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Il contadino italiano senza
difesa
le
organizzazioni che rappresentano, ufficialmente, l'agricoltura fanno
spesso prevalere il proprio interesse anche quando è in contrasto con
quello dei contadini e del mondo rurale
di
Michele Corti
I problemi del mercato del lavoro agricolo
e la burocratizzazione di ogni aspetto che riguarda la vita delle
aziende, esasperato
dall'emergenza,
mettono in evidenza come le organizzazioni agricole in Italia non
svolgano un ruolo efficace di tutela politico-sindacale. Condizionate
dal
loro incarnare altre funzioni, spesso in conflitto di interessi con
quella che dovrebbe essere la principale e la ragion d'essere.
Erano - la Coldiretti in particolare - organizzazioni di massa,
funzionali al consenso politico; sono
diventate centri di servizi, in ultimo organizzazioni para-commerciali.
Così il contadino, il mondo rurale non ha strumenti per far
valere le proprie ragioni rispetto alle altre componenti della società
(01.03.20) Partiamo da un fatto di attualità, piccolo fin che si vuole,
ma emblematico: la vicenda del bonus dei 600€. Chi ha il Pin Inps, un
sistema di autenticazione e un po' di famigliarità con una domanda
online lo fa con pochi click (se il sistema non si inchioda). Se un
contadino si rivolge alle
proprie organizzazioni si sente chiedere 25 (a volte di più, a volte di
meno) euri per la domanda. Ma se hanno già le
anagrafiche del socio, l'iban (se non dove arrivano i contributi
Agea?). L'aiuto in emergenza viene, per così dire "parzialmente
dirottato". Non è
la cifra in sé che conta; capiamo che in questo periodo
dedicare una persona a questa attività è un impegno e un costo, ma
quello che non
piace è il fatto che è rappresenti la spia
di un atteggiamento mentale. Che cosa
dice questo fatto apparentemente insignificante: Tu sei un cliente, lascia perdere se ti
rivolgiamo a te come "gentile associato", se vieni da noi è perché non
puoi farne a meno, noi dobbiamo ragionare nell'interesse della nostra
baracca; abbiamo spese, impiegati, sedi, per noi, tu conti
perché ci porti lavoro e contribuisci al fatturato, non importa se non
capisci.
Andiamo avanti con i guai di questo periodo in cui, oltre alla
tragedia del contagio, si aggiungono le complicazioni (evitabili) della
burocrazia.
Nessuno si illude che politica e burocrazia diventino chiare, limpide,
efficienti con l'emergenza; se sono quello che sono non possono
cambiare da un
giorno all'altro, neppure se si sta giocando con la vita dlele persone.
Abbiamo già
lamentato come i contadini "hobbisti" (ma smettiamola di chiamarli
così) non possano
coltivare l'orto qui.
Un assurdo che si spiega con l'antipatia della politica per chi pratica
l'autosussistenza e vuole essere autonomo dalle filiere agroalimentari.
I problemi,
però, ci sono anche per muovere le merci per e dalle aziende agricole.
Fa riflettere che si possa portare gli il cane dieci volte al giorno e
si creino a volte difficoltà e perdite di tempo non giustificate a chi
deve consegnare un carico di fieno.
Ma veniamo a uno dei tempi più dibattuti in questi giorni: chi
raccoglierà l'ortofrutta se non arrivano stranieri regolari? Di
qui la solita richiesta di chi non aspetta altra occasione per riaprire
le porte all'immigrazione clandestina: "dentro 200-250 mila africani"
canta il coro della sinistra. Ma
perché
studenti e pensionati, secondo il coro, non rispondono all'appello? Ma sono
gli stessi che hanno abolito i voucher, che funzionavano molto bene,
gli stessi che hanno caricato sulle spalle
delle aziende italiani un carico burocratico (costi e adempimenti) più
pesante di quello di paesi che hanno redditi molto superiori. Uno
dei motivi della difficoltà di reperimento della manodopera è il
reddito di cittadinanza, concepito male e applicato peggio (di qui la
battuta che invece che essere un incentivo a trovare un lavoro è
diventato l'incentivo a fare... il buco sul divano).
In
ogni caso ci sono tanti italiani, giovani e meno giovani, che hanno
bisogno di lavorare e sono pronti ad adattarsi. Non si dice che siano
eserciti ma sono tanti. E spesso si sentono dire che per loro non c'è
posto, che assumono solo stranieri. Negarlo è offensivo
per gli italiani che svolgono lavori umili. In
ogni caso l'alternativa non va vista solo tra il divano e la zappa. C'è
che non ha "il fisico", ma sa
"smanettare" con i dispositivi elettronici e lascerebbe volentieri il
divano, se fosse incentivato a farlo. Anziani
e non anziani, che hanno scarsa famigliarità con l'uso di pc e
smart-phone, potrebbero essere "accuditi" (a domicilio o a distanza) da
ragazzi svegli e volenterosi. Avremmo meno persone che non riuescono a
sbrigare le pratiche online.
Invece che regalare tanti soldi alle
organizzazioni, il governo e le regioni potrebbero promuovere campagne
di "alfabetizzazione" informatica assegnando - molto più dignitosamente
rispetto al reddito
- ai giovani interessati un compenso per il loro impegno. Chiamalo
volontariato civile con rimborso o come volete voi. Risolverebbe anche
il
problema di chi deve andare a dare 25€ parassitari non riuscendo ad
espletare una semplice pratica online. Il paese ne guadagnerebbe.
