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Allevamento al pascolo o intensivi: pari non sono

[Tracciabilità, trasparenza, etica della filiera]

Pubblicato in Caseus. Arte e cultura del formaggio, anno XIII (2008), n. 3, pp.19-20 (Maggio-Giugno)

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Riassunto. Tracciabililità e rintracciabilità cosa garantiscono nel campo della produzione lattiero-casearia? Le maggiori produzioni "tipiche" italiane in campo caseario sbandierano sistemi di tracciabilità (con il codice che trovate sulla confezione entrate in internet e .....) ma questo significa sapere da quale stalla proviene quel latte e quanto latte fanno quelle mucche e cosa mangiano? No. La trasparenza è altra cosa. Solo in una catena di fiducia dove, mediatori distributori/rivenditori/ristoratori consapevoli, si può stabilire tra un produttore che ci mette la faccia e il consumatore finale, si può sperare di mantenere il "buon formaggio" identificabile sin nel piatto.  Diffondendo una cultura che consenta di dare visibilità a produttori di eccellenza per quanto piccoli, moltiplicando guide di produttori artigianali, degistazioni, cheese bar, introducendo sistemi di etichettatura le cose possono cambiare e il mondo del buon forrmaggio potrà emanciparsi dall'abbraccio soffocante e dal vampirismo dell'industria casearia.

 

di Michele Corti

 

Da tempo questa rivista sta sostenendo che la politica delle denominazione di origine, che tende ad appiattire le (enormi) differenze di qualità celate dietro il “marchio”, non agevola la crescita di consapevolezza del consumatore e, di conseguenza, di un mercato maggiormente articolato, disposto a valorizzare di più i formaggi. Pur con tutte le differenze tra il settore lattiero-caseario e quello vitivinicolo perché non ammettere che una determinata politica di valorizzazione della qualità possa produrre cambiamenti di costume pari a quelli che si sono registrati negli ultimi anni nel consumo del vino? Il latte e i formaggi industriali possono restare una commodity ma perché non si può prefigurare un deciso “sganciamento” di un segmento del mercato caseario tale da consentirgli di acquisire

uno status distinto nell’universo del consumo?

L’affermazione dell’immagine del vino di qualità quale efficace veicolo di distinzione sociale ha trascinato un indotto che moltiplica il valore del prodotto attraverso i servizi dell’editoria e del turismo e ha consentito la rivitalizzazione di interi segmenti del commercio al dettaglio e della ristorazione grazie alla proliferazione di wine bar, “osterie” ed enoteche. Questo è stato possibile grazie alle radicali modificazioni delle occasioni di consumo del vino e del suo farsi protagonista. L’allargamento a più ampie fasce sociali (comprese quelle giovanili) di queste tendenze è anche il risultato di questo consolidato “sistema”. Innescare anche nel caso del formaggio

simili processi non è impossibile, oggi, però, è certamente difficile. Lo è perché sono poche le informazioni che consentono (al consumatore finale ma non solo) di individuare la qualità. Ciò vale anche per parametri fondamentali quali il tempo di stagionatura (in quanti casi è dichiarato mediante informazioni facilmente accessibili?). Purtroppo è anche difficile “raccontare” la qualità perchè

mancano riferimenti condivisi (basti pensare alla diversità di valutazione dei difetti del formaggio da parte dei sostenitori e detrattori dei fermenti selezionati) e perché – come si ostina a ripetere questa rivista – la “qualità” del latte (e di conseguenza dei suoi derivati) non può essere valutata riduzionisticamente su pochi parametri quantitativi di interesse industriale. Insomma il mestiere del

“valorizzatore” di formaggi è difficile (e infatti si cimentano in pochi).

Da qualche tempo, però, anche nel mondo del formaggio (ed stiamo assistendo alla diffusione di sistemi di “tracciabilità” sperimentati anche nell’ambito delle grandi Dop casearie. Siamo di fronte a quella svolta tanto auspicata in grado di fornire al consumatore chiare informazioni circa la qualità e l’origine del latte e tutte le fasi successive di trasformazione, stagionatura, distribuzione ecc.?

Va precisato che mentre nel campo della carne bovina (DM 30 agosto 2000 e del latte fresco (DM 27 maggio 2004) l’applicazione di sistemi di tracciabilità discende da precisi strumenti normativi di valore cogente, per quanto riguarda i formaggi i sistemi di tracciabiltà sono – per ora – volontari. Per il formaggio siamo ben lontani dal disporre di quelle informazioni minime obbligatorie che l’etichetta dell confezioni di carne deve recare sulla base delle norme vigenti dopo la “mucca pazza”.

