Ruralpini  resistenza rurale

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 Il contadino italiano senza difesa


le organizzazioni che rappresentano, ufficialmente, l'agricoltura fanno spesso prevalere il proprio interesse anche quando è in contrasto con quello dei contadini e del mondo rurale

di Michele Corti


I problemi del mercato del lavoro agricolo e la burocratizzazione di ogni aspetto che riguarda la vita delle aziende, esasperato dall'emergenza, mettono in evidenza come le organizzazioni agricole in Italia non svolgano un ruolo efficace di tutela politico-sindacale. Condizionate dal loro incarnare altre funzioni, spesso in conflitto di interessi con quella che dovrebbe essere la principale e la ragion d'essere.  Erano - la Coldiretti in particolare - organizzazioni di massa, funzionali al consenso politico; sono diventate centri di servizi, in ultimo organizzazioni para-commerciali. Così il contadino, il mondo rurale non ha strumenti per far valere le proprie ragioni rispetto alle altre componenti della società

(01.03.20) Partiamo da un fatto di attualità, piccolo fin che si vuole, ma emblematico: la vicenda del bonus dei 600€. Chi ha il Pin Inps, un sistema di autenticazione e un po' di famigliarità con una domanda online lo fa con pochi click (se il sistema non si inchioda). Se un contadino si rivolge alle proprie organizzazioni si sente chiedere 25 (a volte di più, a volte di meno) euri per la domanda. Ma se hanno già le anagrafiche del socio, l'iban (se non dove arrivano i contributi Agea?). L'aiuto in emergenza viene, per così dire "parzialmente dirottato". Non è la cifra in sé che conta; capiamo che in questo periodo dedicare una persona a questa attività è un impegno e un costo, ma quello che non piace è il fatto che è rappresenti la spia di un atteggiamento mentale. Che cosa dice questo fatto apparentemente insignificante: Tu sei un cliente, lascia perdere se ti rivolgiamo a te come "gentile associato", se vieni da noi è perché non puoi farne a meno, noi dobbiamo ragionare nell'interesse della nostra baracca; abbiamo spese, impiegati, sedi, per noi, tu conti perché ci porti lavoro e contribuisci al fatturato, non importa se non capisci.




Andiamo avanti con i guai di questo periodo in cui, oltre alla tragedia del contagio, si aggiungono le complicazioni (evitabili) della burocrazia. Nessuno si illude che politica e burocrazia diventino chiare, limpide, efficienti con l'emergenza; se sono quello che sono non possono cambiare da un giorno all'altro, neppure se si sta giocando con la vita dlele persone. Abbiamo già lamentato come i contadini "hobbisti" (ma smettiamola di chiamarli così) non possano coltivare l'orto  qui. Un assurdo che si spiega con l'antipatia della politica per chi pratica l'autosussistenza e vuole essere autonomo dalle filiere agroalimentari. I problemi, però, ci sono anche per muovere le merci per e dalle aziende agricole. Fa riflettere che si possa portare gli il cane dieci volte al giorno e si creino a volte difficoltà e perdite di tempo non giustificate a chi deve consegnare un carico di fieno.



Ma veniamo a uno dei tempi più dibattuti in questi giorni: chi raccoglierà l'ortofrutta se non arrivano stranieri regolari? 
Di qui la solita richiesta di chi non aspetta altra occasione per riaprire le porte all'immigrazione clandestina: "dentro 200-250 mila africani" canta il coro della sinistra. Ma perché studenti e pensionati, secondo il coro, non rispondono all'appello? Ma sono gli stessi che hanno abolito i voucher, che funzionavano molto bene, gli stessi che hanno caricato sulle spalle delle aziende italiani un carico burocratico (costi e adempimenti) più pesante di quello di paesi che hanno redditi molto superiori.  Uno dei motivi della difficoltà di reperimento della manodopera è il reddito di cittadinanza, concepito male e applicato peggio (di qui la battuta che invece che essere un incentivo a trovare un lavoro è diventato l'incentivo a fare... il buco sul divano).
In ogni caso ci sono tanti italiani, giovani e meno giovani, che hanno bisogno di lavorare e sono pronti ad adattarsi. Non si dice che siano eserciti ma sono tanti. E spesso si sentono dire che per loro non c'è posto, che assumono solo stranieri. Negarlo è offensivo per gli italiani che svolgono lavori umili. In ogni caso l'alternativa non va vista solo tra il divano e la zappa. C'è che non ha "il fisico", ma sa "smanettare" con i dispositivi elettronici e lascerebbe volentieri il divano, se fosse incentivato a farlo. Anziani e non anziani, che hanno scarsa famigliarità con l'uso di pc e smart-phone, potrebbero essere "accuditi" (a domicilio o a distanza) da ragazzi svegli e volenterosi. Avremmo meno persone che non riuescono a sbrigare le pratiche online.
Invece che regalare tanti soldi alle organizzazioni, il governo e le regioni potrebbero promuovere campagne di "alfabetizzazione" informatica assegnando - molto più dignitosamente rispetto al reddito - ai giovani interessati un compenso per il loro impegno. Chiamalo volontariato civile con rimborso o come volete voi. Risolverebbe anche il problema di chi deve andare a dare 25€ parassitari non riuscendo ad espletare una semplice pratica online. Il paese ne guadagnerebbe. Siccome, però, sarebbe un a azione troppo intelligente - ma che non disseta nessuna lobby - non si farà mai.



