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moremaiorum
|
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o no) è genuinamente e pienamente ruralpina
Quel
formaggio contadino che, nonostante tutto,
caparbiamente ogni
anno 'c'è ancora'
Erano
ventuno le forme di Matüsc in
concorso. Fatte da altrettanti contadini-casari, ciascuno
nel suo maggengo, una proprietà privata
di 'mezza montagna' con prati da falce e una piccola
stalla-fienile. Si è tratta di un concorso
amichevole che però serve a valorizzare questa
produzione emblema della resistenza casearia. Un
concorso cui hanno fornito un supporto di competenza
e professionalità gli amici dell'Onaf di Sondrio
e dell'associazione Degustibus. Tutta la
Sagra è organizzata dalla Pro Loco del
paese, un'associazione che si prodiga in iniziative
di aggregazione e di animazione (in estate tra le altri
eventi organizza la Festa dei Pastori sugli
alpeggi).
Ieri
c'è stato anche un convegno per celebrare l'anno
della biodiversità, ed è stato declinato,
come giusto, all'insegna del Matüsc e quindi del
rapporto fecondo e profondo tra biodiversità
e ruralità alpina quale sintesi di società
e natura . Il convegno è stato organizzato da
Amamont (associazione transfrontaliera "amici
degli alpeggi e della montagna") e dalla stessa
Pro Loco. Così erano presenti amici di
diverse valli svizzere: Poschiavo (culla di Amamont),
Bregaglia, Mesolcina. La forza della 'resistenza contadina'
è in questa dimensione di 'localismo
reticolare' e di consapevole sapersi collocare all'interno
di dinamiche 'globali' ma certo a nulla varrebbero gli
sforzi per creare reti e consapevolezza 'strategica'
se non vi fosse quella resistenza
quotidiana, materiale, fatta da gente che
continua a sfalciare praticelli in forte pendenza, ad
allevare due vacche perché è un modo
di vita. Ad Albaredo questa 'resistenza ruralpina' fatta
di quotidianità è ancora forte e non a
caso il primo Incontro Ruralpino si tenne proprio
a Albaredo esattamente quattro anni fa, sempre in occasione
della Sagra.
Rispetto
a quattro anni fa ieri c'era molta più neve giù
caduta sulle montagne. Prima di arrivare ad Albaredo
mi sono fermato a Valle (la frazione più alta
di Morbegno, che si incontra prima di arrivare ad Albaredo)
per scattare due foto. La prima (sopra) ritrae la Cima
della Rosetta (in realtà la cima non si vede)
e i pascoli dell'Alpe Culino (comune di Rasura, proprietà
del demanio regionale). Con le copiose nevicate di questi
giorni i pascoli d'alpeggio riposano ormai sotto una
spessa coltre nevosa di 'neve novembrina' che 'facendo
fondo' dovrebbe garantire un buon innevamento e uno
scioglimento lento e graduale della neve in primavera
(con tutto vantaggio per la produzione di foraggio).
La seconda foto ritrae Albaredo (sotto). Sono
quasi le dieci del mattino e la luce e i colori sono
quelli che sono.
Una
circostanza che spiega perché nel Nord Europa,
ma anche sulle Alpi (specie in quelle vallate dove d'inverso
il sole si vede pochissimo) si cerca con l'uso di elementi
di colore di ravvivare un inverno lungo e bolto 'a bianco
e nero'. I carnevali alpini dalle maschere variopinte
ne sono l'esempio 'classico'. Anche la 'nostra' manifestazione
pare inserirsi in questa ricerca di colore; infatti
la Sagra del Matüsc prende anche
il nome di 'I colori del Bitto' (riferito al fiume che
poi si identifica con la valle).
Tocca a Ettore Del Nero (foto
sotto) presidente della Pro Loco fare i saluti. Prova
a farli in lumbart in omaggio alla biodiversità
linguistica, al grosso lavoro di recupero del patrimonio
immateriale (lessicale, toponomastico) da tempo in atto
nelle valli, alla comune identità linguistica
che ci unisce agli amici delle valli alpine ticinesi
e dei grigioni meridionali. Ma Ettore che con
i suoi 'agricoli' parla ogni giorno in 'dialetto' e
che ha un'ottima 'competenza linguistica attiva' , nel
contesto un po' formale del Convegno (sia pure tra amici)
si dimostra poco disinvolto. E' il segno di una
'inibizione culturale' che pesa. Una inibizione che
in Svizzera non esiste perché in Ticino e nei
Grigioni si parla lumbart anche nei consigli
comunali. Del resto la Svizzera da bravo paese federale
(con tendenze centralistiche sempre in agguato anche
lì, peraltro) favorisce il plurilinguismo e molti
possono usare più registri: italiano, lumbardt,
francese o tedesco. Lo si vede nel successivo saluto
di Plinio Pianta, presidente di Amamont che parte
spedito in lumbardt e va avanti un po' per poi passare
all'italiano. A parte le considerazioni di circostanza
Pianta non manca di ricordare il percorso partito proprio
ad Albaredo con gli Incontri Ruralpini e proceduto poi
all'Alpe Li Piani in Val Poschiavo (di proprietà
dello stesso Pianta). Qui il secondo Incontro Ruralpino
gettò le fondamenta di Amamont.
