Condividi
L'idolatria boschiva:
cosa c'è dietro
di
Michele Corti
|
(24-03.19)
La
superficie forestale ha superato nel 2018 quella agricola, rappresenta
il 40% del territorio nazionale contro l'11% del 1950.
L'Italia à dunque un paese ricco di boschi (di che qualità?) e gli
ambientalisti da salotto (ma anche tanti esperti con il paraocchi)
giubilano. Il 21 marzo era la giornata mondiale della foresta (e noi
trogloditi che pensavamo fosse quella della primavera!) e Repubblica ha
usato toni particolarmente enfatici nel commentare il sorpasso delle
foreste sull'agricoltura, tanto da salutare questa
riforestazione come una "rivincita
della natura",
caricando il tutto di messaggi ideologici.
Intanto a chiarire il senso
di questi processi socioecologici, avanza il cemento,
sospinto dagli stessi interessi economici che sostengono i giornaloni
progressisti (e sponsorizzano l'ambientalismo di comodo mainstream).
Avanza con i mega centri logistici ma anche con insediamenti
residenziali di lusso e le grandi opere inutili (ma utilissime a
lubrificare l'industria dell'appalto truccato e della tangente).
Quanto all'agricoltura industriale, alla faccia delle "misure
agroambientali" che incentivavano timide piantumazioni, è sempre più
una steppa senz'alberi, senza siepi, senza canti, senza nidi, senza
uccelli (tranne i corvidi e i sinantropi come i piccioni torraioli e il
gabbiano reale), con
tanti pesticidi.
Ma la bella notizia (per loro) è che "aumentano i
terreni
abbandonati e il bosco li riprende". Non ci vuole molto a capire che avanzata del cemento e abbandono
dell'agricoltura sono fenomeni spinti dallo stesso motore che si chiama
globalizzazione, economia neoliberale. Questo smaccato tifo di Repubblica
per il bosco e per la ritirata dell'agricoltura va in controtendenza
rispetto ad alcune "aperture" da parte ambientalista, ovvero a quei
segnali di preoccupazione per la perdita di superfici agricole e
pastorali manifestate di recente (2016) niente meno che dal National
Geographic (sia pure accompagnate da commenti isterici degli
sconcertati lettori - i classici ambientalisti da salotto buono - che
trovano inverosimile preoccuparsi per l'estensione del sacro bosco). E
cosa dire della stessa Repubblica che, nel 2009, accoglieva uno
splendido articolo
di Paolo Rumiz che definiva una "lebbra" l'avanzata delle
inestricabili boscaglie, del deserto verde che cancella paesaggi
culturali millenari e le trestimonianze di una civiltà fatta di
villaggi aggrappati alle montagne come di città.
Non
pensiamo che questi
peana al bosco che sostituisce l'agricoltura siano solo il frutto della
stupidità dei giornalisti o di consapevole conversione in massa al
neo-paganesimo, dobbiamo riflettere su cosa ci sia dietro.
Ad un primo livello la risposta potrebbe rimandare a determinanti
socio-culturali: il Italia, unico paese europeo la "satira del
villano", il disprezzo razzista per il contadino, nati nel medioevo, si
sono perpetrati sino all'età contemporanea. Quanto più l'Italietta dei
Savoia si collocava come il paese più rurale dell'Europa occidentale,
tanto più la maggioranza contadina era trattata, per il timore di
rivolte, con il pugno di ferro, le tasse
spoliatrici e... il disprezzo da quella esigua oligarchia al comando
(votava il 2% della popolazione). Non solo i "civili" (maesti, medici,
farmacisti, avvocati, speziali) ma anche le classi popolari urbane
condividevano il disprezzo per i "cafoni", "paisan", "bifolchi",
"zappaterra". Il sedimento lasciato da questa cultura è notevole e
viene da pensare che il tifo per il bosco da parte delle attuali classi
medie
urbane (per quanto largamente di origine rurale) rappresenti un
riflesso di questa storia di contrapposizione
città-campagna, in Italia risolta sempre, dall'epoca comunale in poi,
con la sottomissione coloniale del mondo rurale, privato del tutto di
proprie elite grazie all'imposizione della residenza cittadina dei
proprietari terrieri (pena tasse esorbitanti e condizione di cittadini
di serie B in ambito giudiziario).
