I
formaggi di pascolo devono essere riconoscibili
Pubblicato in Caseus.
Arte e cultura del formaggio, anno XIII (2008), n. 2,
pp.18-19 (Marzo-Aprile
2008)
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Riassunto.
Bene
le certificazioni bio, equo e solidale (oltre alle ambigue
Dop) ma pechè non si deve assicurare al consumatore
che un formaggio è ottenuto con latte munto da
bestie che - come dovrebbero per la loro natura - si
alimentano brucando erba invece che ingozzarsi
con puzzolenti insilati, cereali strappati dalla
bocca dei poveri, sottoprodotti e scarti dell'industria
alimentare, soia OGM, coltivata disboscando i polmoni
verdi del pianeta ecc. ecc.? E' così rivoluzionario
sancire che un sistema pastorale è agli antipodi della
zootecnia industriale? I consumatori non devono sapere
che alimentandosi con erba fresca gli erbivori domestici
producono latte (e, indirettamente)i formaggi
ricchi di composti nutraceutici che proteggono dalle
malattie cardiache e tumorali? E che invece..
di Michele
Corti
Il 18 dicembre scorso presso le strutture del CRA- PCM,
di Tor Mancina si è discusso di come definire un “codice
del pastoralismo” supportato da iniziative efficaci
per consentire ai consumatore dei prodotti lattiero-caseari
di distinguere i prodotti che sono stati ottenuti nell’ambito
di sistemi che fanno ricorso al pascolo quale principale
risorsa alimentare. Alla base di queste iniziative vi
è la convinzione
che così come è stata riconosciuta, definita e tutelata
la produzione agricola ‘secondo metodi di agricoltura
biologica’ possa e debba essere riconosciuta, definita
e tutelata anche la produzione pastorale.
In attesa di presentare (in occasione degli ‘Stati Generali
della pastorizia’) i risultati del gruppo di lavoro
costituitosi a Tor Mancina, un ulteriore tappa del cammino
di riconoscimento della “diversità” del pastoralismo
sarà rappresentata dalla presentazione del “codice dell’alpeggio”
nel contesto della “convention” della Associazione Amici
degli Alpeggi e della Montagna che si terrà a Porlezza
(Co) il 20
aprile prossimo.
Non sarà comunque un percorso facile perché anche molti
produttori che operano (operavano) in un contesto pastorale
(sia negli alpeggi alpini che nelle più variegate realtà
appenniniche ed isolane) sono stati indotti dalle pressioni
di mercato, dal “terrorismo igienista” o da “consigli”
tutt’altro disinteressati, a piegarsi a compromessi
che a volte rendono difficile capire quando un sistema
pastorale sia ancora tale o sia stato “ibridato” con
i sistemi zootecnici intensivi. Non sarà facile anche
perché molti ‘prodotti tipici’ che fino a pochi anni
orsono erano strettamente legati a contesti pastorali
sono stati ‘fagogitati’ entro le filiere zootecniche
e casearie (e restituire il maltolto, si sa, non è facile).
Alcuni punti fermi, però, non sono negoziabili e vanno
enunciati da subito. Un codice di autodisciplina del
“prodotto pastorale” deve stabilire con chiarezza che
per “pascolo” si deve intendere un sistema in cui la
maggior parte dell’energia e delle proteine di cui necessita
l’animale è fornita dall’erba di pascoli naturali o
prati-pascoli. E’ ammissibile che ci siano alimenti
che “integrano” il pascolo (esclusi gli OGM e i sottoprodottia
rischio di contaminazioni varie). Non è ammissibile
il contrario, ovvero che si gabelli per “formaggio di
pascolo” quello ottenuto in condizioni in cui il pascolo
rappresenta un’integrazione secondaria all’alimentazione
stallina o, persino, niente di più che l’ “ora d’aria”
di bestie normalmente stabulate, cui viene magnanimamente
“concesso” di “accedere a spiazzi erbosi” (vedi in proposito
l’ambiguo - a dir poco - regolamento della zootecnia
biologica).
A mettere questi puntini sulle “i” ci si becca degli
“integralisti” (capita non raramente all’estensore diqueste
note). Siamo nel paese dove i “prodotti tipici” come
i prosciutti possono essere prodotti con suini, di quasi
ogni tipo genetico, allevati in mezza Italia (con il
risultato che nelle enoteche e nelle osterie che vogliono
darsi un tono trionfa il Jamón ibérico de bellota Pata
Negra –guarda caso di suini allevati al pascolo – che
vale quattro volte i “tipici” nazionali più pregiati).
Siamo il paese dove ormai si perde il conto non già
delle DOC ma delle DOCG (che “garantiscono” ben poco
se non conosci il produttore vista l’estensione dei
vigneti), dove appena si pensa di stendere un disciplinare
di un prodotto che ha acquistato la sua fama perché
“generato” da un ben preciso territorio subito si allarga
l’area di produzione e dove nulla si salva dalle ‘repliche’
industriali (aceto balsamico di Modena docet).