 Tornando alla manodopera per le raccolte il problema vero è che fino a quando - proprio in forza di successive ondate o ondine immigratorie - vi sarà presenza di manodopera straniera disposta a lavorare per pochi euro, anche in condizioni di lavoro durissime, il datore di lavoro la preferirà (per ovvi motivi di ricattabilità e docilità) agli italiani, anche a quelli che vogliono lavorare, anche a quelli con i calli sulle mani. D'altra parte è impensabile che i datori di lavoro che pagano 2-3 € all'ora (anche perché arriva dall'estero prodotto da paesi dove pagano 0,5€) si adeguino a minimi salariali (10 € lordi), norme sulla sicurezza, ecc. ecc. Mettersi in regola e assumere regolarmente (specie senza voucher) è molto oneroso.

 


In ogni caso, alimentare nuovi cicli di immigrazione extracomunitaria significa non risolvere il problema del mercato del lavoro agricolo perché molti, una volta messo il piede in Europa, grazie alla "porta aperta", se ne vanno altrove, spesso stramaledendo l'Italia, il caporalato, la mafia, lo sfruttamento dei negrieri.  Chi si sottomette a rapporti di lavoro umilianti, condizioni di alloggio che offendono la dignità umana, lo fa solo per un periodo limitato. Appena ha altre opportunità  lascia . Fortunatamente non ci sono solo i "gironi infernali", comunque  ancorapresenti in alcune regioni dopo tante denunce, ci sono condizioni di semi legalità, altre di quasi legalità. Tutte, però, avvantaggiate da una manodopera più docile e flessibile. Questa segmentazione del mercato del lavoro è molto comoda anche per lo stato che può "modulare" la sua pressione normativa e fiscale-contributiva nelle diverse aree geografiche e nei diversi comparti del settore agricolo applicando, con molto ineguale zelo, i controlli sul rispetto delle regole - previdenza, sicurezza, igiene. Se a Gioia Tauro si applicasse il rigore di Bergamo...  Se ci si pensa è la stessa legge della segmentazione del mercato da parte di un venditore monopolista. Lo stato ottiene la massima estrazione di ricchezza sfruttando la diversa disponibilità a farsi spremere: a Gioia Tauro per ottenere lo stesso livello di legalità del Nord lo stato dovrebbe investire grandi risorse. I controlli rendono di più dove c'è meno resistenza.
Così si spiega perché esistono ancora  fenomeni come il caporalato e di sacche di illegalità sottratte ai controlli degli Ispettorati del lavoro, delle Asl, dei Nas, della Guardia di Finanza, in una parola dello stato. Anche al Nord non mancano i "negrieri" ma sono casi isolati dietro ai queli si deve supporre la presenza di "coperture".



La soluzione proposta dai fautori dell'immigrazione a fronte dell'esistenza di un mercato illegale del lavoro è la regolarizzazione dei clandestini. Una scelta che potrebbe essere comprensibile, nel bene dei "nuovi schiavi" se non fosse accompagnata dalla politica di "porte aperte" che consentirebbe ai negrieri di disporre di sempre nuova "materia prima" facilmente ricattabile e disposta ad accettare qualsiasi condizione imposta. 




Presupposti del ciclo negriero

Ci si potrebbe chiedere perché un fenomeno (il nuovo schiavismo delle campagne) che poteva sembrare una patologia transitoria, legata ai primi flussi migratori di massa degli anni '90, sia diventato strutturale in Italia. Da una parte in Italia, vi sono estese coltivazioni ortofrutticole non facilmente meccanizzabili (almeno finché si trova manodopera a 2-3 € all'ora, remissiva e senza diritti), dall'altra vi è una propensione cronica in alcune regioni all'illegalismo. Però - il caso dei pomodori è tipico - non si può ignorare che la globalizzazione, con la caduta del protezionismo agricolo  a livello di comunità europea, ha spalancato le porte  al prodotto extraeuropeo.  Non  c'è nulla di "naturale" in questi fenomeni (globalizzazione, ondate migratorie).
La Cina , il virus non a caso è nato lì, è un immenso paese dualista, con la realtà rurale precipitata in una condizione di inferiorità sotto ogni punto di vista. Dal punto di vista assoluto il reddito, i beni di consumo, le motociclette (le auto ancora no), i computer aumentano ma non tanto da "agganciare" la città, anzi.