Piantagioni artificiali bostricate e senza rinnovazione naturale:
i risultati dei tanto incensati rimboschimenti
Il
bosco, sottratto precocemenmte al controllo delle comunità contadine
in pianure e gestito spesso direttamente dalle città e dai signori
(quando non dai re), è stato, anche in montagna, gestito poi
direttamente (demani) o indirettamente (proprietà private) dallo
stato con la sua espertoburocrazia formata alle accademie
forestali. Vuoi mettere il prestigio di una "foresta reale" o
quanto meno "demaniale", erede di antichi blasonati proprietari, grandi
abazie, insomma gente altolocata che per i noti meccanismi transitivi
conferisce alle cose usate e possedute in modo caratteristico da
determinati gruppi sociali una patente di nobiltà o, al contrario, di
spregevolezza (così si spiega come il cavallo - associato con il
potere, il prestigio e la violenza - sia animale nobile e l'asino, non
meno intelligente, ... la metafora della
stupidità).
Il bosco ha rappresentato il polo della razionalità, della scienza
applicata al territorio, della previdente pianificazione,
dell'investimento oculato e paziente, laddove l'immaginario dei ceti
medi, nutrito
di tanta letteratura anticontadina, ha visto nei campi e nei pascoli il
dominio dell'ignoranza e dell'irrazionalità, della volontà quasi
animalesca di strappare il più possibile e il più immediatamente
possibile un qualsivoglia frutto alla terra .
Vallombrosa:
la sede della prima scuola forestale italiana (1869) nell'antico
monastero del potente e ricco ordine vallobrosiano al centro
dell'omonima foresta
Ovviamente non era vero
che i contadini gestissero in modo irrazionale le loro riserse. Furono
la pressione delle tasse spietate e del mercato ineguale a rompere
equilibri ecologici di lunga durata e a costringerle i montanari a un
uso eccessivo
delle risorse. Ma i borghesi, e una scienza socialmente connotata,
continuano a fingere di ignorare tutto ciò e ad attribuire ai contadini
di montagna, irrazionali e ignoranti, la "distruzione dei boschi".
Dietro a tutto ciò dobbiamo però intravedere anche un aspetto
economico: il bosco piace perché entrava nell'economia di mercato,
perché legna da opera e da ardere facevano girare l'economia e creavano
profitti commerciali e industriali. I campicelli, i prati i pascoli
sono stati quasi sempre lagati all'economia di sussistenza che, fino a
che è rimasta vitale, ha tenuto fuori il mercato dalle aree rurali o
largamente limitata la penetrazione. Poi, una volta scardinate le sue
basi, non solo si è imposto il mercato (che acquista a poco da contadini
e vende a molto) ma si è anche determinata la proletarizzazione, la
necessità della vendita della forza lavoro a basso costo. Campi, prati,
pascoli non sono simpatici alla cultura dominante perché consentivano
l'indipendenza del contadino nel quadro dell'autosufficienza
(eventualmente integrata da attività artigianali e da emigrazioni
temoranee, spesso qualificate).
Effetti del bostrico (coleottero)
La razionalità della scienza forestale applicata, il compito "eroico"
di ricostruzione attraverso i rimboschimenti del patrimonio forestale
distrutto dai contadini, contribuirono alla costruzione di una
narrazione e di una retorica dell'albero e del rimboschimento che da
Benito e Armaldo Mussolini ai Verdi non ha soluzione di continuità.