Tali informazioni ci consentono di risalire al paese di nascita e di allevamento, al paese di macellazione, al macello, al paese di sezionamento e al laboratorio di sezionamento. Tutte queste informazioni hanno lo scopo di ottenere un ritorno di fiducia del consumatore e di operare (da valle a monte) la “rintracciabilità” del prodotto in caso di “problemi” (leggi scandali alimentari). Tutto sotto controllo gente! Nel comparto della carne bovina sono stati poi introdotti dei sistemi di etichettatura facoltativa con il

fine di valorizzare delle produzioni di pregio. Ecco che – acquistando queste carni – il consumatore ha il “privilegio” di conoscere informazioni circa l’alimentazione, la razza, l’età di macellazione.

Tutti parametri che, come si sa, risultano effettivamente determinanti sulla qualità della carne. Ma torniamo al formaggio. Qui nonostante la sbandierata “tracciabilità” di una parte della produzione (“entrate nel sito tal dei ali, digitate il codice riportato sulla confezione di formaggio, e saprete vita morte e miracoli del vostro pezzo di XX dop”) siano lontani anni luce da quanto ormai largamente

diffuso nel comparto della carne bovina (dove si è fatta di necessità virtù) per non parlare del vino.

 

TRASPARENZA?

Sapere da quale gruppo di allevamenti è prodotta la materia prima latte è senz’altro un bel passo avanti ma sempre in un ambito di tracciabilità (al “casello” si può comunque risalire attraverso il “bollo CE”). Al consumatore per orientare le proprie scelte servirebbero però altri elementi: il modo in cui sono allevate e alimentate le bestie da latte, la produzione media per vacca, l’uso di mangimi.

 I  Consorzi di tutela” risponderebbero che il disciplinare di produzione già garantisce “legame con il territorio” e “qualità della materia prima” (e come mettere in discussioni simili autorità e potestà?). Ma è proprio così? In ogni caso Tr@ce.pr sistema di tracciabilità applicato sia al Parmigiano Reggiano e del Grana Padano e gestito dal CRPA di Reggio Emilia (ente già regionale ora privatizzato) spiega nel seguente modo “trasparente” il motivo perché le informazioni accessibili al pubblico non vanno oltre: “Riteniamo che tali informazioni possano essere sensibili ai sensi della tutela della privacy pertanto la loro consultazione è riservata ai legittimi "proprietari" o a chi ne ha ricevuto il permesso”.

Quando non si trova altro che ricorrere alla privacy … Il risultato è che nel mondo del formaggio la disponibilità di informazioni per il consumatore è molto, molto limitata. Il principio di tracciabilità a volte contraddice quello di trasparenza. Quanto il primo è informato a criteri amministrativi che coinvolgono gli attori della filiera tanto il secondo a criteri di sostanza che riguardano gli elementi di scelta e orientamento del consumatore su basi di convenienza, edonistiche ed etiche.

Se un consumatore vuole risalire dal “bollo CE” riportato sulla confezione del formaggio spesso può solo “fermarsi” allo stagionatore. Il formaggio può essere prodotto inun’altra regione ma il “bollo” è quello dell’ultimo “anello”. Tutto bene per la rintracciabilità da parte delle competenti autorità che potranno risalire la filiera in caso di “problemi”, meno bene per un consumatore che non riesce neppure a capire perché un formaggio “tipico” viene da una regione diversa da quella che ci si aspetterebbe.Non stiamo a ripeterci sulla difficoltà di conoscere il periodo di maturazione ed altre "quisquiglie".

 

TRASPARENZA E COSTRUZIONE DELLA QUALITÀ

La trasparenza va al di là delle etichette, che pure costituiscono - anche nel caso del formaggio - un elemento chiave (ne abbiamo già parlato in questa rubrica). Le informazioni utili ad orientare e formare un consumatore consapevole possono/devono essere trasmesse anche attraverso l'impegno degli attori delle filiere. Anche nel campo del formaggio il ruolo della ristorazione (oltre a quello degli affinatori

e dei rivenditori qualificati) appare cruciale. Nella ristorazione abbiamo già buoni esempi di trasparenza e di "discorso sul formaggio". Più che sontuosi carrelli con tantissimi formaggi, di cui spesso, però,i  responsabili del servizio non conoscono l'origine, conta il saper proporre, far conoscere ed apprezzare formaggi di elevata qualità, legati al territorio, a tecniche artigianali, a principi di produzione etici.

