggi, alpeggi e norme igieniche-sanitarie (è il
presidente di una comunità montana e
- guarda caso - ex amministratore dell'ente regionale proprietario dell'alpeggio in questione). A
conferma della poca dimestichezza
con questo tipo di interventi, infatti, il nostro progettista si è "dimenticato" di separare il
locale di lavorazione del latte da quello
destinato alla preparazione e al consumo dei pasti. Fatto sta che, anche in altri alpeggi,
"adeguamenti", all'apparenza limitati,
degli edifici e dei locali hanno modificato qualcosa rompendo un equilibrio delicato. Prendiamo il caso degli
attacchi degli edifici che, in passato, erano diretti al suolo, con
l'erba a contatto dei muri per intenderci.
Oggi, tutto intorno agli edifici, sono stati realizzati dei
marciapiedi con un lastricato affogato nel cemento ("per non portare
all'interno il fango e lo sterco sotto le suole"). Ma all'interno la temperatura sale, mentre basterebbe
lastricare la porzione di fronte
all'entrata e ... pulirsi gli stivali.
LE
MASCHERPERE: MODIFICATE O DEL TUTTO ABOLITE i
Sempre nell'ansia
razionalizzatrice, nel cuore dell'area di produzione del Bitto, le mascherpere
sono state modificate o del tutto
abolite; si tratta(va) dei locali
siti al livello superiore della casera provvisti di idonee feritoie di
ventilazione su tre lati dove veniva fatta stagionare la maschèrpa, ovvero la ricotta grassa ottenuta dal siero della lavorazione del Bitto. Essa, con aggiunta di
sale, ma, soprattutto grazie alla
collocazione in questi appositi locali ben arieggiati, si conservava dall'estate alla primavera successiva. La
scorsa estate ho visto in funzione
dei ventilatori in mascherpere rimaneggiate mentre, dove esse non esistono più, ci si arrangia alla
peggio. Già, perché "il formaggio
è formaggio e può essere tenuto nello stesso locale". Amen. Fin qui l'applicazione delle "direttive
igieniche" alle casere e il tragico
disaccoppiamento tra le diverse competenze professionali che, unito a clientelismo e menefreghismo, e ai forti
costi degli interventi (che lievitano
quando ci sono di mezzo enti pubblici) ha portato a far cessare la
produzione casearia in parecchi alpeggi e a renderla più difficile in altri. L'effetto più deleterio è
che, alla fine, se i locali di lavorazione
e di stagionatura devono rispondere a tante esigenze, ma non a quella di rispettare le specificità di un
prodotto tradizionale, tanto vale
usare le solite attrezzature, le solite celle climatizzate, ecc. Vorrà dire che si potrà lavorare solo dove c'è
l'allacciamento alla rete di
distribuzione dell'energia.
IL
TRIONFO DEL SISTEMA TECNOSCIENTIFICO E INDUSTRIALE
La
lezione, però, è pericolosa: non solo comporta l'abbandono dei pascoli, ma sancisce il trionfo
universale (almeno nell'universo caseario) dell'idea
che la sapienza con la quale l'uomo ha saputo per millenni lavorare con la natura, attraverso
lo sviluppo di sensibilità e conoscenze Inscindibili dall'esperienza e dall'intelligenza personali,
deve essere totalmente messa da parte.
È il trionfo del sistema tecnoscientifico e industriale che adatta la natura alla produzione a prezzo della dissipazione energetica e della massificazione dei
prodotti e delle intelligenze
UN
ALTRO ASPETTO DEL SISTEMA: LA BIOMANIPOLAZIONE!
Dove
non si possono controllare i parametri ambientali con la climatizzazione si "corregge" un prodotto
naturale (il latte) con un po' di
"bustine" e "polverine". "Usiamo le bustine [ossia
aggiungiamo al latte in caldaia il
fermento liofilizzato fornito dall'industria] da quando la casera è troppo
calda", mi dicevano alcuni malghesi la scorsa estate. Altrove, in un caseificio di malga che
pareva una sala chirurgica, piastrellato
sino alle pareti, con tutti i bei tavoli di acciaio inox luccicanti e
il "minicaseificio polivalente" regolamentare, ho notato un barattolo con una croce di S. Andrea. Leggo: Clerizyma, alias il meglio
noto lisozima, l'antibiotico ("naturale", per carità!)
commercializzato da un caglificio che va per la maggiore. "Ho
iniziato a metterlo perché non mi veniva bene il formaggio, mi hanno detto di
usarlo, che non fa male ....
L`INDUSTRlA
È L'EREDE LEGITTIMA DELLA TRADIZIONE
Che gioia per gli imitatori dei "formaggi
nostrani", per i supporter e gli agenti del sistema industriai-tecnologico poter
dire: "Ecco i vostri
decantati prodotti tipici, di pascolo, di malga, artigianali; si fanno con gli stessi fermenti che
mettiamo noi e persino con gli stessi agenti protettivi, magari dosati a spanne". Ma sì, l'industria è l'erede
legittima della tradizione, non si può fermare il progresso; i secchi di legno, gli antri oscuri,
tutte le icone del passato stiano al loro
posto, ovvero nell'immaginario comunicativo dell'industria che vi propone un
prodotto-tipico-quanto-basta, standardizzato, controllato, additivato. La
morsa si chiude...
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