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L'idolatria boschiva:
cosa c'è dietro



di Michele Corti


(24-03.19) La superficie forestale ha superato nel 2018 quella agricola, rappresenta il 40% del territorio nazionale contro  l'11% del 1950.  L'Italia à dunque un paese ricco di boschi (di che qualità?) e gli ambientalisti da salotto (ma anche tanti esperti con il paraocchi) giubilano. Il 21 marzo era la giornata mondiale della foresta (e noi trogloditi che pensavamo fosse quella della primavera!) e Repubblica ha usato toni particolarmente enfatici nel commentare il sorpasso delle foreste sull'agricoltura, tanto da salutare questa riforestazione come una "rivincita della natura", caricando il tutto di messaggi ideologici.



 Intanto a chiarire il senso di questi processi socioecologici, avanza il cemento, sospinto dagli stessi interessi economici che sostengono i giornaloni progressisti (e sponsorizzano l'ambientalismo di comodo mainstream). Avanza con i mega centri logistici ma anche con insediamenti residenziali di lusso e le grandi opere inutili (ma utilissime a lubrificare l'industria dell'appalto truccato e della tangente).  Quanto all'agricoltura industriale, alla faccia delle "misure agroambientali" che incentivavano timide piantumazioni, è sempre più una steppa senz'alberi, senza siepi, senza canti, senza nidi, senza uccelli (tranne i corvidi e i sinantropi come i piccioni torraioli e il gabbiano reale), con tanti pesticidi.
Ma la bella notizia (per loro) è che "aumentano i terreni abbandonati e il bosco li riprende".  Non ci vuole molto a capire che avanzata del cemento e abbandono dell'agricoltura sono fenomeni spinti dallo stesso motore che si chiama globalizzazione, economia neoliberale. Questo smaccato tifo di Repubblica per il bosco e per la ritirata dell'agricoltura va in controtendenza rispetto ad alcune "aperture" da parte ambientalista, ovvero a quei segnali di preoccupazione per la perdita di superfici agricole e pastorali manifestate di recente (2016) niente meno che dal National Geographic (sia pure accompagnate da commenti isterici degli sconcertati lettori - i classici ambientalisti da salotto buono - che trovano inverosimile preoccuparsi per l'estensione del sacro bosco). E cosa dire della stessa Repubblica che, nel 2009, accoglieva uno splendido articolo di Paolo Rumiz che definiva una "lebbra" l'avanzata delle inestricabili boscaglie, del deserto verde che cancella paesaggi culturali millenari e le trestimonianze di una civiltà fatta di villaggi aggrappati alle montagne come di città.



Non pensiamo che questi peana al bosco che sostituisce l'agricoltura siano solo il frutto della stupidità dei giornalisti o di consapevole conversione in massa al neo-paganesimo, dobbiamo riflettere su cosa ci sia dietro. Ad un primo livello la risposta potrebbe rimandare a determinanti socio-culturali: il Italia, unico paese europeo la "satira del villano", il disprezzo razzista per il contadino, nati nel medioevo, si sono perpetrati sino all'età contemporanea. Quanto più l'Italietta dei Savoia si collocava come il paese più rurale dell'Europa occidentale, tanto più la maggioranza contadina era trattata, per il timore di rivolte, con il pugno di ferro, le tasse spoliatrici e... il disprezzo da quella esigua oligarchia al comando (votava il 2% della popolazione). Non solo i "civili" (maesti, medici, farmacisti, avvocati, speziali) ma anche le classi popolari urbane condividevano il disprezzo per i "cafoni", "paisan", "bifolchi", "zappaterra". Il sedimento lasciato da questa cultura è notevole e viene da pensare che il tifo per il bosco da parte delle attuali classi medie urbane (per quanto largamente di origine rurale) rappresenti un riflesso di questa storia di contrapposizione città-campagna, in Italia risolta sempre, dall'epoca comunale in poi, con la sottomissione coloniale del mondo rurale, privato del tutto di proprie elite grazie all'imposizione della residenza cittadina dei proprietari terrieri (pena tasse esorbitanti e condizione di cittadini di serie B in ambito giudiziario).