Da allora la 'rete' di Amamont
che dall'inizio comprendeva già soci fondatori
da Lombardia, Ticino, Grigioni, Piemonte e Trentino
si è allargata a parecchie altre valli di queste
regioni e cantoni. Anche a valli piuttosto lontane della
provincia di Cuneo. Doveva essere presente ad Albaredo
Anna Arneodo del Centro di Coumboscuro. Motivi famigliari
l'anno trattenuta nella sua Valle Grana ma i contatti
con il centro di cultura provenzale alpina sono stretti
(e rafforzati dalla presenza mia, di Fausto Gusmeroli
e di Gianpiero Mazzoni allo scorso Roumiage
de Setembre vai a vedere il fotoracconto).
Il riferimento a Coumboscuro, località famosa
a livello internazionale per la sua 'resistenza culturale'
e la famosa 'scuoletta pluriclasse' (vai
all'articolo)
impone di dire due parole sulla sede del convegno. Quella
che si vede nella foto sotto è, inequivocabilmente,
una palestra scolastica. Purtroppo non è così,
o meglio, non lo è più. Oggi è
il Centro della Protezione Civile, un destino
di molte sciuole di montagna. Colpa della crisi demografica,
ma non solo; anche di scelte politico-amministrative
che privando i paesi della scuola 'spengono' un indispensabile
punto di riferimento in un contesto in cui anche i negozi
di vicinato soccombono alla presenza invasiva dei Centri
commerciali del fondovalle. Coumboscuro dimostra
che una pluriclasse di un villaggio alpino può
essere 'aperto al mondo' più dei 'plessi scolastici'
dei fondovalle.
Dopo
i saluti è toccato a Dario Benetti (nelle
due foto sotto seduto alla sinistra degli 'oratori')
introdurre i lavori ricordando il legame tra biodiversità
e diversità culturale con riferimenti all'architettura
alpina in equilibrio tra elementi di specificità
e forme comuni espressione di un adattamento all' ambiente.
All'intervento dell'architetto sono seguiti quelli di due
'formaggiai'. Cornelio Beti (foto sotto) ,
presidente del caseificio S. Carlo di Poschiavo (vedi
articolo),
ha esposto la strategia del caseificio sociale
che da alcuni anni ha operato una completa conversione
al biologico con la soddisfazione delle aziende conferenti
(praticamente tutte quelle che producono latte bovino
in valle). Beti ha spiegato come i formaggi del caseificio
poschiavino hanno ottenuto un ottimo successo non solo
nel Canton grigioni ma anche nella Svizzera interna
e, di recente, anche in Germania non solo in forza dell'immagine
del bio e della montagna ma, soprattutto, grazie alal
sottolineatura del forte legame territoriale con la
Val Poschiavo resa peraltro celebra grazie al 'Trenino
rosso dell'Unesco'. Beti, che pure ha sottolineato come
il formaggio del Caseificio S. Carlo abbia ottenuto
un buon riscontro anche in occasione delgi eventi sui
formaggi che si organizzano a Sondrio, si è detto
un po' costernato dal vedere a 'Formaggi in Piazza'
a Sondrio formaggi venduti a 5-7 €. Un prezzo in effetti
'vile' anche per il mercato italiano.
Ciapparelli
'guuerriero del Bitto storico' ha preso la palla al
balzo e ha ricordato come la politica di eccellenza
perseguita dal Bitto storico è sempre stata contrastata
dalle istuituzioni. Con la formalizzazione della
Dop nel 1994 quando la produzione, ai tempi ancora limitata
alla Comunità Montana di Morbegno, venne estesa
a tavolino tutta la Provincia di Sondrio togliendo
l'obbligo del latte di capra. Poi con i cambiamenti
del disciplinare del 2006 che introducevano mangimi
e fermenti. Mentre il Bitto storico è riconosciuto
a livello mondiale quale formaggio che promuove la biodiversità
(valorizzando la capra Orobica, l'identità dei
singoli alpeggi, la flora microbica autoctona del latte)
a livello locale si cerca ancora di distruggere questa
realtà come dimostra l'accanimento dimostrato
nel far si che il Ministero applicasse la
sanzione pecuniaria (ora vicina alla scadenza) per aver
i produttori storici della valle del Bitto 'abusato'
della Dop (vedi
articolo).