Rimboschire equivaleva a opera patriottica (poi ambientalista, ma non
ha fatto molta differenza). L'ecologia ci spiega, però, che i disastri
ecologici perpetrati dai forestali (in senso lato) hanno fatto
impallidire i danni (ingigantiti a bella posta) delle capre. Gli
esotici pino nero, douglasia, lo stesso abete rosso piantato al di
fuori del suo habitat, hanno causato incendi devastanti, diffusione di
insetti fitofagi, impedimento della rinnovazione naturale,
produzione di legname di nessun valore economico, suscettibilità agli
schianti, acidificazione del terreno, declino della biodiversità. Tutto
questo gli ambientalisti da salotto non lo vedono e non lo sanno.
Guardano i boschi dall'automobile e gli sembrano "belli verdi". Non
sanno che vedono solo l'involucro sottile del bosco, quello che riceve
la luce alla sommità e sulle fasce laterali dell'impianto.
Non importa. I forestali (e gli ambientalisti) che hanno lasciato il
boscaiolo a fare da comprimario, sono portatori della scienza e della
razionalità e indossano belle divise, i contadini , i pastori sono
ignoranti, lerci e puzzano. Il bosco profuma di resina, gli stazzi, le
stalle puzzano di sterco. E' un buon odore se lo sterco è gestito bene
ma per un naso socialmente condizionato dal pregiudizio sociale, è
puzza.
Il bosco gratifica socialmente (se non vi lavori manualmente), la stalla, il duro lavoro dei
campicelli sono associati a inferiorità sociale. Basta però passare la
"frontiera nascosta" tra Trentino e Südtirol per scoprire che,
miracolo, la stalla conferisce altrettana rispettabilità sociale del
lavoro in bnosco, forse, anzi, di più.
La passione dei forestali per le belle divise
La pervicacia con la quale si continua in Italia a idolatrare il bosco,
cosa bella e utile in sé a priori, costringe, però, a porsi ulteriori
domande. Allora non si può fare a meno di pensare che se è vero che c'è
un condizionamento culturale però deve esserci anche qualcosa d'altro
che sfrutta questo condizionamento, questo conformismo, questi
pregiudizi. E allora viene da pensare che gli interessi forti,
quelli che spingono per la globalizzazione e la perdita di sovranità,
hanno un forte interesse a dipingere in modo positivo - con la
vernice verde dell'inganno - processi che di "naturale" hanno ben poco.
Al di là delle tendenze dell'economia è evidente a tutti che le aree
interne, la montagna, l'azienda contadina sono state penalizzate dalle
politiche europee e dalla burocrazia. Nulla è più ingiusto che
applicare pari criteri a chi è in condizioni di disuguaglianza, diceva
don Milani, ma è quello che hanno messo in atto le "norme europee". E cosa pensare poi dell'accumulo storico
di leggi vincolistiche a tutela del bosco, tutt'ora largamente in
vigore, dei divieti di pascolo, dei divieti di utilizzare il bosco (per
esempio per raccogliere le foglie secche) secondo quelle modalità
multifunzionali che la civiltà contadina ha praticato per millenni,
sapendo bene però quali boschi riservare a fini protettivi e quindi gestire
in forma differente.
Gli effetti del disboscamento
Per
rimediare agli estesi fenomeni di disboscamento che interessarono
le nostre montagne, ma la cui responsabilità è da attribuire in larga
parte agli speculatori borghesi che - tra Sette e Ottocento -
usurparono, con il
beneplacito dello stato, le proprietà collettive e, solo in secondo
luogo,
alla miseria dei contadini colpiti dalle tasse e dagli stessi espropri
dei beni comuni cosa fece lo stato liberale? Rimediò o tentò di
rimediare, quando era ormai tardi, con
disposizioni che generalizzavano vincoli e divieti opprimendo ancora
una volta i contadini. In tempi recenti, sotto la spinta degli
ambientalisti da salotto, le norme forestali sono state rese ancor più
restrittive, sino a prevedere centinaia di euro di multa per il taglio
di una pianticella. In un contesto dove, caso unico al mondo, ma con
precisi precedenti napoleonici e mussoliniani, il corpo forestale
invece che essere tecnico era poliziesco (però guai a farlo confluirecon un'altra polizia nel paese delle sei polizie).
