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Prodotti senza nome. Nome senza (o quasi) prodotto

Pubblicato in Caseus. Arte e cultura del formaggio, anno XII (2007), n. 5, pp.23-24 (Settenbre-Ottobre 2007)

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Riassunto. La politica delle "produzioni tradizionali" è lasciata all'improvvisazione. Si parla di "petrolio italiano" ma ci si comporta in modo non conseguente. Prodotti come la maschèrpa d'alpeggio della Valtellina e di altre vallate lombarde, fortemente radicati nella tradizione, portatrici di diversità sensoriale e suscettibili di arricchire la gastronomia di montagna entrando in tante possibili preparazioni, semplicemente non sono presi in considerazione e non li troverete nei chilometrici e spesso improbabli elenchi delle "PAT". In compenso di altri prodotti si parla troppo, tanto che, dai e ridai ,si finisce per incentivarne la "clonazione" e per distorcerne il carattere di prodotti di nicchia espressione di particolari legami con territori circoscritti.

 

di Michele Corti

Correva l'anno 2003 e, sulle pagine di questa rivista, chi scrive si era cimentato nella perorazione della causa delle maschèrpe d'alpeggio affidandosi ad argomentazioni culturali e linguistiche per nobilitare questo prodotto tanto eccezionale quanto ignorato. Nulla ad oggi è cambiato e la maschèrpa (derivato del siero della lavorazione del Bitto e di altri formaggi grassi o semigrassi d'alpeggio con aggiunta di latte di capra) continua a non figurare nell'elenco dei PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) della Regione Lombardia. "Legalmente" è una "ricotta artigianale", come quelle che si producono ovunque. Triste.

Eppure la maschèrpa - versione lombarda di un mondo alpino di derivati della lavorazione del siero, che in piemontese si declina nei seirass e in veneto nelle poine - era un prodotto pregiato, destinato alla conservazione e al trasporto a distanza per finire (anche) sulle mense dei potenti. Anticamente serviva per pagare in natura decime e affitti di alpeggi ai signori, laici od ecclesiastici, che ne detenevano a proprietà; poi alimentò un mercato di lusso latticini d'alpeggio sino ad epoche a noi recenti. Pantaleone da Confienza a proposito dei seirazi" dice che «[...] si conservano nelle condizioni ideali per un anno e alcuni per due». E chissà quanto erano stati stagionati quei due seracia putrefacta che furono donati ad Amedeo V di Savoia in occasione dell'Epifania a fine Duecento! Conservare per questi periodi una "ricotta" appare francamente impossibile. Ancor oggi prodotti a base di maschèrpa come il salagnún dell'alta Valsesia e il zigher di Garzeno (alto Lario) addizionati con sale e pepe e conservati in casse di legno vengono consumati anche dopo un anno una volta eliminato lo strato superficiale di alterazione). Siamo di fronte a prodotti particolari e "selvatici" (specie quando sottoposti, a più D meno prolungata maturazione) che con l'immagine e le carattestiche della ricotta non hanno nulla a che fare. Lo ha ben compreso a Regione Piemonte che nel suo elenco dei PAT conta il seirass del fen, il seirass stagionato, il seirass di siero di pecora, il seirass di latte e ... la "lombarda" mascarpa (o mascherpa) prodotta nelle valli del biellese, in Val Sesia, in Vai d'Ossola (dove si avverte l'influsso linguistico lombardo).

Tanto zelo della Regione Piemonte contrasta con l'assurda, inspiegabile, irritante assenza della maschèrpa nell'elenco della Regione Lombardia che si limita a riportare un ... mascarpìn della calza di Chiavenna, prodotto curioso che testimonia come la tradizione possa adattare il nuovo (la calza di nylon da donna, simbolo della rivoluzione dei costumi, in luogo dei vecchi sacchetti di tela). Ma al di là di questa nota un pò folkloristica dove sono le grosse e grasse maschèrpe d'alpeggio già degustate dai potenti abati? Semplicemente non esistono. Tecnici, funzionari e burocrati stipendiati per "valorizzare i prodotti tipici" non le conoscono.

A loro molto parziale giustificazione (ma forse è un aggravante che indica il conformismo che regna sovrano nel mondo dell'agroalimentare "ufficiale") va notato che questo tesoro gastronomico degli alpeggi è sfuggito persino all'Atlante dell'Insor (quello di Barberis per intenderci).

