La posa della prima pietra nella nuova bioraffineria di Crescentino è avvunuta lo scorso aprile, alla presenza del presindente nazionale di Legambiente e del vice-presidente della Regione Piemonte. Che hanno fatto a gara a decantare il contenuto di innovazione tecnologica e l'alto tasso di sostenibilità ambientale della realizzazione. Vittorio Ghisolfi, presidente del gruppo chimico alessandrino Mossi & Ghisolfi ha sostenuto che l'impianto consegna al nostro gruppo e al Paese la leadership tecnologica nel settore dei biocarburanti di nuova generazione e della biochimica”. L’impianto, una volta a regime, produrrà 40 mila tonnellate all’anno di bioetanolo.
Nel corso della cerimonia si è orgogliosamente sottolineato che, mentre sino ad oggi, per la produzione di bioetanolo, era necessario l’impiego di sostanze destinate al consumo alimentare. Per il ‘nuovo’ bioetanolo, invece, basteranno la comune canna di fosso (Arundo donax) e biomasse ligno-cellulosiche, disponibili nel territorio circostante. Detto così qualcuno potrebbe pensare ad una trovata veramente geniale, ad un'idea veramente ambientalista.
Le cose, però si sono poi andate precisando meglio. Innanzitutto va precisato che la decisione di usare Arundo invece che mais dipende non da sirito ambientalista ma da due ordini di fattori: 1) oggi - sulla base degli incentivi alle "rinnovabili" in Italia è molto più conveniente utilizzare mais per la produzione di biogas che bioetanolo; 2) la politica della Ue sui biocarburanti stabilisce che dal 2014 quello che non sequestra almeno il 50% non si potrà più definire biocarburante. Dal 2017 non si potrà più produrre o importare niente sotto il 60%. La truffa dell'energia pulita (che pulita non è date le irrisorie rese energetiche nette), e che ha spinto nel corn belt americano a moltiplicare le bioraffinerie, nelle condizioni europee non ha molte possibilità di fare presa. Così si è pensato ad un etanolo ottenuto con rese energetiche e contributi al sequesto di CO2 decisamente più seri. Saranno utilizzati materiali ricchi di cellulosa, emicellulosa e lignina. La lignina servirà a produrre, attraverso combustione, il calore necessario ai processi di fermentazione e distillazione; la cellulosa e la emicellulosa, idrolizzate a zuccheri, saranno utilizzate come substrato di fermentazione. In tutto questo la paglia e gli scarti della lavorazione del riso (che non sono mai stati in realtà scarti ma "sottoprodotti" preziosi), ricchi di lignina ma poveri di cellulosa, devono essere affiancati da un materiale meno lignificato che è stato individuato nella "canna di fosso".
Sarebbe ingenuo pensare che la canna utilizzata sia quella ... dei fossi o comunque che cresce "spontanea" su terreni marginali. La canna che alimenterà la bioraffineria di Crescentino sarà coltivata. Si prevede che serviranno oltre 4.000 ha. E c'è da credere che non saranno poi così "marginali" come si vuol far credere. La coltivazione della canna implica lavori di aratura e diserbo nel primo anno e quindi negli anni successivi (sono previsti dieci anni di contratto di produzione) la raccolta verrà eseguita con un cantiere di lavoro analogo a quello utilizzato per il trinciato di mais (anche in questo caso il prodotto viene raccolto da una trincia-caricatrice). Pensare che questo cantiere possa essere impiegato in terreni collinari "marginali" a men che lieve pendenza è ovviamente irrealistico tenendo non conto anche delle crescenti difficoltà di movimentazione dell'ingente massa di prodotto. La produttività della canna è infatti di 40 t di sostanza secca per ha.
Da un punto di vista la canna è più sostenibile: necessita poca acqua e pochissimo azoto (con quello che piove dal cielo a causa delle emissioni di ammoniaca di origine zootecnica e industriale, ci campa....). L'uso dei pesticidi è limitato al primo anno (quando i germogli dei rizomi impiantati devono svilupparsi) poi si... raccoglie e le canne ricacciano. Cento volte meglio del mais che ha una sete inestinguibile e che richiede un grande uso di erbicidi, seme conciato, spruzzate di insetticida e che lascia il suolo a lungo nudo. Se però guardiamo a come sarà organizzata la filiera sorgono diversi interrogativi. Interrogativi che vanno anche al di là di quello fondamentale che riguarda tutte le coltivazioni energetiche indipendentemente dalla loro efficienza e impatto agroambientale: dove e come si coltiveranno quegli alimenti che venivano coltivati sui 4.000 ha destinati alla canna? Interrogativi che riguardano anche la sostenibilità del sistema agricolo sotto il profilo economico e sociale. Tutta la gestione dei contratti di coltivazione, del rapporto con le società agrimeccaniche (contoterzisti) incaricate della raccolta, del conferimentoi saranno curate da una società energetica di Vigevano: la ForEnergy, una società la cui mission consiste nel porsi come: "interfaccia fondamentale fra mondo agricolo e settore industriale. Il tutto nell'auspicio di una migliore redditività agricola e per consentire il definitivo decollo del settore agroenergetico". Parlano di interfaccia ma che cosa rimane di "agricolo" a un soggetto che firma una concessione e che incassa una royalty dai suoi terreni delegando ogni aspetto tecnico e gestionale ad altri soggetti non agricoli? La prospettiva di una agricoltura senza agricoltori si avvicina.
Un business che potrebbe prendere slancio
Prospettive ancora remote? Non tanto. La coltivazione energetica della canna oggi è ancora allo stadio "pilota" perché la filiera mancava di un anello: un settore vivaistico a regime in grado di rifornire materiale di qualità (i rizomi) per impiantare i canneti. Ma oggi al di là della Alasia Vivai di Savigliano (Cn), che ha fatto da apripista, altri vivaisti moltiplicatori (anche con la prospettiva della coltura idroponica in serra oltre che in pieno campo) stanno attrezzandosi per rifornire il mercato. Con un ha di terreno per la produzione dei rizomi si possono impiantare 700 ha di canneto. È in vista un business che saturerà presto la bioraffineria di Crescentino con trinciato di canna spingendo a realizzare nuove bioraffinerie o prevarrà uno stop al consumo di suolo per usi non alimentari? Di certo rispetto al biogas - che gode di folli incentivi - c'è anche un elemento che induce a ritenere che il bioetanolo rappresenti un business meno travolgente: le bioraffinerie non rappresentano di per sè un lucroso mercato mentre lo sono gli impianti di digestione, cogenerazione ecc. Un mercato di centinaia di centrali, sostenuto dagli incentivi pubblici a fondo perduto e con la possibilità di piazzare ai clienti - agricoltori e società elettriche improvvisate - attrezzature costose e spesso sovradimensionate e inutilmente sofisticate (cosa che nel caso delle industrie e dei veri industriali è ben difficile fare)
Forse quindi il business del bioetanolo si affiancherà a quello del biogas ma senza "mangiare" i terreni agricoli con la voracità di quest'ultimo. Noi comunque vorremmo che fossero sempre di più le organizzazioni e I comitati che chutilizzare la sterminata superficie di tetti per i pannelli fotovoltaici, a ridurre gli sprecchi energetici, a valorizzare le biomasse in ambito forestale?