Oggi
ci rendiamo conto che l'esaltazione dell'avanzata del bosco è un
modo ipocrita per nascondere che il quasi trascurabile (sul piano
planetario) aumento delle foreste, che si registra da noi, ha alla base gli stessi
processi economici, sociali e politici che spingono
l'ulteriore crescita urbana ma determinano, a ritmo spaventoso, anche la
deforestazione senza sosta in estremo oriente e in sudamerica dove vi sono le più
grandi foreste del pianeta. Non è finita, però, perché oggi ci stiamo
rendendo anche conto che c'è una forte pressione da parte del capitalismo
neoliberale a trasformare lo spazio rurale in wilderness da
sfruttare e
controllare a suo piacimento
togliendo di mezzo abitanti, pastori, contadini, allevatori.
Abbiamo capito che le aree interne e, soprattutto, la montagna europea
sono considerate allo stesso modo delle foreste del Gabon, ovvero spazi
da "ripulire" dalla presenza umana, così come gli ambientalisti deportano
i pigmei delle foreste pluviali e i popoli tribali da quelle del Deccan in modo che non ci sia qualcuno in
grado di accampare diritti, in modo da avere le mani libere nello
sfruttamento delle risorse. Sono buonisti.
Le Alpi sono la più grande riserva idrica d'Europa e la prospettiva di
trasformarle in un grande parco alla Yellowstone rimuovendo la
popolazione da tutte le vallate secondarie è estremamente allettante
nella prospettiva che l'acqua dolce e pulita divenga il nuovo petrolio.
I crescenti sospetti che dietro le sempre più frequanti e gravi siccità
vi siano delle manipolazioni del clima ("giustificate" e confuse con il climate
change) ma anche la certezza che ben poco si fa per evitare la
contaminazione delle acque con sostanze chimiche pericolose per la
salute, tendono a rafforzare i timori per il "ricatto idrico", per la
trasformazione del controllo dell'acqua pura in uno strumento di potere
(otre che di profitto) senza confronti nella storia umana. Ma una volta che le
comunità locali collasseranno (l'avanzata del bosco e la proliferazione
dei lupi contribuiscono a questo) anche la risorsa legno, il cui
sfruttamento oggi è frenato da norme vincolistiche, sia pure in parte
modificate (sotto la pressione delle lucrose centrali elettriche a
cippato), sarà liberalizzata. Non ci meraviglieremmo se anche la caccia
venisse liberalizzata in funzione di grossi business.
Quanto al cibo, alla continua perdita di terreni agricoli appare
evidente che gli interessi forti, legati alla globalizzazione,
trovino più
conveniente importarlo. Al sistema neoliberale conviene restringere
l'attività agricola ai terreni di pianura dove è
possibile praticare l'agricoltura industriale che è ottima fornitrice
all'industria di materie prime a prezzi vili e che, in compenso, è una
vorace consumatriche di beni industriali (chimica in primis).
Anche l'agricoltura industriale è però destinata a cedere sempre più superfici alcemento
e ai parchi considerata la voglia del capitalismo di produrre cibo al
di fuori dei sistemi agricoli e di sostituire gli umani con i robot che
consumano solo elettricità.
A
livello nazionale e mondiale. intanto, una superficie agricola ridotta
consuma
più input industriali che una superficie ampia, gestita in forme
estensive e con moderati input di beni industriali. Le prospettive del
profitto, però, vanno anche più in là e spingono ad allevamenti e
coltivazioni senza terra. Agricoltura e capitalismo non sono termini
facilmente conciliabili. Abbandono e supersfruttamento della terra
(salvo renderla sterile nel lungo periodo) sono condizioni di
massimizzazione del profitto.