Abbiamo già segnalato a questo proposito i locali dell'Associazione Slow Cooking della provincia di Sondrio che dichiarano in menù i fornitori esclusivamente artigianali e locali dei formaggi utilizzati per le preparazioni ed offerti in degustazione. Tra i ristoranti "stellati" gli esempi sono fortunatamente parecchi.

Tra i casi da segnalare ci piace ricordare Arnolfo di Colle Val d'Elsa (Si). Qui, il formaggio come il resto della materia prima, segue un criterio rigorosissimo di trasparenza e qualità territoriale. In questo locale si trovano i pecorini senesi e le ricotte di piccoli pastori o di caseifici artigianali che - in un contesto di sempre maggiore diffusione del prodotto a base di latte pastorizzato - impiegano il latte

crudo; si trovano i caprini di Maria De Dominicis, eroica allevatrice di capre delle colline a sud di Siena, che lottando contro la burocrazia alleva le sue capre al pascolo, utilizza capi di tipo genetico rustico e lascia che le sue capre muoiano di vecchiaia o quasi (a proposito di etica delle produzioni!). Tra gli "stellati" vale la pena citare anche lo "Scrigno del Duomo" di Trento che affianca al ristorante tradizionale

(al piano sotterraneo, con vista sula bella cantina separata dalla sala da un'ampia vetrata) un wine bar al livello superiore) che è anche cheese bar dove numerosi formaggi (affinatore Hansi Baumgartner) sono ben visibili in esposizione con indicazione della tipologia e della provenienza. Uscendo dagli stellati buoni esempi di valorizzazione del formaggio all'insegna della trasparenza li offrono "II Pompiere"

di Verona, tempio dei formaggi e degli insaccati dove il formaggio (si arriva ad un centinaio di tipologie) è proposto come "piatto forte" ed è esposto ben visibile in uno straordinario banco a vista.

Di recente apertura "Ottimo" a Milano ristorante-wine bar-rivendita di formaggi e altre gourmandise; anche qui i formaggi sono un "piatto forte" (sono proposte diverse "selezioni"); tutti quelli offerti in degustazione sono acquistabili ed esposti nel banco vendita. In questi locali come (fortunatamente) in tanti altri il rapporto con gli appassionati di formaggi si sviluppa attraverso "serate a tema" che consentono ai partecipanti di approfondire vari aspetti della diversità della produzione casearia Ovviamente sono solo degli esempi, segno che qualcosa sta muovendosi anche nel settore; segnali incoraggianti più di una potenzialità che di una realtà in atto. Non ci stancheremo di ripetere che le diverse formule che cercano di espandere le occasioni di conoscenza e di consumo dei formaggi rappresentano un "volano" che può funzionare se ci sono i presupposti (leggasi politica diqualità) giusti.

C'è un sistema delle Dop e delle altre "produzioni garantite" che va ripensato profondamente (come successe a suo tempo con la legge Goria per le Doc del vini); c'è una spaventosa carenza di informazione (dove sono le guide dei formaggi artigianali?) che frena la valorizzazione del formaggio

quale gourmandise. Ma alla base di tutto c'è un sistema di produzione lattiero-casearia ("tipico") che non ha nessuna voglia di rendersi trasparente e di fare l'esame di coscienza (in pubblico) della sua insostenibilità.

Le produzioni con alle spalle la monocoltura maidicola, la soia importata dal sud america (dove le coltivazioni mangiano la foresta pluviale), le mucche da 50 kg di latte al giorno tenute in piedi a ricostituenti e con una carriera produttiva che tende alle due lattazioni, le stalle vicino alle autostrade e agli inceneritori sono contrarie all'etica del consumo, dell'ambientale e del rispetto dell'animale.

Se, nonostante tutto questo, la produzione originata in questo contesto continuerà ad essere la qualità certificata e "tracciabile" risulta difficile impostare un discorso credibile sulla trasparenza e, a sua volta, una politica di costruzione della qualità, di articolazione dei mercati di nuove occasioni di consumo e di prestigio per le produzioni casearie.