E così anche le maschèrpe prodotte negli alpeggi delle Valli del Bitto aggiungendo al siero "di lusso" residuo della lavorazione dell'omonimo celebrato formaggio grasso un bel secchio di latte di capra, e /almeno un tempo, stagionate in appositi locali macchina-del-clima ben areati (le mascherpére) sono, alla luce della "normativa vigente", nient'altro che delle banalissime "ricotte artigianali", come quelle prodotte praticamente ovunque con latti qualunque. Un insulto alla storia, alla passione di chi lavora sugli alpeggi, alla maestria di generazioni di casari.

Che pena vedere sulla strada che conduce al Passo di S. Marco tra la Valle del Bitto di Albaredo e l'alta Valbrembana, nel cuore della "civiltà del Bitto" quei cartelli con "vendesi Bitto e ricotta". Persino nel tempio del Bitto (il negozio dei F.lli Ciapponi a Morbegno) la maschèrpa, è messa in vendita come "ricotta". È come vendere Valtellina docg come "vino rosso". In assenza di strategia di valorizzazione (in grado di imporre un prezzo adeguato alla forte perdita di peso che il prodotto subisce con la maturazione) il produttore punta a vendere il prodotto fresco immettendolo

contemporaneamente sul mercato con picco a luglio. Ma le particolarità organolettiche del prodotto sono raggiunti dopo 1,5-2 mesi, quando assume consistenza compatta, butirrosa gusto pieno, avvolgente e persistente. E una particolare sapidità. Questa squisitezza è così indisponibile a chi saprebbe apprezzarla; solo gli intenditori locali -acquistando quel poco che rimane a fine alpeggio - sono in grado di accaparrarsela. E tutto perché la maschèrpa... non esiste, ovvero è conosciuta da rari intenditori e dalla gente del posto e si teme che il "turista" sia poco attratto da questo strano nome "dialettale". Evidentemente gli "addetti ai lavori" della valorizzazione dei prodotti locali pare non si siano dati molta pena per spiegare agli opera che oggi il marketing utilizza fin all'abuso e alla ruffianeria le denominazioni "dialettali", tanto più accattivanti quanto più ostiche ed “esotiche".

Chissà se qualcuno in Valtellina ha sentito parlare di seirass del fen e del suo piccolo-grande successo di mercato?

Il caso del Fatulì della Valle Camonica, dall'accattivante nome dialettale forse esemplifica ancora meglio questa schizofrenia di un mondo corre alla ricerca di prodotti quasi solo per l'evocazione di un nome o dell'immagine di una remota valle di origine (in questo caso una delle valli laterali della stessa Valle Canonica) e trascura tesori che sarebbero più alla portata di mano. II Fatulì è un prodotto da 10 anni presente nell'elenco dei PAT lombardi. Celebrato da riviste specializzate e oggetto di varie trasmissioni televisive domenicali. Trattasi di formaggino (0,3-0,5 kg) di capra affumicato, prodotto esclusivamente con il latte delle capre autoctone Bionde dell'Adamello e fa parte di quei prodotti mitici praticamente introvabili. La domanda ha suscitato un offerta di produzioni ben poco conformi al prodotto originale ottenuto sui pascoli di alta quota della Valle di Saviore.

Per porre un freno alla proliferazione di Fatulì apertamente taroccato il Parco dell'Adamello ha promosso un Presidio Slow Food che è stato presentato in occasione di Cheese. A causa dei vari vincoli che condizionano i produttori tradizionali solo uno di essi dispone di bollo CE e quindi per racimolare un drappello di aziende a norma “igienico-sanitaria" e radunare un minima offerta le maglie del disciplinare hanno dovuto essere allentate comprendendo produttori che hanno acquistato solo di recente capre Bionde e le hanno affiancate alle Camosciate ad alta produzione allevate con sistemi stallini intensivi. Da qui più che una perplessità su questo neo "Presidio" che -a parte altre considerazioni- "salva" sì la capra Bionda, ma chiudendola in stalla. Maschèrpa d'alpeggio e Fatulì, in modo quasi speculare e paradossale, ci dicono che la cultura della valorizzazione dei sistemi di produzione "sotto il cielo" e dei relativi prodotti e, più in generale la cultura della produzione alimentare realmente radicata nel territorio, deve ancora faticare molto a farsi strada. In Lombardia come altrove.