Certo non si muore di più di fame a milioni come durante il "Grande balzo in avanti" imposto alla Cina dal sanguinario Mao tzedong (che noi in occidente esaltavamo come un eroe contadino), ma c'è una forbice sempre più forte tra le città, proiettate nella rivolzione capital-comunista e nell'alta tecnologia, e 500 milioni di rurali. In Cina non c'è libertà di circolazione interna, il contadino deve restare al suo posto (quando avveniva in Italia nel "ventennio", per frenare l'urbanizzazione e prevenire le baraccololi, era considerata una barbarie).
Della globalizzazione, dei principi neoliberali il regime comunista ha preso quello che gli ha fatto comodo. Anche i diritti sindacali sono inesistenti. Risultato: nonostante la crescita del Pil e i progressi tecnologici, commerciali, militari, imperialistici (l'Africa da colonia europea sta diventando o lo è già una grande colonia cinese), la Cina ha costi del lavoro ancora molto più bassi dei nostri. Oltre allo sfruttamento del lavoro, alla mancanza di tutele sindacali c'è anche un altro aspetto della globalizzazione velenosa: l'uso dei pesticidi: quelli usati nei paesi "emergenti" sono spesso i prodotti che in Occidente non stati messi al bando perché altamente pericolosi.
L'occidente rispetto alla Cina continua a mantenere l'atteggiamento "idealizzato" degli studenti del '68. Un atteggiamento non più ingenuo ma di convenienza. Si chiude gli occhi su troppe cose per fame di business. Il virus (le sue conseguenze economiche e agroalimentari) renderà più arduo coltivare idee di comodo sulla Cina.  Intanto , però, il suo costo della manodopera le consente di invadere i mercati mondiali costringendo chi soffre questa concorrenza a ricorrere ricorrere a soluzioni che consentano di abbassare i costi di prodotti ad alta intensità di manodopera.




E le organizzazioni agricole?

Cosa fanno le organizzazioni dei datori di lavoro, in questo caso le organizzazioni agricole? Come è possibile tollerare forme cosi' gravi di concorrenza sleale tra imprenditori?  Ma, ancora più al fondo del problema, come è possibile che l'assunzione di un dipendente "in regola" comporti oneri, adempimenti, controlli tanto pesanti per le piccole aziende da far loro rinunciare di assumere, così da essere costretti a scoppiare di lavoro o a chiudere?
Se allarghiamo ad altri fattori di sofferenza delle aziende agricole è gioco forza constatare che le organizzazioni, se siamo arrivati a questo punto, hanno fatto poco o nulla in diversi casi per contrastarli. In generale  le organizzazioni agricole italiane - le più disunite d'Europa - si sono mostrate sempre meno combattive delle corrispondenti organizzazioni europee. Ai tempi del vecchio Mec (Mercato comune europeo)  l'Italia ha sempre anteposto gli interessi industriali a quelli dell'agricoltura, mentre gli altri partner (allora c'erano solo tedeschi, francesi e olandesi) imponevano le regole delle organizzazioni comuni di mercato a vantaggio delle loro agricolture. Come noto le politiche protezioniste a senso unico assorbivano il bilancio comunitario e portarono alla gestione onerosissima di enormi eccedenze... sino alle quote latte, che penalizzarono l'Italia che era deficitaria.
All'Italia interessava esportare i frigoriferi e l'agricoltura è stata svenduta consapevolmente come merce di scambio. La Coldiretti era una organizzazione di massa del regime democristiano di allora e si adeguava. Non faceva valere la sua grande forza politica perché in cambio aveva mano libera nella politica clientelare della Federconsorzi e gli apparati statali contribuivano a rafforzare il suo ruolo egemone (c'era una volta, in un tempo non tanto lontano, che... le grauduatorie dei beneficiari di finanzamenti venivano stilate nell'ufficio della Coldiretti e le passava a quello accanto dell'Ispettorato agrario).



Il mondo agricolo allora valeva per la politica più come una riserva voti e di potenziale manodopera industriale. Una riserva da sgonfiare lentamente, per non creare problemi sociali e per garantire su un arco di tempo abbastanza lungo la fornitura alle fabbriche del Nord di manodopera di origine rurale ("fresca" e "docile"). Lo "sgonfiamento" rurale doveva essere imponente ma non troppo precipitoso  per aiutare a sostenere l'industria anche in un altro modo: sfruttando l'agricoltura con la vendita a caro prezzo di mezzi tecnici. Se l'agricoltura si è modernizzata tardi e male è anche perché è stata largamentee malamente  sfruttata dalla Fiat (macchine) e dalla Montecatini (chimica) - oltre che dalle industrie trasformatrici. Quello che  le veniva tolto, attraverso rapporti distorti di mercato, sul piano della produzione, le veniva restituito in assistenzialismo, con il risultato di legare a filo doppio il contadino al sistema. Ma così la forza economico-sociale dell'agricoltura si riduceva.
 Gestendo Federconsorzi, casse mutue, credito agevolato, pensioni, l'organizzazione agricola (la Coldiretti) poteva ottenere il consenso agricolo anche senza difendere la produzione agricola.
Un affare per la politica e la grande industria, un danno per l'agricoltura e il paese.
 Le casse mutue di assistenza malattia per i coltivatori diretti furono istituite nel 1954; le pensioni di invalidità e vecchiaia nel 1956. Bonomi, il "duce" della Coldiretti, apparve a quei contadini, che dopo un solo anno di contributi potevano riscuotere una pensione, come un salvatore della patria. Attraverso le elezioni per le Casse mutue comunali la Coldiretti rafforzò la propria egemonia; nel 1955 conquistò il 97,5% delle Casse.