Siccome, però, sarebbe un a azione troppo intelligente - ma che non
disseta
nessuna lobby - non si farà mai.
Tornando
alla manodopera per le raccolte il problema vero è che fino a quando -
proprio in forza di successive
ondate o ondine immigratorie - vi sarà presenza di manodopera straniera
disposta a lavorare per pochi euro, anche in condizioni di lavoro
durissime,
il datore di lavoro la preferirà (per ovvi motivi di ricattabilità e
docilità) agli italiani, anche a quelli che vogliono lavorare, anche a
quelli con i calli sulle mani. D'altra parte è impensabile che i datori
di lavoro che pagano 2-3 € all'ora (anche perché arriva dall'estero
prodotto da paesi dove pagano 0,5€) si adeguino a minimi salariali (10
€ lordi), norme sulla sicurezza, ecc. ecc. Mettersi in regola e
assumere regolarmente (specie senza voucher) è molto oneroso.
In ogni caso, alimentare nuovi cicli di immigrazione extracomunitaria
significa non
risolvere il problema del mercato del lavoro agricolo perché molti, una
volta messo il piede in Europa, grazie alla "porta aperta", se ne vanno
altrove, spesso stramaledendo l'Italia, il caporalato, la mafia, lo
sfruttamento dei negrieri. Chi si sottomette a rapporti di lavoro
umilianti,
condizioni di alloggio che offendono la dignità umana, lo fa solo per
un periodo limitato. Appena ha altre opportunità lascia .
Fortunatamente non ci sono solo i "gironi infernali", comunque
ancorapresenti in alcune regioni dopo tante denunce, ci
sono condizioni di semi legalità, altre di quasi legalità. Tutte, però,
avvantaggiate da una manodopera più docile e flessibile. Questa
segmentazione del mercato del lavoro è molto comoda anche per lo stato
che può "modulare" la sua pressione normativa e fiscale-contributiva
nelle diverse aree geografiche e nei diversi comparti del settore
agricolo applicando, con molto ineguale zelo, i controlli sul rispetto
delle regole - previdenza, sicurezza, igiene. Se a Gioia Tauro si
applicasse il rigore di Bergamo... Se ci si pensa è la stessa
legge della segmentazione del mercato da parte di un venditore
monopolista. Lo stato ottiene la massima estrazione di ricchezza
sfruttando la diversa disponibilità a farsi spremere: a Gioia Tauro per
ottenere lo stesso livello di legalità del Nord lo stato dovrebbe
investire grandi risorse. I controlli rendono di più dove c'è meno
resistenza.
Così
si spiega perché esistono ancora fenomeni come il caporalato e di
sacche di
illegalità sottratte ai controlli degli Ispettorati del lavoro, delle
Asl, dei Nas, della Guardia di Finanza, in una parola dello stato.
Anche al Nord non mancano i "negrieri" ma sono casi isolati dietro ai
queli si deve supporre la presenza di "coperture".
La soluzione proposta dai fautori
dell'immigrazione a fronte dell'esistenza di un mercato illegale del
lavoro è la
regolarizzazione dei clandestini. Una scelta che potrebbe essere
comprensibile, nel bene dei "nuovi schiavi" se non fosse accompagnata
dalla
politica di "porte aperte" che consentirebbe ai negrieri di disporre di
sempre nuova "materia prima" facilmente ricattabile e disposta ad
accettare qualsiasi condizione imposta.
Presupposti del ciclo negriero
Ci
si potrebbe chiedere perché un fenomeno (il nuovo schiavismo delle
campagne) che poteva sembrare una patologia transitoria, legata ai
primi flussi migratori di massa degli anni '90, sia diventato
strutturale in Italia. Da una parte in Italia, vi sono
estese coltivazioni ortofrutticole non facilmente meccanizzabili
(almeno finché si trova manodopera a 2-3 € all'ora, remissiva e senza
diritti), dall'altra vi è una propensione cronica in alcune regioni
all'illegalismo. Però - il caso dei pomodori è tipico - non si può
ignorare che la
globalizzazione, con la caduta del protezionismo agricolo a
livello di comunità europea, ha spalancato le porte al prodotto
extraeuropeo. Non c'è nulla di "naturale" in questi
fenomeni (globalizzazione, ondate migratorie).
La Cina , il virus non a caso è nato lì, è un
immenso paese dualista, con la realtà rurale precipitata in una
condizione di inferiorità sotto ogni punto di vista. Dal punto di vista
assoluto il reddito, i beni di consumo, le motociclette (le auto ancora
no), i computer aumentano ma non tanto da "agganciare" la città, anzi.
Certo non si muore di più di fame a milioni come durante il "Grande
balzo in avanti" imposto alla Cina dal sanguinario Mao tzedong (che noi
in occidente esaltavamo come un eroe contadino), ma c'è una forbice
sempre più forte tra le città, proiettate nella rivolzione
capital-comunista e nell'alta tecnologia, e 500 milioni di rurali. In
Cina non c'è libertà di circolazione interna, il contadino deve restare
al suo posto (quando avveniva in Italia nel "ventennio", per frenare
l'urbanizzazione e prevenire le baraccololi, era considerata una
barbarie).