Piantagioni artificiali bostricate e senza rinnovazione naturale:
i risultati dei tanto incensati rimboschimenti


Il bosco, sottratto precocemenmte al controllo delle comunità contadine in pianure e gestito spesso direttamente dalle città e dai signori (quando non dai re), è stato,  anche in montagna, gestito poi direttamente (demani) o indirettamente (proprietà private)  dallo stato con la sua espertoburocrazia formata alle accademie forestali.  Vuoi mettere il prestigio di una "foresta reale" o quanto meno "demaniale", erede di antichi blasonati proprietari, grandi abazie, insomma gente altolocata che per i noti meccanismi transitivi conferisce alle cose usate e possedute in modo caratteristico da determinati gruppi sociali una patente di nobiltà o, al contrario, di spregevolezza (così si spiega come il cavallo - associato con il potere, il prestigio e la violenza - sia animale nobile e l'asino, non meno intelligente, ... la metafora della stupidità).
Il bosco ha rappresentato il polo della razionalità, della scienza applicata al territorio, della previdente pianificazione, dell'investimento oculato e paziente, laddove l'immaginario dei ceti medi, nutrito di tanta letteratura anticontadina, ha visto nei campi e nei pascoli il dominio dell'ignoranza e dell'irrazionalità, della volontà quasi animalesca di strappare il più possibile e il più immediatamente possibile un qualsivoglia frutto alla terra .


Vallombrosa: la sede della prima scuola forestale italiana (1869)  nell'antico monastero del potente e ricco ordine vallobrosiano al centro dell'omonima foresta

Ovviamente non era vero che i contadini gestissero in modo irrazionale le loro riserse. Furono la pressione delle tasse spietate e del mercato ineguale a rompere equilibri ecologici di lunga durata e a costringerle i montanari a un uso eccessivo delle risorse. Ma i borghesi, e una scienza socialmente connotata, continuano a fingere di ignorare tutto ciò e ad attribuire ai contadini di montagna, irrazionali e ignoranti, la "distruzione dei boschi".
Dietro a tutto ciò dobbiamo però intravedere anche un aspetto economico: il bosco piace perché entrava nell'economia di mercato, perché legna da opera e da ardere facevano girare l'economia e creavano profitti commerciali e industriali. I campicelli, i prati i pascoli sono stati quasi sempre lagati all'economia di sussistenza che, fino a che è rimasta vitale, ha tenuto fuori il mercato dalle aree rurali o largamente limitata la penetrazione. Poi, una volta scardinate le sue basi, non solo si è imposto il mercato (che acquista a poco da contadini e vende a molto) ma si è anche determinata la proletarizzazione, la necessità della vendita della forza lavoro a basso costo. Campi, prati, pascoli non sono simpatici alla cultura dominante perché consentivano l'indipendenza del contadino nel quadro dell'autosufficienza (eventualmente integrata da attività artigianali e da emigrazioni temoranee, spesso qualificate).


Effetti del bostrico (coleottero)

La razionalità della scienza forestale applicata, il compito "eroico" di ricostruzione attraverso i rimboschimenti del patrimonio forestale distrutto dai contadini, contribuirono alla costruzione di una narrazione e di una retorica dell'albero e del rimboschimento che da Benito e Armaldo Mussolini ai Verdi non ha soluzione di continuità. Rimboschire equivaleva a opera patriottica (poi ambientalista, ma non ha fatto molta differenza). L'ecologia ci spiega, però, che i disastri ecologici perpetrati dai forestali (in senso lato) hanno fatto impallidire i danni (ingigantiti a bella posta) delle capre. Gli esotici pino nero, douglasia, lo stesso abete rosso piantato al di fuori del suo habitat, hanno causato incendi devastanti, diffusione di insetti fitofagi,  impedimento della rinnovazione naturale, produzione di legname di nessun valore economico, suscettibilità agli schianti, acidificazione del terreno, declino della biodiversità. Tutto questo gli ambientalisti da salotto non lo vedono e non lo sanno. Guardano i boschi dall'automobile e gli sembrano "belli verdi". Non sanno che vedono solo l'involucro sottile del bosco, quello che riceve la luce alla sommità e sulle fasce laterali dell'impianto.



