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(29.12.11) Cenonetti, le campagna, Girolomoni leggi tutto

 

 

 

 

(23.03.12) Ricordare Gino Girolomoni solo come "padre del bio italiano" è molto riduttivo. Concepiva l'agribio come uno strumento perfettibile per ridare vita alle colline e alle montagne, per una rinascita contadina

 

 

Una vita che lascia semi

(per un futuro contadino)

 

di Michele Corti

 

La scorsa settimana si è spento improvvisamente un personaggio che lascia sì un grande vuoto ma anche tanti stimoli, tanti insegnamenti. Un personaggio scomodo e veramente controcorrente che ha anticipato tanti temi del "ritorno dei contadini" quando il contadinismo (neo o vetero che fosse) era come una bestemmia in chiesa. Fosse stato più nella corrente Girolomoni avrebbe avuto - considerata la statura del personaggio - molta più "amplificazione". Viene ricordato come il fondatore di Alce Nero, una realtà che indubbiamente ha segnato la storia dell'agribio italiano, come il "padre dell'agricoltura biologica italiana" ma la dimensione spirituale del suo amore per la terra, per la continuità della vita contadina è lasciato volutamente in ombra (dai più). Non dai suoi amici. Tra questi vi sono dei comuni amici valtellinesi. Parrebbe strano, vista la distanza tra la valle alpina lombarda e le sue colline di Isola del Piano (Pesaro-Urbino), eppure Gino ha coltivato da trent'anni in qua un rapporto abbastanza stretto con la Valtellina, tanto da voler avviare la coltura del grano saraceno nella terre della "sua" coop Montebello. Non gli era sfuggito che la ruralità tenta di rimanere viva dove l'agricoltura industriale imprime alle terre lo stigma della "marginalità": nelle montagne, nelle colline "povere" (ben diverse dal Chiantishire). Ci sono molte esperienze in comune tra ruralpini e ruralappenninici (come tra tutti i ruralii del pianeta del resto).

Tra gli amici valtellinesi di Gino ci sono Dario Benetti di Sondrio e Gianpiero Mazzoni di Albaredo. Il primo mi ha concesso di pubblicare (lo riporto qui sotto) su Ruralpini il pezzo oggi online su www.ilsussidiario.net, il secondo mi ha inviato un articolo di Gino del 1982 che desciveva la sua prima visita ad Albaredo nella valle del Bitto. Mi pare giusto lasciare a questi testi il compito di ricordare Gino qui su Ruralpini. Purtroppo io non ho avuto la possibilità di approfondire la conoscenza con Girolomoni. Lo avevo conosciuto alla presentazione di un suo libro a Sondrio; ero poi andato a trovarlo due anni fa, di rientro da un convegno in Abruzzo. Per Gino era un momento difficile. Gli era appena morta la moglie e il nuovo pastificio era in funzione da poco. Eppure, pur conoscendomi solo indirettamente - tramite gli amici comuni - aveva ritenuto di dedicarmi non poco tempo, pranzando insieme all'agriturismo e facendomi visitare il monastero di Montebello, parlandomi delle sue iniziative, del premio Montebello, di Ceronetti e di tante altre cose.

Mi aveva fatto vedere anche il suo "eremo" dove si ritirava a meditare. Personaggio vulcanico, motore di iniziative, con spirito imprenditoriale ma che vedeva una dimensione profonda in ogni atto (agricolo e alimentare in primis). La sua non era la meditazione dei guru di Wall Street per intenderci, finalizzata a "ricaricare le pile".  Da qualche mese mi arriva regolarmente la sua rivista (Mediterraneo) e solo pochi giorni prima che Gino morisse, parlando di iniziative "contadine" con Giannozzo Pucci a Firenze, mi era venuto da dire "bisogna coinvolgere anche Girolomoni". I casi della vita. Non credo però che Gino sarebbe d'accordo se dicessi che rimpiango di non averlo potuto conoscere meglio, di non aver potuto collaborare a qualche progetto comune. Il rimpianto non serve.

Sono certo che - stimolate dalla volontà di ricordare Gino e di applicare le sue visioni - vi saranno iniziative che contribuiranno alla rinascita delle campagne italiane, al ritorno dei contadini, al ritorno alla vita di tante belle plaghe abbandonate.