L'estesa organizzazione della Coldiretti (c'erano uffici e sezioni comunali quasi ovunque) era molto costosa e richiedeva molto personale. Nata quasi dal nulla la Coldiretti, per affermarsi, ebbe bisogno di alcuni elementi un po' "drogati" che ne marcarono per sempre, i connotati. Da una parte non poté fare a meno di riciclare i quadri del sindacalismo fascista, dall'altra ebbe bisogno dell'aiuto degli industriali (che non lo concedono a gratis). Anche il Pci fece del resto attinse ai quadri del Pnf (l'impronta totalitaria di entrambi i partiti rendeva la cosa agevole). La Dc, a differenza del Pci, aveva la possibilità di attingere dall'Azione cattolica (che durante il regime aveva avuto la funzione di "frigorifero"). Anche il personale politico della Coldiretti  veniva dal mondo cattolico, ma per far funzionare una grande macchina sindacale ci volevano tecnici, burocrati, funzionari e quelli non potevano venire che dalle organizzazioni fasciste. Il regime fascista aveva promosso apparati burocratici gonfi di personale che, però, anche quando tecnicamente valido, era sostanzialmente carrierista e opportunista. Una conseguenza della spoliticizzazione imposta a tutti i livelli nelle organizzazioni sociali, a partire dallo stesso partito, dal Pnf, dove la mentalità burocratico- militaresca e l'appicazione pedissequa degli ordini "credere, obbedire, combattere") spegneva ogni velleità di critica costruttiva e di iniziativa (e così il regime, forte di un consenso "di parata", il 25 luglio cadde come una pera cotta, liquidato dall'interno).



La burocrazia fascista poteva funzionare benissimo con nuove direttive dall'alto. Una mamma dal cielo, sia per il Pci che per la Coldiretti di Bonomi che crearono organizzazioni di massa con molti aspetti in comune con quelle del regime.

La Coldiretti anche formalmente sorse dalla già esistente Federazione piccoli coltivatori diretti, alla guida della quale Paolo Bonomi venne nominato commissario già nel 1943 alla caduta del regime. Questo sindacato rimase inserito in una nuova organizzazione unitaria, la Federazione italiana degli agricoltori, che - a sua volta - era erede della
Confederazione nazionale fascista degli agricoltori . Ma, nel 1944, Bonomi su imput della Dc, staccò il sindacato dei Coldiretti e lo costituì in Confederazione autonoma (guidandola sino al 1980). La Fida poi divenne  Confagricoltura .
La Coldiretti partiva svantaggiata (si era staccata dal sindacato unitario), ma seppe diventare egemone grazie all'appoggio della Dc, della chiesa e dell'industria. Era forte di un modello verticistica, quasi militare,
il modello dell'organizzazione di massa ereditato dal fascismo. Nulla da inventare, solo da adattare.  Alla presa del Pci sulle masse operaie, sui braccianti , sui mezzadri, occorreva  contrapporre una forte egemonia sull'ancora vasto mondo rurale costituito da coltivatori proprietari e affittuari.



Il modello dell'organizzazione di massa è rimasto a lungo nel Dna della Coldiretti anche quando gli scenari politici mutarono grandemente (centro-sinistra).  In presenza dell'egemonia della componente funzionariale, le elezioni delle cariche interne
erano pilotate (democrazia sulla carta) e non esisteva una discussione politica, sostituita dalle "direttive". Finita l'epoca bonomiana emerse, tra uno stuolo di concorrenti, Arcangelo Lobianco, direttore della federazione di Bari, esponente tipico della classe dirigente coldirettistica: da funzionario a presidente e politico della Dc. Defenestrato per ever perso la vacca da mungere (la Federconsorzi) fu traslocato al ritiro dorato dell'ANBI (Associazione Nazionale Bonifiche e Irrigazioni).
In tutta Italia questo cursus honorum è stato frequente (a Milano si ricorda la carriera di Nino Pisoni da segretario di zona a Europarlamentare).
Dopo Lobianco c'è stata una serie di presidenti che erano, oltre che politici e titolari di varie cariche pubbliche e private,  anche imprenditori agricoli ma il punto è che non erano più i dittatori alla Bonomi e nemmeno i capi, ma figure di rappresentanza la cui elezione è pilotata, come per le organizzazioni locali, dai funzionari che sono sempre stati i veri "padroni" dell'organizzazione.
Nel caso del presidente nazionale è la figura apicale della "struttura", il mega direttore generale Vincenzo Gesmundo, il vero principe di Palazzo Rospigliosi che fa e disfa i presidenti. Nel 2014 incassò, compresa la liquidazione 1,8 milioni di euro e, nel complesso tra 2002 e 2014, oltre 10 milioni di euro. Poi è rimasto con un incarico a tempo determinato sino a oggi.  Ai critici, un po' scandalizzati, che contestavano il fatto che gli euri corrisposti dai contadini per pagare - a prezzo niente affatto scontato - i servizi della Coldiretti, finissero in principeschi stipendi, venne risposto che non tutti gli emolumenti del dott. (in filosofia) Gesmundo venivano dagli associati ma che una parte delle entrate del nostro era per compensi per incarichi del Ministero dell'agricoltura. La pezza è peggio del buco. Ma come: tu che hai già entrate da nababbo, che non dovresti avere molto "tempo libero" da dedicare ad arrotondare lo stipendio, prendi anche soldi dal Ministero con il quale dovresti confrontarti? Gli ingenui associati si aspetterebbero che il loro gran capo vada a battere i pugni nei palazzi delle politica e della burocrazia. Ma quali pugni se prende i loro soldi? Lecito pensare che si faccia piuttosto comunella.