Della globalizzazione, dei principi neoliberali il regime comunista ha
preso quello che gli ha fatto comodo. Anche i diritti sindacali sono
inesistenti. Risultato: nonostante la crescita del Pil e i progressi
tecnologici, commerciali, militari, imperialistici (l'Africa da colonia
europea sta diventando o lo è già una grande colonia cinese), la Cina
ha costi del lavoro ancora molto più bassi dei nostri. Oltre allo
sfruttamento del
lavoro, alla mancanza di tutele sindacali c'è anche un altro aspetto
della globalizzazione velenosa: l'uso dei pesticidi: quelli usati nei
paesi "emergenti" sono spesso i prodotti che in
Occidente non stati messi al bando perché altamente pericolosi.
L'occidente rispetto alla Cina continua a mantenere l'atteggiamento
"idealizzato" degli studenti del '68. Un atteggiamento non più ingenuo
ma di convenienza. Si chiude gli occhi su troppe cose per fame di
business. Il virus (le sue conseguenze economiche e agroalimentari)
renderà più arduo coltivare idee di comodo sulla Cina. Intanto ,
però, il suo costo della manodopera le consente di invadere i mercati
mondiali costringendo chi soffre questa concorrenza a ricorrere
ricorrere a soluzioni che
consentano di abbassare i costi di prodotti ad alta intensità di
manodopera.
E le organizzazioni
agricole?
Cosa fanno le organizzazioni dei datori di lavoro, in questo caso le
organizzazioni agricole? Come è possibile tollerare forme cosi' gravi
di
concorrenza sleale tra imprenditori? Ma, ancora più al fondo del
problema, come è
possibile che l'assunzione di un dipendente "in regola" comporti oneri,
adempimenti, controlli tanto pesanti per le piccole aziende da far loro
rinunciare di assumere, così da essere costretti a scoppiare di lavoro
o a chiudere?
Se allarghiamo ad altri fattori di sofferenza delle
aziende agricole è gioco forza constatare che le organizzazioni, se
siamo arrivati a questo punto, hanno fatto poco o nulla in diversi casi
per contrastarli. In generale le organizzazioni agricole italiane
- le più disunite d'Europa - si sono mostrate sempre meno combattive
delle corrispondenti organizzazioni europee. Ai tempi del vecchio Mec
(Mercato comune europeo) l'Italia ha sempre anteposto gli
interessi industriali a quelli dell'agricoltura, mentre gli altri
partner (allora c'erano solo tedeschi, francesi e olandesi) imponevano
le regole delle organizzazioni comuni di mercato a vantaggio delle loro
agricolture. Come noto le politiche protezioniste a senso unico
assorbivano il
bilancio comunitario e portarono alla gestione onerosissima di enormi
eccedenze... sino alle quote latte, che penalizzarono l'Italia che era
deficitaria.
All'Italia interessava esportare i frigoriferi e
l'agricoltura è stata svenduta consapevolmente come merce di scambio.
La Coldiretti era una
organizzazione di massa del regime democristiano di allora e si
adeguava. Non faceva valere la sua grande forza politica perché in
cambio aveva mano libera nella politica clientelare della
Federconsorzi e gli apparati statali contribuivano a rafforzare il suo
ruolo egemone (c'era una volta, in un tempo non tanto lontano, che...
le grauduatorie dei beneficiari
di finanzamenti venivano stilate nell'ufficio della Coldiretti e le
passava a
quello accanto dell'Ispettorato agrario).
Il mondo agricolo allora valeva per la politica più come una riserva
voti e di potenziale manodopera industriale. Una riserva da sgonfiare
lentamente, per non creare problemi sociali e per garantire su un arco
di tempo abbastanza lungo la fornitura alle fabbriche del Nord di
manodopera di
origine rurale ("fresca" e "docile"). Lo "sgonfiamento" rurale doveva
essere imponente ma non troppo precipitoso per aiutare a
sostenere l'industria anche in un altro modo: sfruttando l'agricoltura
con la vendita a caro prezzo di mezzi tecnici. Se l'agricoltura
si è modernizzata tardi e male è anche perché è stata largamentee
malamente
sfruttata dalla Fiat (macchine) e dalla Montecatini (chimica) - oltre
che dalle industrie trasformatrici. Quello che le veniva tolto,
attraverso rapporti distorti di
mercato, sul piano della produzione, le veniva restituito in
assistenzialismo, con il risultato di legare a filo doppio il contadino
al sistema. Ma così la forza economico-sociale dell'agricoltura si
riduceva.
Gestendo Federconsorzi, casse mutue, credito agevolato, pensioni,
l'organizzazione agricola (la Coldiretti) poteva ottenere il consenso
agricolo anche senza
difendere la produzione agricola. Un
affare per la politica e la grande industria, un danno per
l'agricoltura e il paese.
Le casse mutue di assistenza
malattia per i
coltivatori diretti furono istituite nel 1954; le pensioni di
invalidità e vecchiaia nel
1956. Bonomi, il "duce" della Coldiretti, apparve a quei contadini, che
dopo un solo anno di contributi
potevano riscuotere una pensione, come un salvatore della patria.
Attraverso le elezioni per le Casse
mutue comunali la Coldiretti
rafforzò la propria egemonia; nel 1955 conquistò il 97,5% delle Casse.