Un paradosso ma anche un'odiosa volontà repressiva
contro i più noti protagonisti del movimento
della 'resistenza casearia'.
All'intervento
di Ciapparelli è seguito quello di Fausto Gusmeroli.
Fausto ha messo in evidenza sulla base di stringenti
considerazioni ecologiche come biodiversità e
Alpi facciano parte di un binomio indissolubile. La
varietà di altitudini, esposizioni, substrati
geologici e la combinazione di questi ed altri elementi
crea una grande differenziazione di ambienti (in primo
luogo vegetazioneli) in spazi ristretti, nemmeno da
paragonare con quello che può succedere in pianura.
Comprimere la biodiversità (e il caso del Bitto
è emblematico' va contro quella che è
l'identità stessa delle Alpi ma anche una sua
risorse e una ricchezza che può compensare altri
fattori di svantaggio. Un aspetto interessante della
biodiversità è stato affrontato da Antonio
Codoni, un micologo proveniente dalla Val Mesolcina
(valle molto vicina in linea d'aria ma lontana in termini
di distanze stradali). Codoni ha ricordato anche i diversi
atteggiamenti nei confronti del fungo (macromiceti)
da parte di diverse culture introducendo una divertente
distinzione tra micologi, micofagi e micofobi (i britannici
per esempio temono i funghi e non li consumano). Ha
anche sfatato alcune 'leggende' come quella che metterebbe
in relazione una eccessiva raccolta con la rarefazione
della presenza dei funghi ("l'unico senso dei divieti
in certi periodi è la riduzione del disturbo
della fauna").
A
me è toccato collegare la dimensione ecologica
tracciata da Fausto Gusmeroli con quella della 'resistenza
casearia' di Ciapparelli. Prendendo spunto da quanto
detto da Fausto ho ricordato come la biodiversità
legata ai fattori naturali è stata storicamente
moltiplicata dalla presenza degli animali e del loro
'disturbo' sulla vegetazione. Un 'disturbo' che spesso
si trasfrorma in un ambiente più eterogeneo dove
trovano un habitat molte più specie di piante,
di insetti, di vertebrati. Il caso della capra Orobica,
legata al formaggio Bitto storico è emblematico
perché non solo ha una sua 'originalità'
genetica che la distinge da altre popolazioni delle
Alpi centrali ma, dato il sistema particolare di pascolo
attuato suglia lpeggi del Bitto, contrinuisce attivamente
a mantenere un'elevata biodiversità vegetale
e faunistica. Al sistema di pascolo poi sono legate
strutture, manufatti umani particolari, come le 'capanne
casearie': i calecc' (vedi foto sotto con il logo della
Pro Loco di Albaredo) , le mascherpere (livello
superiore delle casere di stagionatura), i garocc' (stampi
per la mascherpa = ricotta grassa salata) che sono diventati
in questi anni di 'conflitto identitario' dei simboli
efficaci di 'resistenza'. La diversità difende
sé stessa grarzie ad una ricca costellazione
di simboli e di richiami. La stessa capra Orobica e il
Pizzo dei Tre Signori (emblema dell'unità
delle Orobie al
di sopra dei confini un tempo statuali, oggi provinciali)
sono stati stilizzati e trasformati in simboli riconoscibili.
Per non parlare del mitico Homo selvadego e dei almeno
parzialmente storici 'casari-guerrieri' celti. Una grande
mobilitazione simbolica e mitopoietica a favore di un
formaggio che ha dietro la storia e sta facendo ancora
storia.
Ha
chiuso i lavori della mattinata Renato Ciaponi, presidente
dell'Onaf di Morbegno. Ciaponi pur riconoscendo la grande
qualità del Bitto storico (constatata obiettivamente
attraverso il lavorio deglia ssaggiatori professionali)
ha richiamato come le scelte - poi rivelatesi foriere
di cintrasti - assunte ai tempi della nascita della
Dop erano 'figlie del loro tempo' tanto che il Ministero
aveva messo le mani davanti dicendo che se fosse stata
avanzata la richiesta di 'sottodenominazioni' la
pratica sarebbe stata bloccata. Argomenti sicuramente
validi anche se poi, con la modifica dei disciplinari
del 2006, quando se, da una parte si è lasciata
la possibilità di imprimere sullo scalzo il nome
dell'alpeggio nel caso di non uso di mangimi e fermenti
(come ricordato da Ciaponi) dall'altra si è 'concesso'
quei tre kg di mangime che possono cambiare le caratteristiche
del formaggio. La discussione però non si è
aperta perché, nel frattempo, si era fatto
tardi (era ormai passata l'una) e abbiamo tutti approfittato
del pranzo preparato con spirito di ospitalità
dalla Pro Loco.
