Lo
storico veronese Varanini, in uno studio di quasi
trent'anni fa (1) (ma che è sinora sfuggito a chi si occupa di
storia locale), metteva in evidenza come, nella Verona del
Trecento-Quattrocento, la produzione e il commercio caseario
risultassero largamente controllati da famiglie di Gandino. Alcune di
queste famiglie si radicarono nella città scaligera ed entrarono nel
patriziato locale.
Una premessa
Nel
medioevo (quando la produzione di
formaggio grana in pianura era di là da venire) il commercio
caseario era strettamente legato all'attività d'alpeggio: sui vasti
pascoli delle Prealpi e delle Alpi si radunavano mandrie che fornivano
(con l'aggiunta di latte caprino e ovino) il latte
necessario per produrre le forme di grandi dimensioni di formaggio duro
stagionato, in grado
di essere trasportato senza danno anche con i mezzi dell'epoca (muli e
carri). In pianura
la foraggicoltura. che sfruttava l'irrigazione era ancora ristretta a
limitate aree della bassa Insubria (Lombarda occidentale). Tra
gli allevatori (e casari) si distinguevano i bergamaschi quali
indiscussi specialisti, normalmente operanti in proprio o in società
con elementi locali; a volte anche chiamati da grossi proprietari a
rendere i loro servigi in altre regioni. I mandriani/casari
transumanti erano chiamati (per antonomasia) "bergamaschi"
anche quando non provenivano
dal territorio bergamasco (ma potevano essere anche lecchesi o
bresciani). Nell'area
della bassa pianura delle attuali provincie di Brescia, Mantova,
Verona, Vicenza, Padova, oltre ai coltivi dedicati in larga
misura alla cerealicoltura, erano ancora
ampiamente diffuse le paludi (le “valli”) mentre nella media e
alta pianura vi erano zone ghiaiose aride. I "bergamaschi" utilizzavano
in pianura le aree di pascoli
naturali magri, non troppo aridi o umidi. Durante l'inverno, per il
mantenimento dei bovini era necessario ricorrere alla
somminsitrazione di fronde
arboree ,preventivamente fatte essiccare in autunno, mentre ovini e
caprini (ancora presenti numerosi insieme ai bovini nel Quattrocento)
reperivano più facilmente risorse vegetali
marginali. In questo quadro di allevamento estensivo, praticato tutto
l'anno all'aperto, l'alpeggio era prezioso per la produzione casearia
dal momento che qui le vacche da latte trovavano un pascolo capace di
sostenere una buona produzione . Solo attraverso la proprietà e la
conduzione degli alpeggi
o, comunque, uno stretto contatto (relazioni famigliari, accordi
societari) con chi li gestiva era possibile disporre di formaggi in
quantità (e qualità) tali da sostenere
l'attività commerciale. Questo spiega la stretta connessione tra
allevamento, alpeggio, commercio caseario.
I bergamaschi a Verona e sugli alpeggi dei
Lessini
I malghesi
bergamaschi, veri professionisti
dell'allevamento bovino e del caseificio, si inseriscono
inizialmente nella realtà veronese prendendo in affitto alpeggi di
proprietà ecclesiastiche sui monti Lessini, un comprensorio pascolivo
molto vicino alla città e da essa controllato direttamente (a
differenza delle più comuni realtà d'alpeggio in Lombardia ma anche in
Veneto). La peculiarità di "alpeggio di città" della Lessinia veronese,
ha consentito agli storici di disporre di abbondante documentazione.
L'interesse per la Lessinia è testimoniato, oltre che dal volume in cui
è stato pubblicato lo studio di Varanini, anche da altre
importanti pubblicazioni tra le quali segnaliamo il più recente volume Sulle tracce degli antichi pastori degli
alti Lessini (2).
Verona:
il battistero
Un
aspetto che sorprende della presenza dei bergamaschi
(imprenditori, commercianti, pastori, casari) a Verona riguarda il
numero di gandinesi citati Diversi contratti di affitto di alpeggi
vedono come contraenti proprio
gandinesi. Nel 1397 Gracius,
Betellus e Laurencius de
Gandino
sono affittuari di S. Giacomo e Lazzaro alla Tomba. Fermo da Gandino
è affittuario di S. Maria in Organo e i fideiussori sono Andriolo e
Bettino da Gandino. Questi imprenditori si avvalevano di
pastori (famuli)
anch'essi di Gandino, che svernano
nella campanea in prossimità
della città, a Corno, S. Lucia,
S.Zeno. Troviamo poi un Archegello di Gandino
che, nel 1494, è affittuario S.Maria in Organo.