Le prime taroccature sono quelle legalizzate in nome
della “valorizzazione del Made in Italy” che avallano
la dispersione dei veri giacimenti enogastronomici in
nome della logica del “vinca il più furbo e chi vivrà
vedrà” … E poi ci si indigna per il Parmesan ...
No, non crediamo proprio di essere “integralisti” quando
vogliamo che li formaggio fatto con il latte di animali
che si alimentano principalmente con erba di pascolo
non venga bellamente confuso con prodotti che spacciati
“di pascolo” attraverso immagini e diciture “di fantasia”
del tutto ingannevoli. Il danno che si produce avallando
queste speculazioni è grave e non ci si venga a dire
che questa politica del “vivi e lascia vivere” garantisce
il reddito dei produttori agricoli, “mantiene la gente
in montagna” e altre fregnacce all’insegna
del “teniamo tutti famiglia”.
Quando si parla di formaggi “di pascolo” ci sono in gioca
aspettative del consumatore che riguardano non solo
aspetti edonistici, ma fondamentali aspetti salutistici.
Non è lecito scherzare su questo. Il formaggio ottenuto
dal latte di animali alimentati al pascolo rappresenta
una fonte di acidi grassi -3 e in particolare di ALA
(acido alfa-linolenico; C18:n3). Consumare prodotti
con alto piuttosto che basso contenuto di ALA significa
assicurare un effetto protettivo nei confronti delle
più gravi patologie cardiache.
Il consumo di formaggi d’alpeggio è alla base del cosiddetto
“paradosso svizzero”. Mentre il “paradosso francese”
spiegava con le proprietà protettive del vino rosso
la strana bassa incidenza di malattie cardiache nella
popolazione francese “ghiotta” di grassi animali, il
“paradosso svizzero” spiega che è il formaggio stesso
a rappresentare un elemento di protezione … purchè sia
di pascolo. In un fondamentale studio scientifico di
qualche anno fa (C.B. Hauswirth, M. R.L. Scheeder, High
omega3 Fatty Acid Content in Alpine Cheese The Basis
for an Alpine Paradox Circulation, 2004;109:103-107)
gli autori avevano trovato 500 mg di ALA per 100 g di
prodotto nei formaggi d’alpeggio contro i 200 nell’Emmental
industriale e i 100 del Cheddar. Ma le proprietà cardioprotettive
del formaggio d’alpeggio non si limitano al ALA: vi
sono meno grassi saturi (in particolare palmitico),
vi sono in generale più acidi grassi omega3 a corta
catena e un miglior rapporto omega6: omega3, vi è un
maggior contenuto di acido linoleico coniugato (CLA)
che ha anche capacità di inibire la cancerogenesi oltre
che di proteggere le coronarie. Di più: integrando la
razione delle bovine con olio di semi di lino (fonte
di omega3) la quota di ALA nel formaggio resta al di
sotto della metà di quella del formaggio d’alpeggio
“naturale”.
La tutela della risconoscibilità del prodotto pastorale
non è quindi una fisima da ecologisti snob. E non solo
per via delle considerazioni salutistiche. Se il consumatore
non ha una ragionevole sicurezza di poter acquistare
un prodotto realmente di pascolo sfuma la possibilità
di compensare con un prezzo nettamente più elevato i
maggiori costi di produzione del sistemi pastorale (maggiori
beninteso alla luce di una struttura dei prezzi degli
input e degli output che ignora i criteri bioeconomici
di tutela nel lungo periodo le risorse naturali, ‘esternalizzando’
irresponsabilmente i costi ambientali). Ma se non c’è
mezzo di garantire al prodotto pastorale un prezzo molto
al di sopra dei prodotti industriali i sistemi pastorali
continueranno a regredire.
Il danno sociale ed economico che ne consegue è grande:
continuiamo a perdere superfici foraggere perché una
logica economica distorta le condanna alla ‘marginalità’,
siamo costretti a intensificare la produzione su aree
‘vocate’ agli allevamenti intensivi (con gravi impatti
ambientali), ad importare sempre più soia OGM da oltreatlantico
(e se va avanti così anche mais OGM). Questo per quanto
riguarda l’agricoltura.
Se allarghiamo l’orizzonte all’ambito rurale, sociale
e della protezione del territorio i danni derivati dalla
contrazione del pastoralismo sono ancora più grandi.
Le ‘aree interne’ sono sempre meno popolate con costi
crescenti per assicurare alla residua popolazioni i
servizi sociali essenziali, si allargano i fenomeni
di rapido e non governato inselvatichimento del territorio
con conseguenze sulla stabilità idro-geologica dei versanti,
la regolazione dei flussi idrici, gli incendi, perdita
di valori paesistici, testimonianze storicoculturali
(e quindi anche di fattori potenziali di uno sviluppo
locale autosostenibile).
Alla luce di tutto questo vogliamo considerare ancora
uno ‘scherzetto innocente’ utilizzare denominazioni
tipo “Alpe xy”, “Malga xy” “xyz dei pascoli”? Daremo
conto ai lettori nei prossimi numeri delle iniziative
in grado di tutelare il formaggio dei pascoli (quello
vero).
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