Non importa. I forestali (e gli ambientalisti) che hanno lasciato il boscaiolo a fare da comprimario, sono portatori della scienza e della razionalità e indossano belle divise, i contadini , i pastori sono ignoranti, lerci e puzzano. Il bosco profuma di resina, gli stazzi, le stalle puzzano di sterco. E' un buon odore se lo sterco è gestito bene ma per un naso socialmente condizionato dal pregiudizio sociale, è puzza.
Il bosco gratifica socialmente (se non vi lavori manualmente), la stalla, il duro lavoro dei campicelli sono associati a inferiorità sociale. Basta però passare la "frontiera nascosta" tra Trentino e Südtirol per scoprire che, miracolo, la stalla conferisce altrettana rispettabilità sociale del lavoro in bnosco, forse, anzi, di più.   


La passione dei forestali per le belle divise

La pervicacia con la quale si continua in Italia a idolatrare il bosco, cosa bella e utile in sé a priori, costringe, però, a porsi ulteriori domande. Allora non si può fare a meno di pensare che se è vero che c'è un condizionamento culturale però deve esserci anche qualcosa d'altro che sfrutta questo condizionamento, questo conformismo, questi pregiudizi. E allora viene da pensare che gli interessi forti, quelli che spingono per la globalizzazione e la perdita di sovranità, hanno un forte interesse a dipingere in modo positivo - con la vernice verde dell'inganno - processi che di "naturale" hanno ben poco.
Al di là delle tendenze dell'economia è evidente a tutti che le aree interne, la montagna, l'azienda contadina sono state penalizzate dalle politiche europee e dalla burocrazia. Nulla è più ingiusto che applicare pari criteri a chi è in condizioni di disuguaglianza, diceva don Milani, ma è quello che hanno messo in atto le "norme europee".
E cosa pensare poi dell'accumulo storico di leggi vincolistiche a tutela del bosco, tutt'ora largamente in vigore, dei divieti di pascolo, dei divieti di utilizzare il bosco (per esempio per raccogliere le foglie secche) secondo quelle modalità multifunzionali che la civiltà contadina ha praticato per millenni, sapendo bene però quali boschi riservare a fini protettivi e quindi gestire in forma differente.


Gli effetti del disboscamento

Per rimediare agli estesi fenomeni di disboscamento che interessarono le nostre montagne, ma la cui responsabilità è da attribuire in larga parte agli speculatori borghesi che - tra Sette e Ottocento - usurparono, con il beneplacito dello stato, le proprietà collettive e, solo in secondo luogo, alla miseria dei contadini colpiti dalle tasse e dagli stessi espropri dei beni comuni cosa fece lo stato liberale?  Rimediò o tentò di rimediare, quando era ormai tardi, con disposizioni che generalizzavano vincoli e divieti opprimendo ancora una volta i contadini. In tempi recenti, sotto la spinta degli ambientalisti da salotto, le norme forestali sono state rese ancor più restrittive, sino a prevedere centinaia di euro di multa per il taglio di una pianticella. In un contesto dove, caso unico al mondo, ma con precisi precedenti napoleonici e mussoliniani, il corpo forestale invece che essere tecnico era poliziesco (però guai a farlo confluirecon un'altra polizia nel paese delle sei polizie).



Oggi ci rendiamo conto che l'esaltazione dell'avanzata del bosco è un modo ipocrita per nascondere che il quasi trascurabile (sul piano planetario) aumento delle foreste, che si registra da noi, ha alla base gli stessi processi economici, sociali e politici che spingono l'ulteriore crescita urbana ma determinano, a ritmo spaventoso, anche la deforestazione senza sosta in estremo oriente e in sudamerica dove vi sono le più grandi foreste del pianeta. Non è finita, però, perché oggi ci stiamo rendendo anche conto che c'è una forte pressione da parte del capitalismo neoliberale  a trasformare lo spazio rurale in wilderness da sfruttare e controllare  a suo piacimento togliendo di mezzo abitanti, pastori, contadini, allevatori.  Abbiamo capito che le aree interne e, soprattutto, la montagna europea sono considerate allo stesso modo delle foreste del Gabon, ovvero spazi da "ripulire" dalla presenza umana, così come gli ambientalisti deportano i pigmei delle foreste pluviali e i popoli tribali da quelle del Deccan in modo che non ci sia qualcuno in grado di accampare diritti, in modo da avere le mani libere nello sfruttamento delle risorse. Sono buonisti.