Cresciuta in modo esponenziale sino a raggiungere nel 1952 i 5,6 milioni la Coldiretti è comunque ancora una corazzata da 1,5 milioni di soci. La gestione, nonostante l'avvicentarsi dei presidenti post-Bonomi  è sempre rimasta strettamente verticistica: tutto veniva dall'alto e un motto dei segretari di zona negli anni ’50 era: guardare Roma, seguire Roma, ascoltare Roma. Il clima era ancora mussoliniano, la struttura di tipo militare: i segretari di sezione  erano paragonati ai caporali, i segretari di zona ai capitani, i direttori provinciali ai colonnelli. Era una struttura capace di mobilitare le masse per le adunate, per generare un consenso passivo, non certo  accompagnato dalla discussione interna, dalla possibilità di critica dei funzionari e dei vertici politici, dall'elaborazione di idee.  La passione per  la "divisa" , il grande sfoggio di bandiere, fazzoletti, cappellini gialli è, senza dubbio, un retaggio di questo imprinting.
La "base", vincolata al consenso fideistico, non abituata a discutere, a elaborare critiche, non si ribella mai. Non chiede neppure conto di certe "virate politiche". Non si è visto nessuna organizzazione passare dall'appoggio a governi di destra a quelli di sinistra con la velocità della Coldiretti. "La Coldiretti ha sempre ragione" e se, da un certo punto, lo stile "ventennio" si è ibridato con quello "all'americana" da convention, da "We are the best". non  è mai venuta meno la spregiudicatezza.  Sostenere una posizione ... ma anche l'altra, salvo poi posizionarsi dove è più conveniente. Principi liquidi, alleanze variabili, ricerca della visibilità. Basti pensare ai flirt con il WWF e l'ambientalismo (ci torniamo più avanti), alla politica contro il piccolo contadino che non può essere "imprenditore agricolo", ribaltando quella che era la politica delle origini (per il solo fatto che i piccoli contadini oggi sono pochi e non "rendono").  Tutto possible perché, alla fine, la Coldiretti è passata da un modello di organizzazione di massa a quello dell'azienda, che non è mai democratico. C'è stata una modernizzazione nella forma, attuata affidandosi alle agenzie di marketing e di comunicazione (le palanche non mancano), ma mai una democratizzazione effettiva.  Tolto quell'entourage di imprenditori cooptati dai funzionari, la base non esprime alcuna volontà politica ma si identifica nel "brand". Non parliamo poi di quei tanti contadini che "fanno numero", ma che pagano la tessera perché ancora convinti che senza l'iscrizione "ai coltivatori" non si possano ricevere i contributi
Non si va lontani dalla realtà affermando che uno dei fattori della mancata crescita di una maturità politica, di una consapevolezza dei propri interessi dei contadini italiani va individuato nel modello di organizzazione di massa paternalistico della Coldiretti.
Questa condizione di inferiorità, di scarsa combattività (niente proteste alla francese, solo adunate a comando), i rurali italiani la pagano a caro prezzo nel loro confronto sempre difficile, spesso perdente, con le altre componenti sociali, ben più attrezzate.   
Cadute le motivazioni politiche e la tensione morale delle origini, l'azienda finisce per operare nell'interesse del proprio apparato e non di chi, per ragione sociale, dovrebbe rappresentare. Il socio diviene il cliente da mantenere fidelizzato con  mezzi che non sono la qualità e il prezzo ma  impigliandolo in una rete di vincoli. Se mi metto contro la Coldiretti... .



Ma rifacciamo qualche passo indietro. La  Coldiretti, oltre che per  l'aiuto  del governo  e del clero divenne, come già accennato, una grande forza organizzata che anche all'aiuto degli industriali. Usciti dall'ultima guerra, conquistava tesserati i piccoli proprietari distribuendo beni di prima necessità a chi si iscriveva (copertoni di biciclette, tessuti), poi si passò ai mezzi tecnici. Nel 1949  Bonomi assumeva la presidenza della Federconsorzi e strinse accordi con l'industria. Nel 1951 il cattolicissimo Alessandro Scotti, deputato e leader del Partito dei contadini, molto forte a Cuneo e Asti, che incarnava un autentico spirito contadino (ostacolato con ogni mezzo da Pci, Dc e Coldiretti),  denunciava che:  Il prezzo del solfato di rame è salito a 25-30.000 lire al quintale. Esso è stato distribuito in certe provincie ai soli soci della Federazione Coltivatori diretti e a chi ne chiedeva la tessera, quasi che gli altri viticoltori non fossero italiani.

 
Il peso della Federconsorzi, un ente che era stato creato prima del fascismo e che la politica democristiana portò a un crack vergognoso, nell'agricoltura italiana era notevole. E pesanti le conseguenze della sua caduta per saccheggio da parte di chi gestiva. Tra gli asset figuravano società alimentari del calibro della Polenghi, Colombani, Massalombarda. Essi vennero svenduti con criteri di favore a gruppi economico-finanziari amici (poi ci pensò Prodi con la Sme a proseguire l'opera) . Il buco della Federconsorzi, commissariata nel 1991, equivale a qualcosa come 4-8 miliardi di euro attuali. Un fiume di denaro sparito. Le banche, che bene conoscevano la situazione di gravissimo dissesto condevevano crediti che sapevano inesigibili, la Federconsorzi li smistava alle sue strutture e società controllate.  Copioni che in Italia si sono visti ancora (basti pensare a MontePaschi). Oggi rubo io, domani tocca a te.