La
prospettiva, estremamente inquietante è quella di un'umanità
addensata nelle grandi megalopoli dove è facile prevedere che le
condizioni di vita sempre più artificiali e la diffusione di nuove
malattie consentiranno quel controllo malthusiano della popolazione
tanto invocato dalle cassandre ambientaliste a partire dalle famose
previsioni fake dei tecnocrati del "club di Roma" negli anni '60. Il
resto del pianeta suddiviso tra "aree
protette" e di sfruttamento agricolo, minerario, forestale
intensivo, entrambe proiezioni delle città e sotto il controllo della
logica neoliberale. Zero aree rurali. Zero attori rurali. Gli ambientalisti approvano. Il progresso avanza. L'umanità arretra. Repubblica esulta.
|
|
|
Ambiente
Ghiacciai alpini inquinati dai pesticidi
(17.03.19) I risultati di un gruppo di ricerca dell'Università
Bicocca, ricavati dallo studio delle acque di fusione di sei ghiacciai
alpini, mettono in evidenza la gravità del fenomeno. e
dovrebbero far riflettere chi ha fiducia nell'ambientalismo neoliberale
che fa credere che creando i parchi e reintroducendo il lupo si possa
proteggere e ricreare una natura "incontaminata".
Ambientalismo,
neocolonialismo, capitalismo: violenza ed ecoingiustizia contro gli
ultimi
(23.02.19) La gestione delle aree protette nei paesi ex-coloniali
rappresenta l'ambito nel quale è più evidente la continuità con il
vecchio colonialismo. In nome della tutela della natura le grandi
organizzazioni ambientalistiche gestiscono floridi business e non hanno
esitato a scacciare con l'inganno, a volte anche con la violenza,
milioni di persone dalle loro sedi
ancestrali.
Il
lupo riduce la biodiversità alpina
(29.12.18)
Materiali per un manifesto pro pastoralismo, contro la diffusione del
lupo sulle
Alpi
Le
radici storiche e ideologiche del beceroanimalismo
(09.12.18) L'Italia le circostanze
storico-sociali hanno prodotto
una cultura fortemente antirurale lontana anche dalla dimensione
naturale concreta. Nella realtà contemporanea su questo sfondo si è
sviluppato un animalismo ben poco ecologico, molto ideologico che
sconfina nel culto pagano e che reitera i cliché anticontadini
Animalismo,
biocapitalismo, ecototalitarismo
(30.06.15) Proseguiamo
la riflessione sul biocapitalismo e le ideologie ambientaliste
allargando la riflessione all'animalismo che in modo più esplicito e
violento nega il valore della vita umana. Esso si presenta come un
perfetto strumento per legittimare i paradigmi del nuovo biocapitalismo
in cui l'uomo diventa una merce da fabbricare e la vita umana può
essere rliminata senza particolari scrupoli (come e peggio che nei Gulag e nei Lager)
Gli
orsi sparigliano politica e istituzioni
(01.09.14)
Le destre cavalcano l'animalismo ma rischiano di scottarsi (loro e
la sinistra) La gestione degli orsi trentini è scappata di mano.
Il conflitto sociale, ideologico, territoriale innescato dall'aver
sovraccaricato Life Ursus di valenze di ogni tipo impatta in modo
imprevedibile sulla politica
L'imbroglio
ecologico (IV e ultima parte)
(09.12.13) Nella
storia di Legambiente si rispecchia un ambientalismo di regime,
apparato di controllo sociale e di "acculturazione" funzionale
alla greed economy turbocapitalista. Con un "pensiero
ecologico" debole appiattito sulla modernità e l'ideologia
scientista, tecnocratica. Centralismo comunista accoppiato con i
meccanismi delle corporation. Ma il dissenso cresce.