L'estesa organizzazione della Coldiretti
(c'erano uffici e sezioni comunali quasi ovunque) era molto costosa e
richiedeva molto personale. Nata quasi dal nulla la Coldiretti, per
affermarsi, ebbe bisogno di alcuni elementi un po' "drogati" che ne
marcarono per sempre, i connotati. Da una parte non poté fare a meno di
riciclare i quadri del sindacalismo fascista, dall'altra ebbe bisogno
dell'aiuto degli industriali (che non lo concedono a gratis). Anche il
Pci fece del resto attinse ai quadri del Pnf (l'impronta totalitaria di
entrambi i partiti rendeva la cosa agevole). La Dc, a differenza del
Pci, aveva la
possibilità di attingere dall'Azione cattolica (che durante il regime
aveva avuto la funzione di "frigorifero"). Anche il personale politico
della Coldiretti
veniva dal mondo cattolico, ma per far funzionare una grande macchina
sindacale ci
volevano tecnici, burocrati, funzionari e quelli non potevano venire
che dalle organizzazioni fasciste. Il regime fascista aveva promosso
apparati burocratici gonfi di personale che, però, anche quando tecnicamente
valido, era sostanzialmente carrierista e opportunista. Una conseguenza
della spoliticizzazione imposta a tutti i livelli nelle organizzazioni
sociali, a partire dallo stesso partito, dal Pnf, dove
la mentalità burocratico- militaresca e l'appicazione pedissequa degli
ordini "credere, obbedire, combattere") spegneva ogni velleità di critica
costruttiva e di iniziativa (e così il regime, forte di un consenso "di
parata", il 25 luglio cadde come una pera cotta, liquidato
dall'interno).
La burocrazia fascista poteva funzionare benissimo con nuove direttive
dall'alto. Una mamma dal cielo, sia per
il Pci che per la Coldiretti di Bonomi che crearono organizzazioni di
massa con molti aspetti in comune con quelle del regime.
La Coldiretti anche formalmente sorse dalla già
esistente Federazione piccoli
coltivatori diretti, alla guida della quale Paolo Bonomi venne
nominato commissario già nel 1943 alla caduta del regime.
Questo sindacato rimase inserito in una nuova organizzazione unitaria,
la Federazione italiana degli
agricoltori,
che - a sua volta - era erede della Confederazione
nazionale fascista degli agricoltori . Ma, nel 1944, Bonomi su imput della Dc,
staccò il
sindacato dei Coldiretti e lo costituì in Confederazione autonoma
(guidandola sino al 1980). La Fida poi divenne Confagricoltura .
La Coldiretti partiva svantaggiata (si era staccata dal sindacato
unitario), ma seppe diventare egemone grazie all'appoggio della Dc,
della chiesa e dell'industria. Era forte di un modello verticistica,
quasi militare, il modello dell'organizzazione di massa
ereditato dal fascismo. Nulla da inventare, solo da adattare.
Alla presa del Pci sulle masse operaie, sui braccianti , sui mezzadri,
occorreva contrapporre una forte egemonia sull'ancora vasto
mondo rurale costituito da coltivatori proprietari e affittuari.
Il modello dell'organizzazione di massa è rimasto a lungo nel Dna della
Coldiretti anche quando gli scenari politici mutarono grandemente
(centro-sinistra). In presenza dell'egemonia della componente
funzionariale, le elezioni delle cariche interne
erano pilotate (democrazia sulla carta) e non esisteva una discussione
politica, sostituita dalle "direttive". Finita l'epoca bonomiana
emerse,
tra uno stuolo di concorrenti, Arcangelo Lobianco, direttore della
federazione di Bari, esponente tipico della classe dirigente
coldirettistica: da funzionario a presidente e politico della Dc.
Defenestrato per ever perso la vacca da mungere (la Federconsorzi) fu
traslocato al ritiro dorato dell'ANBI
(Associazione Nazionale Bonifiche e
Irrigazioni).
In tutta Italia questo cursus honorum
è stato frequente (a Milano si ricorda la carriera di Nino Pisoni da
segretario di zona a Europarlamentare).
Dopo Lobianco c'è stata una
serie di presidenti che erano, oltre
che politici e titolari di varie cariche pubbliche e private, anche imprenditori agricoli ma il
punto è che non erano più i dittatori alla Bonomi e nemmeno i capi, ma
figure di
rappresentanza la cui elezione è pilotata, come per le organizzazioni
locali, dai funzionari che sono sempre stati i veri "padroni"
dell'organizzazione.
Nel caso del
presidente nazionale è la figura apicale della "struttura", il mega
direttore generale Vincenzo Gesmundo, il vero principe di Palazzo
Rospigliosi che fa e disfa i presidenti. Nel 2014 incassò, compresa
la liquidazione 1,8 milioni di euro e, nel complesso tra 2002 e 2014,
oltre 10 milioni di euro. Poi è rimasto con un incarico a tempo
determinato sino a oggi. Ai critici, un po' scandalizzati, che
contestavano il fatto che gli
euri corrisposti dai contadini per pagare - a prezzo niente affatto
scontato - i servizi della Coldiretti, finissero in principeschi
stipendi, venne risposto che non tutti gli emolumenti del dott. (in
filosofia) Gesmundo venivano dagli associati ma che una parte delle
entrate del nostro era per compensi per incarichi del Ministero
dell'agricoltura. La pezza è peggio del buco. Ma come: tu che hai già
entrate da nababbo, che non dovresti avere molto "tempo libero" da
dedicare ad arrotondare lo stipendio, prendi anche soldi dal Ministero
con il quale dovresti confrontarti? Gli ingenui associati si
aspetterebbero
che il loro gran capo vada a battere i pugni nei palazzi delle politica
e della burocrazia. Ma quali pugni se prende i loro soldi? Lecito
pensare che si faccia piuttosto comunella.