La Coldiretti (e la Confagricoltura, socio di minoranza della Federconsorzi, la Confagricoltura) dal mega scandalo di cui erano responsabili uscirono perdendo un centro di potere ma persino con qualche vantaggio.  La Coldiretti comprò a un prezzo di favore – 71 miliardi di lire rispetto ai 200 indicati dal Tribunale fallimentare di Roma  – il principesco palazzo Rospigliosi. Confagricoltura acquistò, sempre a un prezzo favorevole, Palazzo della Valle. Tanto per capire come andavano le cose in Federconsorzi, in precedenza, per il grande palazzo da 6000 mq, la Coldiretti pagava 70 milioni di lire d'affitto contro i 4 miliardi di prezzo di mercato. Oltre a essere una mucca da mungere la Federconsorzi era uno strumento fortissimo di condizionamento del mondo agricolo. Lo stato, nel dopoguerra, riassegnò alla Federconsorzi delle funzioni pubbliche; così essa  mantenne nel passaggio dal regime fascista al democristianoa, la funzione di organo ausiliario del Ministero dell’agricoltura per la disciplina della produzione (ammassi dei prodotti) , per le importazioni per conto dello stato e per la distribuzione dei carburanti agricoli. La gestione del credito agevolato per l'acquisto delle macchine agricole chiarisce bene la commistione incestuosa tra monopoli industriali privati, apparato dello stato e un organo "privato" gestito da un sindacato agricolo.



Per accedere al credito agevolato (quello erogato attraverso i famosi "piani verdi"), la domanda doveva essere vagliata dall'Ispettorato provinciale all’agricoltura e da un funzionario designato da un istituto di credito tra quelli abilitati. La Federconsorzi, struttura privata di commercializzazione di mezzi per l’agricoltura, era anche uno degli istituti di credito autorizzati a gestire l’operazione di concessione del credito. I contadini, per non rivolgersi a due soggetti diversi, preferivano, ovviamente, trattare solo con il Consorzio agrario. In compenso ... o mangi questa minestra... L'accordo con la Fiat prevedeva l'esclusiva e i Consorzi vendevano solo trattrici agricole Fiat. Così la Fiat gonfiava il prezzo perché la concorrenza era sbaragliata in partenza. Con le mecchine agricole ha ricavato grossi profitti perché non solo il margine era elevato ma si vendevano anche moltissime macchine in un periodo (anni '60-'70) di corsa frenetica alla meccanizzazione.   La politica della Coldiretti, Federconsorzi, Ministero  tendevano a far acquistare  trattrici anche a contadini con fondi minuscoli, con la conseguenza di un bassissimo numero di ore di utilizzo. Il contadino si sentiva socialmente elevato perché poteva andare al bar con la trattrice agricola, ma era una politica che preparava il crollo delle piccole aziende. Era una modernizzazione drogata e subalterna che preparava emarginazione ed espulsione. Questa politica di meccanizzazione sciagurata avrebbe potuto essere corretta dalla cooperazione ma la Coldiretti non promuoveva lo spirito cooperativo facendo anzi leva sull'individualismo vecchio e nuovo; non favoriva la collaborazione e l'iniziativa dal basso degli associati, che dovevano e potevano intraprendere azioni collettive solo come e quando la Coldiretti ordinava. Il risultato è stato che le cooperative rosse sono diventate molto più potenti. Con il crollo della Federconsorzi e con la svendita dei gioielli dell'industria agroalimentare, quella che doveva essere la diga contro le sinistre ha consegnato loro l'egemonia della cooperazione agricola.
Oltre che con la Fiat-Om la Federconsorzi siglò contratti di vendita in esclusiva anche con la Laverda (mietitrebbie, falciatrici ecc.) e, sul fronte della chimica, con la Montecatini e l’Anic. La logica era la stessa: per rafforzare sé stessa la Coldiretti favoriva l'industria.
Grazie alla simbiosi con la Federconsorzi la Coldiretti scaricava spese per sedi e personale e quant'altro (la torta era ricchissima). Finita l'era Federconsorzi ed esaurita la funzione di ammortizzatore sociale di un'agricoltura contadina serbatoio di disoccupazione nascosta e serbatoio di voti il principale sindacato agricolo italiano è dovuto passare alla seconda era. Non potendo più mungere dalla Federconsorzi si è riconvertita - come le altre organizzazioni agricole - in un centro di servizi.