Quest'ultimo monastero affittava alpeggi alla famiglia Verdelli di
Gandino
e a Comino da Gandino. Archegello in inverno si spostava a
Castagnaro presso Legnago, altra zona importante per lo svernamento
oltre a quella prossima alla città (la campanea), dove svernavano
mandrie che arrivavano a 60-80 bovini. Tra questi gandinesi che
alpeggiano in
Lessinia è citato anche un certo Franzono da Gandino (di cui avremo
modo di riparlare) che svernava nel bresciano, a Calvisano.
Un caso
emblematico dell'affermazione sociale è rappresentato
dalla famiglia Serenelli, discendente da tale Serena beccaio (poi
divenuto nobile). Egli, fin dal 1430 è partecipe di attività di
alpeggio. Nel tempo riuscì a sottrarre quote di
pascolo ad alcuni montanari
indebitati e prese in concessione alpeggi di
proprietà del capitolo della cattedrale (del quale era procuratore
in una lite). Serena, che nel frattempo aveva affiancato la sua
originaria professione a quella di drappiere (attività consona a un
gandinese), inserì gli alpeggi da lui condotti nel complesso delle
proprietà terriere che aveva acquisito e li affidava a “vaccari” di
Barzizza e di
Gandino (che svernavano nelle praterie di proprietà di Campalto
presso S.Martino Buonalbergo). I discendenti di Serena acquistarono
ulteriori quote di pascolo in Lessinia a Corno, Cornesello e Pidocchio
e si
impadronirono anche di quelle del consorzio della Podesteria.
Simile la scalata sociale di Baldassarre Luzaschi (Luzasco de
Gandino), comproprietario, verso il 1420, di quote del “consorzio”
della Podesteria. Luzasco, di famiglia divenuta ricca e autorevole
nella Crema nel Trecento, era immigrato di recente a Verona ma aveva
potuto inserirsi nel contesto dei Lessini
imparentato con malghesi di Calvisano (Brescia) che già caricavano
bestiame su questi alpeggi.
Altra famiglia in vista nell'ambiente
degli originari di Gandino (e dintorni) era quella dei Clerici,
originari di Colzate. Questa famiglia, presente a Verona nel 1420,
era comproprietaria dell'alpe Pidocchio nei Lessini occidentali. I
Clerici, naturalizzati presto cittadini veronesi, avevano magazzini a
Verona e a Legnago dove si commercializzavano panni di lana e
formaggio. Alle dipendenze dei Clerici vi erano vaccari e pastori e
un caxarius. Ai loro
conterranei affidavano in soccida un centinaio
di vacche, una decina di cavalli e almeno seicento pecore. Tra
le famiglie bergamasche che ebbero successo a Verona vanno citati anche
gli Zugnoni che, prima di operare a Verona nel commercio caseario, si
erano
trasferiti a Venezia per commerciare tessuti. Il palazzo Zugnoni, in
via Ponte di Pietra - nel cuore della vecchia Verona - reca
dei fregi sottogronda tra
i quali uno, con due putti seduti su pile di forme di formaggio,
è molto
interessante perché si tratta di forme di grandi dimensioni e con lo
scalzo concavo, uguali a quelle del formaggio grasso d'alpe delle
Orobie (bitto/branzi). Era il formaggio bergamasco importato a Verona e
commercializzato dagli Zugnoni (e da altri commercianti di origine
bergamasca) o quello che i bergamaschi producevano sugli alpeggi
della Lessinia? Più probabile la prima.
Se, nel
Quattrocento, pur in presenza di mandrie che si accompagnavano
ancora a capre e pecore, l'attività dei bergamaschi è già
caratterizzata
dall'allevamento bovino e dalla lavorazione del latte
vaccino (una vera e propria prerogativa “etnica”), nel
Cinquecento con la crisi generalizzata del lanificio e il profilarsi
del nuovo business della seta, l'orientamento diventa esclusivo,
mentre l'elemento montanaro locale continua a orientare l'alpeggio
sulla base di un equilibrio tra bovini ed ovini (questi ultimi legati
a una manifattura locale di bassa qualità finalizzata
all'autoconsumo e al piccolo commercio).