Cresciuta in modo esponenziale sino a raggiungere nel 1952 i 5,6
milioni la Coldiretti è comunque ancora una corazzata da 1,5 milioni di
soci. La gestione, nonostante l'avvicentarsi dei presidenti
post-Bonomi è sempre rimasta strettamente verticistica: tutto
veniva
dall'alto e un motto dei segretari di zona negli anni ’50 era: guardare Roma, seguire Roma, ascoltare
Roma. Il clima era ancora mussoliniano, la struttura di tipo
militare: i segretari di sezione erano paragonati
ai caporali, i segretari di zona ai capitani, i direttori provinciali
ai colonnelli. Era una struttura capace di mobilitare le masse per le
adunate, per generare un consenso passivo, non certo accompagnato
dalla discussione interna, dalla possibilità di critica dei funzionari
e dei vertici politici, dall'elaborazione di idee. La passione
per la "divisa" , il
grande sfoggio di bandiere, fazzoletti, cappellini gialli è, senza
dubbio, un retaggio di questo imprinting. La
"base", vincolata al consenso fideistico, non abituata a discutere, a
elaborare critiche, non si ribella mai. Non chiede neppure conto di
certe "virate politiche". Non si è visto nessuna organizzazione passare
dall'appoggio a governi di destra a quelli di sinistra con la velocità
della Coldiretti. "La Coldiretti ha sempre ragione" e se, da un certo
punto, lo stile "ventennio" si è ibridato con quello
"all'americana" da convention,
da "We are the best". non è mai venuta meno la
spregiudicatezza. Sostenere una posizione
... ma anche l'altra, salvo poi posizionarsi dove è più conveniente.
Principi liquidi, alleanze variabili, ricerca della visibilità. Basti
pensare ai flirt con il WWF e l'ambientalismo (ci torniamo più avanti),
alla politica contro il piccolo contadino che non può
essere "imprenditore agricolo", ribaltando quella che era la politica
delle origini (per il solo fatto che i piccoli contadini oggi sono
pochi e non "rendono"). Tutto possible perché, alla fine, la
Coldiretti è passata da un modello di organizzazione di massa a quello
dell'azienda, che non è mai democratico. C'è stata una modernizzazione
nella forma, attuata affidandosi alle agenzie di marketing e di
comunicazione (le palanche non mancano), ma mai una democratizzazione
effettiva. Tolto quell'entourage di imprenditori cooptati dai
funzionari, la base non esprime alcuna volontà politica ma si
identifica nel "brand". Non parliamo
poi di quei tanti contadini che "fanno numero", ma che pagano la
tessera perché
ancora convinti che senza l'iscrizione "ai coltivatori" non si possano
ricevere i contributi
Non si va lontani dalla realtà affermando che uno dei fattori della
mancata crescita di una maturità politica, di
una consapevolezza dei propri interessi dei contadini italiani va
individuato nel modello di organizzazione di massa paternalistico della
Coldiretti.
Questa
condizione di inferiorità, di scarsa combattività (niente proteste alla
francese, solo adunate a comando), i rurali italiani la pagano a caro
prezzo nel
loro confronto sempre difficile, spesso perdente, con le altre
componenti sociali, ben più attrezzate. Cadute
le motivazioni
politiche e la tensione morale delle origini, l'azienda finisce per
operare
nell'interesse del proprio apparato e non di chi, per ragione sociale,
dovrebbe rappresentare. Il socio diviene il cliente da mantenere
fidelizzato con mezzi che non sono la qualità e il prezzo
ma impigliandolo in una rete di vincoli. Se mi metto contro la
Coldiretti... .
Ma
rifacciamo qualche passo indietro. La Coldiretti, oltre che
per l'aiuto del governo e del clero divenne, come già
accennato, una
grande forza organizzata che anche all'aiuto degli industriali. Usciti
dall'ultima guerra, conquistava tesserati i piccoli proprietari distribuendo beni
di prima necessità a chi si iscriveva (copertoni di biciclette, tessuti), poi
si passò ai mezzi tecnici. Nel 1949 Bonomi assumeva la presidenza
della Federconsorzi e strinse accordi con l'industria. Nel 1951 il
cattolicissimo Alessandro Scotti, deputato e leader del Partito dei contadini, molto forte
a Cuneo e Asti, che incarnava un autentico spirito contadino
(ostacolato con ogni mezzo da Pci, Dc e Coldiretti), denunciava
che: Il
prezzo del solfato di rame è salito a 25-30.000 lire al quintale. Esso
è stato distribuito in certe provincie ai soli soci della Federazione
Coltivatori diretti e a chi ne chiedeva la tessera, quasi che gli altri
viticoltori non fossero italiani.
Il peso della Federconsorzi, un ente che
era stato creato prima del fascismo e che la politica democristiana
portò a un crack vergognoso, nell'agricoltura italiana era notevole. E
pesanti le conseguenze della sua caduta per saccheggio da parte di chi
gestiva. Tra gli asset figuravano società alimentari
del calibro
della Polenghi, Colombani, Massalombarda. Essi vennero svenduti con
criteri
di favore a gruppi economico-finanziari amici (poi ci pensò Prodi con
la Sme a proseguire l'opera) . Il buco della
Federconsorzi, commissariata nel
1991, equivale a qualcosa come 4-8 miliardi di euro attuali. Un fiume
di denaro sparito. Le banche, che bene conoscevano la situazione di
gravissimo dissesto condevevano crediti che sapevano inesigibili, la
Federconsorzi li smistava alle sue strutture e società
controllate. Copioni che in Italia si sono visti ancora (basti
pensare a MontePaschi). Oggi rubo io, domani tocca a te.