L'imbroglio
ecologico (parte III)
(02.12.2013) Dalla
critica al capitalismo della prima ecologia politica alla
partecipazione all'affarismo della green economy. L'ambientalismo, nel
solco del progressismo illuminista, come supporto ideologico e
cosmetico al biocapitalismo dello sfruttamento integrale
L'imbroglio
ecologico (parte II)
(16.11.2013) La
nascita dell'ambientalismo come movimento sociale negli anni '80. I
condizionamenti sulla nascita del movimento ambientalista del travaso
dell' "eccesso di militanza" dalla "sinistra rivoluzionaria" e
dell'egemonia culturale del PCI. La divaricazione tra localismo e
ambientalismo quale occasione mancata. La necessità di andare oltre la
sinistra (e la destra) per recuperare spazi di autonomia sociale
L'imbroglio
ecologico (ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali nell'era del
capitalismo neoliberista)(I)
(07.11.2013) Oggi
l' ambientalismo è la proiezione della Green economy capitalista e i
movimenti devono imboccare con coraggio nuove strade, oltre la sinistra
e la destra e oltre l'ambientalismo per una nuova autonomia dei
soggetti e delle comunità popolari. L'imbroglio ecologico è finito
perché il ruolo dell'ambientalismo istituzionale è palesemente di
controllo sociale. Prima parte di un ampio contributo che ripercorre la
storia dei rapporti tra ambientalismo, sinistra, capitalismo e
movimenti sociali dai primordi del movimento ambientalista ad
oggi.
Per
una gestione comunitaria delle risorse e dei problemi ambientali (IV)
(08.01.13) Attorno
ai problemi, dei rischi per la salute legati alla nocività ambientale e
alla volontà di gestire in positivo le risorse territoriali sta
crescendo nel mondo un movimento post-ambientalista.
Dalla
tecnocrazia alla scienza comunitaria (III)
(02.01.13) La
tecnocrazia ha imposto un modello di scientificizzazione della politica
che svuota la democrazia. Si è imposta anche nella forma di "ecopotere"
con il pretesto della "tutela della natura dall'uomo". La riduzione del
rischio presuppone però una strada diversa, quella di una scienza
civica e comunitaria e più ampi spazi di democrazia
Ripensare
la relazione tra la natura e la società (II)
(02.01.13) L'affermazione
di una gestione partecipata dei problemi ambientali e delle risorse è
indispensabile per fronteggiare crescenti rischi e la tendenza
tecnocratica a concentrare decisioni con pesanti implicazioni sociali
nelle mani di pochi e sulla base di incerti presupposti scientifici.
Per muoversi in questa direzione, però, è necessaria una profonda
revisione di alcuni fondamenti ideologici della modernità e della
"civiltà occidentale" e dello stesso ruolo della scienza.
Oltre
l'ambientalismo istituzionale crescono nuove reti (I)
(01.12.12)
Da una ventina di anni in qua sta emergendo un post-ecologismo "di
base" non ideologico che opera nella dimensione del monitoraggio
ambientale e della stessa gestione sostenibile e partecipata delle
risorse
Il
lupo riduce la biodiversità alpina
(29.12.18)
Materiali per un manifesto pro pastoralismo, contro la diffusione del
lupo sulle
Alpi
Le
radici storiche e ideologiche del beceroanimalismo
(09.12.18) L'Italia le circostanze
storico-sociali hanno prodotto
una cultura fortemente antirurale lontana anche dalla dimensione
naturale concreta. Nella realtà contemporanea su questo sfondo si è
sviluppato un animalismo ben poco ecologico, molto ideologico che
sconfina nel culto pagano e che reitera i cliché anticontadini
Animalismo,
biocapitalismo, ecototalitarismo
(30.06.15) Proseguiamo
la riflessione sul biocapitalismo e le ideologie ambientaliste
allargando la riflessione all'animalismo che in modo più esplicito e
violento nega il valore della vita umana. Esso si presenta come un
perfetto strumento per legittimare i paradigmi del nuovo biocapitalismo
in cui l'uomo diventa una merce da fabbricare e la vita umana può
essere rliminata senza particolari scrupoli (come e peggio che nei Gulag e nei Lager)
Gli
orsi sparigliano politica e istituzioni
(01.09.14)
Le destre cavalcano l'animalismo ma rischiano di scottarsi (loro e
la sinistra) La gestione degli orsi trentini è scappata di mano.