Un contesto che
rimaneva transumante
Tra
i bergamaschi (e i bresciani) che gestivano le attività
d'alpeggio nella Lessinia è probabile che, mentre alcuni si
siano stabiliti definitivamente in territorio veronese svernandovi
con il bestiame e dedicandosi al commercio
caseario,
altri continuassero a transumare tra il veronese e le terre
d'origine. Già si è visto che alcuni svernavano a Calvisano nella
bassa pianura bresciana. La conferma del permanere di una transumanza
a lungo raggio, tra la bergamasca e il veronese ci è offerta da una
osservazione di uno dei malghesi di origine bresciana: Francesco de
Franze da Calvisano che nel 1405, in occasione della guerra tra
Venezia e Padova: aliquis de
partibus brisientibus et bergomensibus
non venit cum aliquibus bestiisad pasculandum super Lessinis.
Questo quadro è coerente con il carattere “fluido” della
transumanza di quei secoli. Innanzitutto il malghese poteva non fare
ritorno alle valli di origini e rimanere per anni (o per sempre) in
pianura, in secondo luogo era possibile che dalle aree di svernamento
si dirigesse per l'alpeggio verso montagne diverse dalle proprie.
Quello che è certo è che con lo sviluppo dell'agricoltura le aree
incolte adatte allo svernamento intorno a Verona si fecero sempre
più limitate constringendo i malghesi veronesi (nei quali l'elemento
"cimbro" divenne nei secoli prevalente) a praticare la
transumanza verso il mantovano, bresciano e cremonese.
Il quasi monopolio lombardo dell'ars formagierorum
La
prevalenza dei lombardi e, in particolare, dei bergamaschi tra
le fila degli esercenti l'ars
formagierorum a Verona nel Quattrocento
è deducibile dalle iscrizioni alla corporazione nel ventennio
1441-1458. In questo periodo, su un totale di 360 persone che entrano
a far parte della corporazione, il 60% sono lombardi, con i
bergamaschi che rappresentano i 4/5 dei lombardi. Essi provengono per
la maggior parte da Gandino, Barzizza, Gazzaniga, qualcuno da
Bergamo, Zogno, Clusone, Val S.Martino, Caravaggio. Gli altri
lombardi sono valtellinesi, comaschi, cremonesi, bresciani, milanesi.
Varanini ritiene che anche tra il 30% di iscritti di Verona (città e
territorio) potevano figurare molti altri lombardi di seconda
generazione. Si configura pertanto una specie di monopolio del
settore che definisce la presenza degli operatori zoocaseari
bergamaschi a Verona quale fenomeno del tutto diverso rispetto alla
pur intensa generale emigrazione bergamasca che interessa nel
Quattrocento tutto il Nord-est. La presenza dei vacarii di
Gandino non fu comunque esclusiva di Verona. In misura molto meno
rilevante essi erano attestati anche nel vicentino occidentale e nei
Berici.
L'egemonia
dei bergamaschi è confermata dal fatto che in
più occasioni i gandinesi (Luzaschi, Tartaglia) rivestirono la
carica di massaro (presidente diremmo oggi) della corporazione. Nel
1485 Pietro Pantini è invece
gastaldo (segretario diremmo oggi) della corporazione e, allo stesso
tempo, commercia in grande
stile in suini, ma anche in panni. Alcune famiglie (Pantini di
Gandino, Vèrtua di Vèrtova) fecero una non disprezzabile
fortuna tra le fila del patriziato minore nel Cinque-Seicento.
Significativo dello stretto rapporto di Verona con la Lombardia anche
il fatto, caso unico in veneto, che l'edificio dell'alpe
adibito alla fabbricazione e conservazione del formaggio venga
indicato, alla lombarda, come cassina.
Tipico
fabbricato di malga dei Lessini fino al XIX secolo (quando il legno e
la paglia furono sostituiti dalla pietra)
Lo scambio caseario tra Verona e la
Lombardia orientale
La presenza
e la fortuna dei bergamaschi a Verona coincide con il
periodo del domino visconteo, che può aver favorito gli interessi dei
lombardi. Lo prova il fatto che, intorno al 1400 sul mercato veronese,
a fronte di una forte corrente di importazione dalla bergamasca di
formaggio (tam dulci quam forti),
di mascherpa, di lino e di scarpe,
Gian Galeazzo Visconti rifiuti di applicare una tassa a favore del
comune come richiesto dagli amministratori cittadini. In realtà il
forte rapporto tra l'area lombarda e il veronese risaliva a secoli
prima e continuò ancora per altri secoli sino a tempi a noi vicini.