La Coldiretti (e la Confagricoltura, socio di minoranza della
Federconsorzi, la
Confagricoltura) dal mega scandalo di cui erano responsabili uscirono
perdendo un centro di potere ma persino con qualche vantaggio. La
Coldiretti comprò a un prezzo di favore – 71 miliardi di lire rispetto
ai 200 indicati dal Tribunale fallimentare di Roma – il
principesco palazzo Rospigliosi. Confagricoltura acquistò, sempre a
un prezzo favorevole, Palazzo della Valle. Tanto per capire come
andavano le cose in Federconsorzi, in precedenza, per il grande palazzo
da 6000 mq,
la Coldiretti pagava 70 milioni di lire d'affitto contro i 4 miliardi
di prezzo di mercato. Oltre a
essere una mucca da mungere la Federconsorzi era uno strumento
fortissimo di condizionamento del mondo agricolo. Lo stato, nel
dopoguerra, riassegnò alla Federconsorzi delle funzioni pubbliche; così
essa mantenne nel passaggio dal regime fascista al
democristianoa, la
funzione di organo ausiliario del Ministero dell’agricoltura per la
disciplina della
produzione (ammassi dei prodotti) , per le importazioni per conto
dello
stato e per la distribuzione dei carburanti agricoli. La gestione del
credito agevolato per l'acquisto delle macchine agricole chiarisce bene
la commistione incestuosa tra monopoli industriali privati, apparato
dello stato e un organo "privato" gestito da un sindacato agricolo.
Per accedere al credito agevolato (quello erogato attraverso i famosi
"piani verdi"), la domanda doveva essere vagliata dall'Ispettorato
provinciale all’agricoltura e da un funzionario designato
da un istituto di credito tra quelli abilitati. La Federconsorzi,
struttura privata di
commercializzazione di mezzi per l’agricoltura, era anche uno
degli istituti di credito autorizzati a gestire l’operazione di
concessione del credito. I contadini, per non rivolgersi a due soggetti
diversi, preferivano, ovviamente, trattare solo con il Consorzio
agrario. In compenso ... o mangi
questa minestra... L'accordo con la Fiat prevedeva l'esclusiva e
i Consorzi vendevano solo trattrici agricole Fiat. Così la Fiat
gonfiava il prezzo perché la concorrenza era sbaragliata in partenza.
Con le mecchine agricole ha ricavato grossi profitti perché non solo il
margine era elevato ma si vendevano anche moltissime macchine in un
periodo (anni '60-'70) di corsa frenetica alla meccanizzazione.
La politica della Coldiretti, Federconsorzi, Ministero
tendevano a far acquistare trattrici anche a contadini
con fondi minuscoli, con la conseguenza di un bassissimo numero di ore
di utilizzo. Il contadino si sentiva socialmente elevato perché poteva
andare al bar con la trattrice agricola, ma era una politica che
preparava il crollo delle piccole aziende. Era una modernizzazione
drogata e subalterna che preparava emarginazione ed espulsione. Questa
politica di meccanizzazione sciagurata avrebbe potuto essere corretta
dalla cooperazione ma la Coldiretti non promuoveva lo spirito
cooperativo facendo anzi leva sull'individualismo vecchio e nuovo; non
favoriva la collaborazione e l'iniziativa dal
basso degli associati, che dovevano e potevano intraprendere azioni
collettive solo come e quando la Coldiretti ordinava. Il risultato è
stato che le cooperative rosse sono diventate molto più potenti. Con il
crollo della Federconsorzi e con la svendita dei gioielli
dell'industria
agroalimentare, quella che doveva essere la diga contro le
sinistre ha consegnato loro l'egemonia della cooperazione agricola.
Oltre che con la Fiat-Om la Federconsorzi siglò contratti di vendita in
esclusiva anche con la
Laverda (mietitrebbie, falciatrici ecc.) e, sul fronte della chimica,
con la Montecatini e l’Anic. La logica era la stessa: per rafforzare sé
stessa la Coldiretti favoriva l'industria.
Grazie alla simbiosi con la Federconsorzi la Coldiretti scaricava spese
per sedi e personale e
quant'altro (la torta era ricchissima). Finita l'era Federconsorzi ed
esaurita la funzione di ammortizzatore sociale di un'agricoltura
contadina serbatoio di disoccupazione nascosta e serbatoio di voti il
principale sindacato agricolo italiano è dovuto passare alla seconda
era. Non potendo più mungere dalla Federconsorzi si è riconvertita -
come le altre organizzazioni agricole - in un centro di servizi.
Il business è stato assicurato dal crescere continuo delle pratiche,
degli
adempimenti, delle certificazioni, dei corsi imposti dalla logica di
una tecnoburocrazia agricola (enti regionali, ministero, fondazioni,
enti di formazione) che ha rinunciato a supportare la produzione
con gli strumenti di un tempo: informazione, divulgazione,
sperimentazione, assistenza tecnica. In larghi settori del supporto
all'agricoltura l'iniziativa commerciale, supportata dalle
multinazionali, comunque da grossi gruppi privati, ha spiazzato ogni
forma di supporto non commerciale anche perché tutto il settore dei
servizi tecnici avrebbe dovuto porsi in modo alternativo ai grossi
interessi privati (ma a livello di decisori politici ce di burocrati vi
sono troppi intrecci con gli interessi che si
sarebbero dovuti contrastare). Così molte risorse "liberate" da
funzioni
tecniche si sono adeguate a nuovi ruoli burocratici tanto che
il ruolo tecnico è spesso ridotto alla "firma del tecnico abilitato",
si tratta di formalità
- frequanti peraltro - che danno un contentino drogato alla
"professionalità" tecnica. In un
contesto fortemente burocratizzato, il ruolo delle organizzazioni
professionali che già
fornivano assistenza per la contabilità, personale, fisco (oggi
delegata ai Caf), pratiche per richiesta di finanziamenti, Uma
carburanti, patentini fitofarmaci, si è dilatato in modo esponenziale
anche in funzione delle varie riforme della Pac e della complessità
delle procedure per l'ottenimento dei premi.