Il conflitto sociale, ideologico, territoriale innescato dall'aver
sovraccaricato Life Ursus di valenze di ogni tipo impatta in modo
imprevedibile sulla politica
L'imbroglio
ecologico (IV e ultima parte)
(09.12.13) Nella
storia di Legambiente si rispecchia un ambientalismo di regime,
apparato di controllo sociale e di "acculturazione" funzionale
alla greed economy turbocapitalista. Con un "pensiero
ecologico" debole appiattito sulla modernità e l'ideologia
scientista, tecnocratica. Centralismo comunista accoppiato con i
meccanismi delle corporation. Ma il dissenso cresce.
L'imbroglio
ecologico (parte III)
(02.12.2013) Dalla
critica al capitalismo della prima ecologia politica alla
partecipazione all'affarismo della green economy. L'ambientalismo, nel
solco del progressismo illuminista, come supporto ideologico e
cosmetico al biocapitalismo dello sfruttamento integrale
L'imbroglio
ecologico (parte II)
(16.11.2013) La
nascita dell'ambientalismo come movimento sociale negli anni '80. I
condizionamenti sulla nascita del movimento ambientalista del travaso
dell' "eccesso di militanza" dalla "sinistra rivoluzionaria" e
dell'egemonia culturale del PCI. La divaricazione tra localismo e
ambientalismo quale occasione mancata. La necessità di andare oltre la
sinistra (e la destra) per recuperare spazi di autonomia sociale
L'imbroglio
ecologico (ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali nell'era del
capitalismo neoliberista)(I)
(07.11.2013) Oggi
l' ambientalismo è la proiezione della Green economy capitalista e i
movimenti devono imboccare con coraggio nuove strade, oltre la sinistra
e la destra e oltre l'ambientalismo per una nuova autonomia dei
soggetti e delle comunità popolari. L'imbroglio ecologico è finito
perché il ruolo dell'ambientalismo istituzionale è palesemente di
controllo sociale. Prima parte di un ampio contributo che ripercorre la
storia dei rapporti tra ambientalismo, sinistra, capitalismo e
movimenti sociali dai primordi del movimento ambientalista ad
oggi.
Per
una gestione comunitaria delle risorse e dei problemi ambientali (IV)
(08.01.13) Attorno
ai problemi, dei rischi per la salute legati alla nocività ambientale e
alla volontà di gestire in positivo le risorse territoriali sta
crescendo nel mondo un movimento post-ambientalista.
Dalla
tecnocrazia alla scienza comunitaria (III)
(02.01.13) La
tecnocrazia ha imposto un modello di scientificizzazione della politica
che svuota la democrazia. Si è imposta anche nella forma di "ecopotere"
con il pretesto della "tutela della natura dall'uomo". La riduzione del
rischio presuppone però una strada diversa, quella di una scienza
civica e comunitaria e più ampi spazi di democrazia
Ripensare
la relazione tra la natura e la società (II)
(02.01.13) L'affermazione
di una gestione partecipata dei problemi ambientali e delle risorse è
indispensabile per fronteggiare crescenti rischi e la tendenza
tecnocratica a concentrare decisioni con pesanti implicazioni sociali
nelle mani di pochi e sulla base di incerti presupposti scientifici.
Per muoversi in questa direzione, però, è necessaria una profonda
revisione di alcuni fondamenti ideologici della modernità e della
"civiltà occidentale" e dello stesso ruolo della scienza.
Oltre
l'ambientalismo istituzionale crescono nuove reti (I)
(01.12.12)
Da una ventina di anni in qua sta emergendo un post-ecologismo "di
base" non ideologico che opera nella dimensione del monitoraggio
ambientale e della stessa gestione sostenibile e partecipata delle
risorse
contatti: Whatsapp 3282162812
redazione@ruralpini.it
|
|