Le Alpi sono la più grande riserva idrica d'Europa e la prospettiva di trasformarle in un grande parco alla Yellowstone rimuovendo la popolazione da tutte le vallate secondarie è estremamente allettante nella prospettiva che l'acqua dolce e pulita divenga il nuovo petrolio. I crescenti sospetti che dietro le sempre più frequanti e gravi siccità vi siano delle manipolazioni del clima ("giustificate" e confuse con il climate change) ma anche la certezza che ben poco si fa per evitare la contaminazione delle acque con sostanze chimiche pericolose per la salute, tendono a rafforzare i timori per il "ricatto idrico", per la trasformazione del controllo dell'acqua pura in uno strumento di potere (otre che di profitto)  senza confronti nella storia umana. Ma una volta che le comunità locali collasseranno (l'avanzata del bosco e la proliferazione dei lupi contribuiscono a questo) anche la risorsa legno, il cui sfruttamento oggi è frenato da norme vincolistiche, sia pure in parte modificate (sotto la pressione delle lucrose centrali elettriche a cippato), sarà liberalizzata. Non ci meraviglieremmo se anche la caccia venisse liberalizzata in funzione di grossi business.



Quanto al cibo, alla continua perdita di terreni agricoli appare evidente che gli interessi forti, legati alla globalizzazione,  trovino  più conveniente importarlo. Al sistema neoliberale conviene restringere l'attività agricola 
ai terreni di pianura dove è possibile praticare l'agricoltura industriale che è ottima fornitrice all'industria di materie prime a prezzi vili e che, in compenso, è una vorace consumatriche di beni industriali (chimica in primis).
Anche l'agricoltura industriale è però destinata a cedere sempre più  superfici al
cemento e ai parchi considerata la voglia del capitalismo di produrre cibo al di fuori dei sistemi agricoli e di sostituire gli umani con i robot che consumano solo elettricità. A livello nazionale e mondiale. intanto, una superficie agricola ridotta consuma più input industriali che una superficie ampia, gestita in forme estensive e con moderati input di beni industriali. Le prospettive del profitto, però, vanno anche più in là e spingono ad allevamenti e coltivazioni senza terra. Agricoltura e capitalismo non sono termini facilmente conciliabili. Abbandono e supersfruttamento della terra (salvo renderla sterile nel lungo periodo) sono condizioni di massimizzazione del profitto.



La prospettiva, estremamente inquietante è quella di un'umanità addensata nelle grandi megalopoli dove è facile prevedere che le condizioni di vita sempre più artificiali e la diffusione di nuove malattie consentiranno quel controllo malthusiano della popolazione tanto invocato dalle cassandre ambientaliste a partire dalle famose previsioni fake dei tecnocrati del "club di Roma" negli anni '60. Il resto del pianeta  suddiviso tra  "aree protette" e  di sfruttamento agricolo, minerario, forestale intensivo, entrambe proiezioni delle città e sotto il controllo della logica neoliberale.
Zero aree rurali. Zero attori rurali. Gli ambientalisti approvano. Il progresso avanza. L'umanità arretra. Repubblica esulta.



Ambiente


Ghiacciai alpini inquinati dai pesticidi
(17.03.19) I risultati di un gruppo di ricerca dell'Università Bicocca, ricavati dallo studio delle acque di fusione di sei ghiacciai alpini, mettono in evidenza la gravità del fenomeno. e dovrebbero far riflettere chi ha fiducia nell'ambientalismo neoliberale che fa credere che creando i parchi e reintroducendo il lupo si possa proteggere e ricreare una natura "incontaminata".
Ambientalismo, neocolonialismo, capitalismo: violenza ed ecoingiustizia contro gli ultimi
(23.02.19) La gestione delle aree protette nei paesi ex-coloniali rappresenta l'ambito nel quale è più evidente la continuità con il vecchio colonialismo. In nome della tutela della natura le grandi organizzazioni ambientalistiche gestiscono floridi business e non hanno esitato a scacciare con l'inganno, a volte anche con la violenza,  milioni di persone 
dalle loro sedi ancestrali

 Il lupo riduce la biodiversità alpina
(29.12.18)  Materiali per un manifesto pro pastoralismo, contro la diffusione del lupo   sulle Alpi 

Le radici storiche e ideologiche del beceroanimalismo
(09.12.18) L'Italia le circostanze storico-sociali hanno prodotto una cultura fortemente antirurale lontana anche dalla dimensione naturale concreta. Nella realtà contemporanea su questo sfondo si è sviluppato un animalismo ben poco ecologico, molto ideologico che sconfina nel culto pagano e che reitera i cliché anticontadini 