Il business è stato assicurato dal crescere continuo delle pratiche, degli adempimenti, delle certificazioni, dei corsi imposti dalla logica di una tecnoburocrazia agricola (enti regionali, ministero, fondazioni, enti di formazione)  che ha rinunciato a supportare la produzione con gli strumenti di un tempo: informazione, divulgazione, sperimentazione, assistenza tecnica. In larghi settori del supporto all'agricoltura l'iniziativa commerciale, supportata dalle multinazionali, comunque da grossi gruppi privati, ha spiazzato ogni forma di supporto non commerciale anche perché tutto il settore dei servizi tecnici avrebbe dovuto porsi in modo alternativo ai grossi interessi privati (ma a livello di decisori politici ce di burocrati vi sono troppi intrecci  con gli interessi che si sarebbero dovuti contrastare). Così molte risorse "liberate" da funzioni tecniche si sono adeguate a nuovi ruoli burocratici tanto che il ruolo tecnico è spesso ridotto alla "firma del tecnico abilitato", si tratta di formalità - frequanti peraltro - che danno un contentino drogato alla "professionalità" tecnica. In un contesto fortemente burocratizzato, il ruolo delle organizzazioni professionali che
già fornivano assistenza per la contabilità, personale, fisco (oggi delegata ai Caf), pratiche per richiesta di finanziamenti, Uma carburanti, patentini fitofarmaci, si è dilatato in modo esponenziale anche in funzione delle varie riforme della Pac e della complessità delle procedure per l'ottenimento dei premi.
Alla partita Pac/Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) si aggiunge quella delle misure del Psr regionale sfrangiato in una molteplicità di misure con pratiche e domande differenziate.
In diversi casi il corrispettivo per il servizio erogato è proporzionale ai valori economici delle pratiche ed è evidente che questo porta a privilegiare il rapporto con le aziende più grosse e, ovviamente senza dichiararlo, a operare scelte politiche sindacali favorevoli ai clienti "migliori". La penalizzazione delle piccole aziende e della montagna dipende anche da questo.
 In realtà i rapporti con l'Agea, la gestione dei fascicoli aziendali, delle domande per l'accesso alle misure di sostegno non sono gestiti dalle organizzazioni sindacali ma dai Caa, Centri di assistenza agricola, istituiti nel 1999. Oltre alle organizzazioni agricole società di produttori, liberi professionisti che abbiano personale con le richieste competenze (dottori agronomi, commercialisti ecc.) possono aprire i caa. Ciò ha determinato la formazione di centri di assistenza agricola indipendenti che si sono posti in concorrenza con quelli delle organizzazioni agricole. La Regione Lombardia però si è distinata in uno smaccato favoritismo nei confronti delle organizzazioni introducendo, oltre i requisiti minimi nazionali, una serie di requisiti capestro molto pesanti. Oltre ai requisiti sulle strutture, personale, locali, attrezzature bastano i seguenti per capire la ratio del provvedimento: 1. Svolgere l’attività su tutto il territorio lombardo, assicurando una adeguata distribuzione della capacità operativa in tutte le province della Regione Lombardia; 2. Assistere almeno 1000 imprese agricole ovvero allegare alla domanda di riconoscimento un elenco di almeno 1000 utenti imprenditori agricoli che hanno dichiarato l’intenzione di avvalersi dell’assistenza del nuovo CAA.  La norma  istitutiva dei Caa  il decreto n. 165/1999, intendeva, su preciso indirizzo  dell'Unione europea che raccomandava una gestione dei fondi comunitari realizzata per il tramite di strutture terze e separate dai singoli sindacati di categoria.  In Lombardia solo rimasti solo cinque Caa: Coldiretti, Cia, Federlombarda (Confagricoltura), Copagri e Unicaa (aggregazione di UNIMA, Uniagronomi, Confcooperative e FederAgri-MCL.
Nel resto d'Italia le altre regioni non sono state così spudorate e sono nate organizzazioni di società di liberi professionisti. Un fatto spiacevole, specie per le organizzazioni sindacali agricole, una concorrenza fastidiosa che sottrae fatturati. Gli studi professionali infatti trattano il cliente, non essendo un socio, con più rispetto (abbiamo visto prima come nella Coldiretti il "padrone" è il funzionario). Se commettono errori i Caa "indipendenti" tendono ad essere più pronti a scusarsi. Una conseguenza del fatto che essi devono fidelizzare il cliente con la qualità del servizio  e non hanno altri strumenti al di fuori dell'attività del caa stesso.

La terza fase della Coldiretti

La Coldiretti dopo la fase della simbiosi con i Consorzi agrari, dopo quella in cui è prevalso il ruolo di azienda erogatrice di servizi, si avvia alla terza fase della fidelizzazione attraverso l'attività di supporto alla commercializzazione. Un modo per acquistare "quote di mercato" a spese degli altri caa e delle altre organizzazioni agricole.

  


 
Campagna amica, con la sua forte visibilità, ha molto contribuito a lanciare l'immagine della Coldiretti (che oggi si presenta con il claim ambizioso: La forza amica del paese). Essa appare oggi al cittadino-consumatore come una entità meta/para-commerciale, comunque come brand del settore agrolaimentare, suscettibile di futuri  sviluppi.  Dal punto di vista dell'organizzazione essa è riuscita a offrire ai soci qualcosa di più della concorrenza (Cia, Unioni agricoltori, Copagri ecc.). Le altre organizzaizioni che non hanno nulla di ciò o comunque nulla di così capillare di mercatini contadini e di botteghe  (aspettiamoci anche i ristoranti e i supermercati).
Valorizzando un'immagine molto conoscita, accuratamente e assiduamente curata nei rispetto dei media (anche grazie al supporto di agenzie specializzate), la Coldiretti non ha difficoltà ad ottenere dalle amministrazioni pubbliche spazi  per i mercatini. Iniziativa lodevole e utile per i produttori. Ci si chiede, però, perché il brand Coldiretti debba sovrastare così pesantemente l'immagine di aziende, aggregazioni di produttori e territori. La vecchia tendenza dell'organizzazione di massa a "mettersi in divisa" qui è ripresa in funzione commerciale. L'obiettivo è indurre il consumatore a  porre fiducia nel brand Coldiretti, identificandolo con il prodotto "contadino" (un po' vagamente...).  Il risultato è  quello, come con tutti i marchi collettivi (dop in primis) di tendere ad appiattire la percezione della qualità offerta, di  farne un po' perdere l'individualità, specie al di fuori di contesti di relazioni di acquisti reiterati e di conoscenza personale. Però questo è pur sempre una sfumatura nel complesso di una iniziativa che va nel senso giusto che sicuramente risponde alle esigenze degli associati.
Va comunque osservato che, anche di fronte al consumatore, il mondo agricolo si presenta non con un volto unitario ma diviso, incapace di iniziativa se non sotto l'ala di un apparato.