Già dall'inizio del Duecento era attiva la transumanza
tra la pianura mantovana (le aree a nord di Mantova) e gli alpeggi
veronesi. Essa era regolamentata e favorita dai Gonzaga che ne traevano
utili non disprezzabili. Questo tipo di transumanza era destinato a
durare sino a
Novecento inoltrato, così come la corrente di importazione di
formaggi bergamasco-bresciani a Verona e di formaggio veronese a
Brescia e Bergamo. Una tendenza di lungo periodo, non c'è che
dire.
Qualche considerazione
Ci si può
chiedere se la sorprendente egemonia gandinese nel commercio caseario
veronese sia da ascrivere alla loro grande intraprendenza
commerciale o anche a una loro particolare competenza casearia. Le
due cose probabilmente andavano di conserva. Alcuni episodi della
stessa epoca mettono in evidenza la grande capacità "manovriera" dei
gandinesi ma suggeriscono anche l'ottima qualità del loro formaggio.
Durante il periodo delle guerre tra Venezia e Milano i gandinesi
riuscirono sempre ad attestare la loro fedeltà a chi al momento
prevaleva (veloci a cambiare gabbana). Nel 1427, per appoggiare
le proprie istanze a Venezia, e veder
riconfermati i privilegi, un gandinese si trattenne 41 giorni a
Venezia ingraziandosi il conte di Carmagnola (destinato poi a
triste fine) con imprecisate quantità di
formaggio (3). Nel 1437 la comunità di Gandino donò,
in occasione della battaglia di Ponteranica, quattro forme di
formaggio (da 8,5 kg l'una) a Datesalvo Lupi e ad altri capitani
marcheschi (4). Non si può dubitare della qualità del formaggio di
Gandino se esso veniva sistematicamente utilizzato per omaggiare i
potenti. offrirne del mediocre sarebbe stato pericoloso. Tale qualità,
però, nel tempo si deve essere degradata; spente le glorie dei
bergamini, che praticavano transumanze e commerci a lungo raggio, il
caseificio gandinese ha conosciuto un netto depotenziamento che si è
tradotto nella cultura (minore) della formaggella. Effetto della
marginalizzazione dell'attività pastorale in un contesto industriale
forte come quello di Gandino (5).
Ci si può
chiedere infine cosa sia rimasto del monopolio del commercio
caseario veronese detenuto dai bergamaschi nel medioevo. La
risposta la fornisce uno studio molto più recente (6) che riporta un
elenco del 1740 degli appartenenti alla corporazione dei formaggiai
di Verona. Vi troviamo 6 Locatelli, 4 Cassi, 3 Carminati, 2 Manzoni,
2 Previtali, 2 Scanzi , 1 Invernizzi, 1 Invernici, 1 Arrigoni, 1
Salvi, 1 Rovelli, 1 Facchinetti, 1 Piazza.. Segno che la pianta
bergamasca aveva
messo radici. Segno di una particolare vocazione per l'allevamento
bovino e l'arte casearia delle genti delle Orobie, capace di
influenzare
l'economia e la cultura zootecnica e casearia di buona parte della
pianura padana.
Note
1) Gian
Maria Varanini. (Una montagna per la città. Alpeggio e
allevamento nei Lessini veronesi nel Medioevo (secoli IX.-XV.). in P.
Berni, U. Sauro (a cura di) Gli alti
pascoli dei Lessini veronesi.
Natura storia cultura, Verona , La grafica, 1991. pp. 1-75.
2) Mara
Migliavacca, Vincenzo Pavan Editrice, Tracce di antichi pastori negli alti
Lessini, Verona, La Grafica, 2013;
3) P.
Gelmi, P. Suardi, Gandino. La storia, Comune di
Gandino, Gandino, 2012, p. 117
4) .Ivi, p.
124
5) Per
l'ininterrotta tradizione di industria laniera a Gandino http://www.ruralpini.it/Lana_Valgandino_la_storia_riparte.html
6) Valeria
Chilese, “«Una delle più antiche arti di questa
città»: la corporazione dei formaggeri a Verona in età
moderna”, in Studi Veronesi. Miscellanea di studi sul territorio
veronese. II, Verona 2017, pp. 125-172.
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