Alla partita Pac/Agea
(Agenzia per le erogazioni in agricoltura) si aggiunge quella delle
misure del Psr regionale sfrangiato in una molteplicità di misure con
pratiche e domande differenziate.
In diversi casi il corrispettivo per il
servizio erogato è proporzionale ai valori economici delle pratiche ed
è
evidente che questo porta a privilegiare il rapporto con le aziende più
grosse e, ovviamente senza dichiararlo, a operare scelte politiche
sindacali favorevoli ai clienti "migliori". La penalizzazione delle
piccole aziende e della montagna dipende anche da questo.
In realtà i rapporti
con l'Agea, la gestione dei fascicoli aziendali, delle domande per
l'accesso alle misure di sostegno non sono gestiti dalle organizzazioni
sindacali ma dai Caa, Centri di assistenza agricola, istituiti nel
1999. Oltre alle organizzazioni agricole società di produttori, liberi
professionisti che abbiano personale con le richieste competenze
(dottori agronomi, commercialisti ecc.) possono aprire i caa. Ciò ha
determinato la formazione di centri di assistenza agricola indipendenti
che si sono posti in concorrenza con quelli delle organizzazioni
agricole. La Regione Lombardia però si è distinata in uno smaccato
favoritismo nei confronti delle organizzazioni introducendo, oltre i
requisiti minimi nazionali, una serie di requisiti capestro molto
pesanti. Oltre ai requisiti sulle strutture, personale, locali,
attrezzature bastano i seguenti per capire la ratio del provvedimento: 1. Svolgere l’attività su tutto il
territorio lombardo, assicurando una adeguata distribuzione della
capacità operativa in tutte le province della Regione Lombardia;
2. Assistere almeno 1000
imprese agricole ovvero allegare alla domanda
di riconoscimento un elenco
di almeno 1000 utenti imprenditori agricoli che hanno dichiarato
l’intenzione di avvalersi
dell’assistenza del nuovo CAA. La norma istitutiva
dei
Caa il decreto n. 165/1999, intendeva, su preciso indirizzo
dell'Unione europea che raccomandava una gestione dei fondi comunitari
realizzata per il tramite di
strutture terze e separate dai singoli sindacati di categoria. In
Lombardia solo rimasti solo cinque Caa:
Coldiretti, Cia, Federlombarda (Confagricoltura), Copagri e Unicaa
(aggregazione di UNIMA, Uniagronomi, Confcooperative e
FederAgri-MCL.
Nel resto d'Italia le altre regioni non sono state così spudorate e
sono nate
organizzazioni di società di liberi professionisti. Un
fatto spiacevole, specie per le organizzazioni sindacali agricole, una
concorrenza fastidiosa che sottrae fatturati.
Gli studi professionali infatti trattano il cliente, non essendo un
socio, con più rispetto (abbiamo visto prima come nella Coldiretti il
"padrone" è il funzionario). Se commettono errori i Caa "indipendenti"
tendono ad essere più
pronti a scusarsi. Una conseguenza del fatto che essi devono
fidelizzare il cliente con la qualità del servizio e non hanno
altri strumenti al di fuori dell'attività del caa stesso.
La terza fase della
Coldiretti
La Coldiretti dopo la fase della simbiosi
con i Consorzi agrari, dopo quella in cui è prevalso il ruolo di
azienda
erogatrice di servizi, si avvia alla terza fase della fidelizzazione
attraverso l'attività di supporto alla commercializzazione. Un modo per
acquistare "quote di mercato" a spese degli altri caa e delle altre
organizzazioni agricole.
Campagna amica,
con la sua forte visibilità, ha molto contribuito a lanciare l'immagine
della Coldiretti (che oggi si presenta con il claim ambizioso: La forza
amica del paese). Essa appare oggi al cittadino-consumatore come
una entità meta/para-commerciale, comunque come brand del settore
agrolaimentare,
suscettibile di futuri sviluppi. Dal punto di vista
dell'organizzazione essa è riuscita a offrire ai soci qualcosa di più
della concorrenza (Cia, Unioni agricoltori, Copagri ecc.). Le altre
organizzaizioni che non hanno nulla di ciò o comunque nulla di così
capillare
di mercatini contadini e di botteghe (aspettiamoci anche i
ristoranti e i supermercati).
Valorizzando un'immagine molto conoscita,
accuratamente e assiduamente curata nei rispetto dei media (anche
grazie al supporto di
agenzie specializzate), la Coldiretti non ha difficoltà ad ottenere
dalle
amministrazioni pubbliche spazi per i mercatini. Iniziativa
lodevole e utile per i produttori. Ci si chiede, però, perché il brand
Coldiretti debba sovrastare così pesantemente l'immagine di aziende,
aggregazioni di produttori e territori. La vecchia tendenza
dell'organizzazione di massa a "mettersi in divisa" qui è ripresa in
funzione commerciale. L'obiettivo è indurre il consumatore a
porre fiducia nel brand Coldiretti, identificandolo con il prodotto
"contadino" (un po' vagamente...). Il risultato è quello,
come con tutti i marchi collettivi (dop in primis) di tendere ad
appiattire la percezione della qualità offerta, di farne un po'
perdere l'individualità, specie al di fuori di contesti di relazioni di
acquisti reiterati e di conoscenza personale. Però questo è pur sempre
una sfumatura nel complesso di una iniziativa che va nel senso giusto
che sicuramente risponde
alle esigenze degli associati.