L'aspetto più problematico è però un altro. Nella prima fase di vita della Coldiretti il rapporto con la politica e con l'industria (mediato da Federconsorzi) ha distorto il ruolo di difesa degli interessi agricoli subordinandolo ad altre esigenze extra-agricole. Nella seconda fase l'attività di fornitura di servizi connessi ai rapporti con la pubblica amministrazione (adempimenti burocratici, erogazioni di premi, procedure di  finanziamento) ha trasformato l'organizzione agricola in un'azienda di servizi il cui interesse finisce per divergere da quello del socio-produttore agricolo (più adempimenti e più pratiche ci sono da espletare e più l'organizzazione guadagna).  Nella terza fase, quella del ruolo meta-commerciale (Campagna amica, Botteghe italiane, Filiera Italia), ancora una volta  il sindacato  viene frenato dall'assumere posizioni a tutela del mondo agricolo che turbino la "sensibilità" del consumatore urbano. E dal momento che i media dell'establishment  condizionano gli orientamenti del consumatore - vedi ideologie ambientaliste e animaliste - questo condizionamento condanna al conformismo e al quietismo l'organizzazione anche quando ciò è pericoloso per il futuro del mondo agricolo e rurale.



Dalle parti della Coldiretti non si nasconde che una presa di posizione più decisa sul tema del lupo non ce la si può permettere perché oggi i consumatori non capirebbero. Non solo ma è stata capace di partecipare a progetti lupisti e a partecipare al coro "amiamo il lupo". Grave è stata la partecipazione al progetto Pasturs che intende "dimostrare" (mettendo dei giovani volontaria a guardia di pascoli dove, per ora, i lupi e gli orsi non ci sono) che la convivenza tra pastori e i grandi carnivori  è  possibile e auspicabile. Progetto che ha unito la Coldiretti al WWF in un connubio incestuoso che non è putroppo nuovo.



In puro stile coldirettistico (sintetizzabile in: noi ci possiamo permettere divoltare la gabbana quando vogliamo e di tenere il piede in tutte le scarpe che vogliamo) l'organizzazione è corsa però ai ripari quando ha annusato puzza di bruciato, ovvero che gruppi di allevatori pronti a traslocare verso altre organizzazioni.  Allora, in Lessinia, ha attivato di tasca sua un progetto di protezione dal lupo affidato, finalmente, non ai lupisti ma a un veterinario e cacciatore, il dr. Antonio Scungiu, che ora opera in val Pellice per un monitoraggio dei lupi ed è stato nominato responsabile crandi carnivori.



Non è finita: 12 luglio 2019, in piazza Dante a Trento la Coldiretti ha portato in piazza gli allevatori per protestare contro la crescita esponenziale dei lupi in Trentino. La notizia non ha peraltr avuto risalto a livello nazionale.
Una manifestazione-sfogatoio che non cambia la linea "prudente" dell'organizzazione, del tutto insostenibile a fronte di aziende che chiudono causa lupi in varie regioni d'Italia.


Appendice: omaggio a un vero leader contadino
con la schiena diritta e una parola sola




Avendo citato una recente manifestazioni Coldiretti in piazza a Trento ne vogliamo ricordare un'altra organizzata da un vero leader contadino che portò in piazza a Trento  4000 rurali per protestare contro l'establisment coldirettistico e democristiano in occasione del crollo del prezzo delle patate. Era il  16 febbraio 1964. L'organizzatore era Luigi Carbonari, un signore nato nel 1880, il leader storico dell'Unione dei contadini della provincia di Trento. Eletto deputato a Roma nel 1921 e nel 1920 con Degasperi (con il quale non fu mai in sintonia). Troppo autonomista, troppo contadinista, uomo tutto di un pezzo (sotto il fascismo si guadagnò da vivere, lui con due lauree prestigiose a Vienna, vendendo lucido da scarpe), non poteva accettare il centralismo bonomiano.  Eletto presidente dell'Unio
ne dei contadini nel 1946, fu silurato, dopo vari tentativi di Roma, nel 1950.  Liquidato Carbonari l’Unione dei contadini, nel 1951 aderì alla Coldiretti. Dal 1952 l’Unione sarà presieduta, per un ventennio, dall’on. Helfer che incarnava il principio della “tutela” del partito (la Dc) sui contadini, ma che difese i margini di autonomia da Bonomi. Bisognerà aspettare fino al 2003 perchè l’Unione dei contadini diventi una anonima Federerazione provinciale coltivatori diretti (il fantasma di Carbonari faceva sempre un po' paura e hanno aspettato un po', mica erano coraggiosi come lui).



 






































































































































































































































































































































































































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