Dopo
pranzo in attesa della ripresa del convegno ho approfittato
per fissare qualche immagine emblematica. Nelle foto
(sopra e sotto) sono ritratti i cartelli, applicati
agli striscioni di carta colorata, recanti i nomi dei
tantissimi maggenghi di Albaredo. Sono quarantuno. La
maggior parte ancora abitati. Di per sé costituiscono
un bell'inventario toponomastico. La maggior parte si
riferiscono alla conformazione del terreno, a qualche
caratteristica del sito. I maggenghi di Albareso si
trovano a vari livelli altitudinali al di sopra
del paese (alcuni prossimi agli alpeggi) e rappresentano
un insediamento stagionale disperso dove si trasferiva
per buona parte dell'anno la maggior parte della popolazione.
Sugli alpeggi in estate saliva solo qualche pastore
e caricatore ma questi venivano spesso da fuori.
Non esisteva infatti una 'riserva' per i residenti
nemmeno per i due alpeggi comunali (gli altri erano
privati). Nei maggenghi un tempo restavano per tutta
l'estate le capre mentre le mucche erano inviate all'alpeggio
in cambio di una buona remunerazione per il latte prodotto.
Il Matüsc, prodotto con
latte vaccino con eventuali aggiunta di latte di capra,
era prodotto solo nel periodo pre-alpeggio e post-alpeggio
dopo lo scarico delle alpi. Un aspetto curioso ma indicvativo
della centralità del maggengo ad Albaredo
è la mancanza di un nome comune che li definisce;
altrove sono muunt, praa, lögh. Qui erano contraddistinti
con il loro nome proprio e basta; erano località
abitate a tutti gli effetti senza bisogno di specificazioni.
Il biglietto lasciato vicino
ad una forma in concorso dal 'casaro Remo Tarabini'
(che evidentemente non ha potuto comunicare in altro
modo i dati) è uno 'spaccato' di questa realtà
che ancora vive. "Prodotto il 25 aprile loc.(alità)
Dosso comune". Doss comun è uno dei diversi Doss
presenti nel 'catalogo' affisso alle pareti della palestra.
Le forme presenti hanno diversa
pezzatura e stagionatura (alcune sono primaverili, altre
di settembre-ottobre. Ognuno utilizza la quantità
di latte disponibilené più né meno
che una volta. Standardizzare la pezzatura non avrebbe
alcun senso.
Alla fine le forme in concorso
sono state ventuno, ciasuna di un 'casaro'. Anche per
Ettore Del Nero è stata una piacevole sorpresa
constatare che il numero dei partecipanti 'tiene'. Sembra
quasi un miracolo che in un paese ci siano ancora così
tanti contadini che falciano a mano (o con la bcs) i
loro ripidi praticelli e che tengono due mucche. Eppure
ad Albaredo succede. E non è certo merito delle
'istituzioni'. Il comune ha decisamente puntato sulle
stalle 'imprenditoriali' incoraggiando l'ampliamento
delle due aziende più grosse. Il loro latte viene
lavorato nella nuova Latteria Alpi del Bitto
che è gestita dalla Latteria Sociale Valtellina
di Delebio, la più grande struttura lattiero-casearia
della provincia .
La vecchia latteria
di paese dove conferivano i piccoli produttori, e che
era stata ristrutturata da non molto, è stata
chiusa e il casaro licenziato. Così tra la 'filiera'
e i contadini si è creata una frattura. E le
due aziende 'imprenditoriali' hanno problemi di smaltimento
dei reflui zootecnici tanto che è stata prospettata la
geniale soluzione di portare i loro liquami sino ad
una centrale a biogas comprensoriale a Postalesio giù
nel fondovalle (Albaredo è a 900 m) distante
30 km (poi dovrebbe risalire il digestato). In compenso
salgono i camion di mangimi. La Latteria Alpi del
Bitto produce il Matusc San Marco.
I contadini il Matüsc di barilocc (barilocc
è il soprannome degli abitanti di Albaredo).
Due storie che si sviluppano in uno stesso unico
piccolo paese ma che non si incontrano.
La sroria che hanno raccontato
in coda al convegno Francesco e Michele Mondora
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