Va comunque osservato che, anche di fronte al consumatore, il mondo
agricolo si presenta non con un volto unitario ma diviso, incapace di
iniziativa se non sotto l'ala di un apparato.
L'aspetto più problematico è però un altro. Nella prima fase di vita
della
Coldiretti il rapporto con la politica e con l'industria (mediato da
Federconsorzi) ha distorto il ruolo di difesa degli interessi agricoli
subordinandolo ad altre esigenze extra-agricole. Nella seconda fase
l'attività di fornitura di servizi connessi ai rapporti con la pubblica
amministrazione (adempimenti burocratici, erogazioni di premi,
procedure di finanziamento) ha trasformato l'organizzione
agricola in un'azienda di servizi il cui interesse finisce per
divergere da quello del socio-produttore agricolo (più adempimenti e
più pratiche ci sono da espletare e più l'organizzazione
guadagna). Nella terza
fase, quella del ruolo meta-commerciale (Campagna amica, Botteghe italiane, Filiera
Italia), ancora una volta il sindacato viene frenato
dall'assumere posizioni a tutela del mondo agricolo che turbino la
"sensibilità" del consumatore urbano. E dal momento che i media
dell'establishment condizionano gli orientamenti del consumatore
- vedi ideologie
ambientaliste e animaliste - questo condizionamento condanna al
conformismo e al quietismo l'organizzazione anche quando ciò è
pericoloso per il
futuro del mondo agricolo e rurale.
Dalle parti della Coldiretti non si nasconde che una presa di posizione
più decisa sul tema del lupo non ce la si può permettere perché oggi i
consumatori non capirebbero. Non solo ma è stata capace di partecipare
a progetti lupisti e a partecipare al coro "amiamo il lupo". Grave è
stata la partecipazione al progetto Pasturs che intende "dimostrare"
(mettendo dei giovani volontaria a guardia di pascoli dove, per ora, i
lupi e gli orsi non ci sono) che la convivenza tra pastori e i grandi
carnivori è possibile e auspicabile. Progetto che ha unito
la Coldiretti al WWF in un connubio incestuoso che non è putroppo nuovo.
In puro stile coldirettistico (sintetizzabile in: noi ci possiamo permettere divoltare la
gabbana quando vogliamo e di tenere il piede in tutte le scarpe che
vogliamo) l'organizzazione è corsa però ai ripari quando ha
annusato puzza di
bruciato, ovvero che gruppi di allevatori pronti a traslocare verso
altre
organizzazioni. Allora, in Lessinia, ha attivato di tasca sua un
progetto di protezione dal lupo affidato, finalmente, non ai lupisti ma
a un
veterinario e cacciatore, il dr. Antonio Scungiu, che ora opera in val
Pellice per un monitoraggio dei lupi ed è stato nominato responsabile
crandi carnivori.
Non è finita: 12 luglio 2019, in piazza Dante a Trento la
Coldiretti ha portato in piazza gli allevatori per protestare contro la
crescita esponenziale dei lupi in Trentino. La notizia non ha peraltr
avuto risalto a livello nazionale. Una manifestazione-sfogatoio che non
cambia la linea "prudente"
dell'organizzazione, del tutto insostenibile a fronte di aziende che
chiudono causa lupi in varie regioni d'Italia.
Appendice: omaggio a un vero leader
contadino
con la schiena diritta e una parola sola
Avendo citato una recente manifestazioni Coldiretti in piazza a Trento
ne vogliamo
ricordare un'altra organizzata da un vero leader contadino che portò in
piazza
a Trento 4000 rurali per protestare contro l'establisment
coldirettistico e democristiano in occasione del crollo del prezzo
delle patate. Era il 16 febbraio 1964.
L'organizzatore era Luigi Carbonari, un signore nato nel 1880, il
leader storico dell'Unione dei
contadini della provincia di Trento. Eletto deputato a Roma nel
1921 e nel 1920 con Degasperi (con il quale non fu mai in sintonia).
Troppo autonomista, troppo contadinista, uomo tutto di un pezzo (sotto
il fascismo si guadagnò da vivere, lui con due lauree prestigiose a
Vienna, vendendo lucido da scarpe), non poteva accettare il centralismo
bonomiano. Eletto presidente dell'Unione
dei contadini nel 1946, fu silurato, dopo vari tentativi di Roma, nel
1950. Liquidato Carbonari l’Unione dei contadini, nel 1951 aderì
alla Coldiretti. Dal 1952 l’Unione sarà
presieduta, per un ventennio, dall’on. Helfer che incarnava il
principio
della “tutela” del partito (la Dc) sui
contadini, ma che difese i margini di autonomia da Bonomi. Bisognerà
aspettare fino al 2003 perchè
l’Unione dei contadini diventi
una anonima Federerazione provinciale coltivatori diretti (il fantasma
di Carbonari faceva sempre un po' paura e hanno aspettato un po', mica
erano coraggiosi come lui).
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