Animalismo, biocapitalismo, ecototalitarismo

(30.06.15)   Proseguiamo la riflessione sul biocapitalismo e le ideologie ambientaliste allargando la riflessione all'animalismo che in modo più esplicito e violento nega il valore della vita umana. Esso si presenta come un perfetto strumento per legittimare i paradigmi del nuovo biocapitalismo in cui l'uomo diventa una merce da fabbricare e la vita umana può essere rliminata senza particolari scrupoli (come e peggio che nei Gulag e nei Lager) 

Gli orsi sparigliano politica e istituzioni 
(01.09.14) Le destre cavalcano l'animalismo ma rischiano di scottarsi (loro e la sinistra)  La gestione degli orsi trentini è scappata di mano. Il conflitto sociale, ideologico, territoriale innescato dall'aver sovraccaricato Life Ursus di valenze di ogni tipo impatta in modo imprevedibile sulla politica

 
L'imbroglio ecologico (IV e ultima parte)
(09.12.13) Nella storia di Legambiente si rispecchia un ambientalismo di regime, apparato di controllo sociale e di "acculturazione" funzionale alla greed economy turbocapitalista. Con un "pensiero ecologico" debole appiattito sulla modernità e l'ideologia scientista, tecnocratica. Centralismo comunista accoppiato con i meccanismi delle corporation. Ma il dissenso cresce.
 
 L'imbroglio ecologico (parte III)
(02.12.2013) Dalla critica al capitalismo della prima ecologia politica alla partecipazione all'affarismo della green economy. L'ambientalismo, nel solco del progressismo illuminista,  come supporto ideologico e cosmetico al biocapitalismo dello sfruttamento integrale 
 
L'imbroglio ecologico (parte II)
(16.11.2013)  La nascita dell'ambientalismo come movimento sociale negli anni '80. I condizionamenti sulla nascita del movimento ambientalista del travaso dell' "eccesso di militanza" dalla "sinistra rivoluzionaria" e dell'egemonia culturale del PCI. La divaricazione tra localismo e ambientalismo quale occasione mancata. La necessità di andare oltre la sinistra (e la destra) per recuperare spazi di autonomia sociale 
 
 L'imbroglio ecologico (ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali nell'era del capitalismo neoliberista)(I)
(07.11.2013) Oggi l' ambientalismo è la proiezione della Green economy capitalista e i movimenti devono imboccare con coraggio nuove strade, oltre la sinistra e la destra e oltre l'ambientalismo per una nuova autonomia dei soggetti e delle comunità popolari. L'imbroglio ecologico è finito perché il ruolo dell'ambientalismo istituzionale è palesemente di controllo sociale. Prima parte di un ampio contributo che ripercorre la storia dei rapporti tra ambientalismo, sinistra, capitalismo e movimenti sociali dai primordi del movimento ambientalista ad oggi.  
 
Per una gestione comunitaria delle risorse e dei problemi ambientali (IV)
(08.01.13) Attorno ai problemi, dei rischi per la salute legati alla nocività ambientale e alla volontà di gestire in positivo le risorse territoriali sta crescendo nel mondo un movimento post-ambientalista. 

Dalla tecnocrazia alla scienza comunitaria (III)
(02.01.13) La tecnocrazia ha imposto un modello di scientificizzazione della politica che svuota la democrazia. Si è imposta anche nella forma di "ecopotere" con il pretesto della "tutela della natura dall'uomo". La riduzione del rischio presuppone però una strada diversa, quella di una scienza civica e comunitaria e più ampi spazi di democrazia
 
Ripensare la relazione tra la natura e la società (II)
(02.01.13)  L'affermazione di una gestione partecipata dei problemi ambientali e delle risorse è indispensabile per fronteggiare crescenti rischi e la tendenza tecnocratica a concentrare decisioni con pesanti implicazioni sociali nelle mani di pochi e sulla base di incerti presupposti scientifici. Per muoversi in questa direzione, però, è necessaria una profonda revisione di alcuni fondamenti ideologici della modernità e della "civiltà occidentale" e dello stesso ruolo della scienza. 

Oltre l'ambientalismo istituzionale crescono nuove reti (I)

(01.12.12) Da una ventina di anni in qua sta emergendo un post-ecologismo "di base" non ideologico che opera nella dimensione del monitoraggio ambientale e della stessa gestione sostenibile e partecipata delle risorse
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