 


 

L'uomo che ha riportato

 

la vita sulle colline

 

di Dario Benetti

 

Monastero di Montebello (Foto: Dario Benetti)

 

Così Gino Girolomoni concludeva l’editoriale dell’ultimo numero (estate 2011) del periodico Mediterraneo, di cui era direttore: «Non bisogna arrendersi mai e continuare a sperare: non tanto per salvare il mondo, che è una operazione troppo difficile, ma, semplicemente, per non stare dalla parte di quelli che il mondo lo distruggono». Non si è mai arreso e ha sempre sperato. Sabato 17 marzo doveva condurre una tavola rotonda al monastero di Montebello sul tema: “Lazzaro risorto, tra Betania, Magdala e Cipro”. Resterà un simbolico messaggio del suo destino.

Ho conosciuto Gino nel 1977 grazie a una intervista di Franco Cesetti su La voce delle Marche.Non si poteva restare indifferenti a quell’articolo: duramente Girolomoni attaccava Alberto Moravia per il quale tutti i problemi e i guai del mondo contemporaneo avevano origine nella “putrefazione” della società contadina. Gino non poteva accettare quei giudizi: la tradizionerurale e contadina era quella dei padri, era la saggezza di un mondo ricco di conoscenze e capace di esprimere un significato nel lavoro, di vivere un equilibrato rapporto con l’ambiente e il paesaggio. Non era, il suo, un messaggio passatista. Girolomoni aveva capito che dalla tradizione delle comunità di villaggio passava il segreto di un mondo diverso, il testimone di una speranza per il mondo di oggi. Cancellando la tradizione contadina si cancellava anche il fuoco che, sotto la cenere, era l’unica prospettiva per il nostro futuro.

Nel 1978 organizzammo con lui a Sondrio un incontro sul tema: “Per una nuova società rurale”. Fu l’inizio di una storia, di una amicizia e di una serie continua di appuntamenti culturali che ci hanno unito profondamente. Grazie a lui abbiamo avuto modo di capire che il mondo può cambiare, non inseguendo impossibili utopie, ma riconoscendo la realtà per quello che è, per quello a cui è chiamata. Senza risorse, («la scelta di partenza già assurda di per sé e cioè quella di fare investimenti per due miliardi con quarantacinquemila lire di capitale sociale») solo con la passione per la verità, Gino ha riportato la vita sulle colline di Isola del Piano; ma non è stata una strada facile: a vent’anni, già innamorato di Tullia, dovette partire emigrante in Svizzera sul lago di Ginevra, nelle ferrovie della Confederazione, lontano dalla sua gente e dalla sua cultura. Non era il lavoro e il posto per lui e ben presto se ne tornò a casa. Venerdì mattina è stato infatti stroncato da un infarto, una morte imprevedibile e improvvisa, a 65 anni, senza scampo. Del resto ricordando Tullia, morta due anni fa, Gino diceva che “ci sono dei defunti che sono più vivi dei viventi”; ed è questo certo il caso suo. Domenica una folla è accorsa da tutta Italia, stringendosi intorno ai figli, a Samuele, a Giovanni Battista e a Maria, a piangere sulla sua bara, accompagnandolo per l’ultima volta fuori dal monastero, la sua casa, un complesso architettonico imponente restaurato in tanti anni di fatica e di debiti; e solo due anni fa il salone del monastero aveva ospitato la camera ardente di Tullia, la moglie di Gino, custode e protagonista con lui della rinascita di questi luoghi.

Tra i campi abbandonati dalle famiglie contadine nel secondo dopoguerra, tral e colline destinate a monocolture indifferenti all’ambiente, svettavano tra le alture più alte delle Cesane i ruderi del monastero di Montebello, dove il beato Pietro Gambacorta –insieme a dodici compagni-intraprese la vita eremitica nel 1380, fondando così la Congregazione e i poveri eremiti di san Girolamo e dei Girolamini. Questo luogo fu perGino il punto di partenza di una avventura durata tutta la vita.

E sarà per la posizione strategica, nel cuore dell’Italia, sarà per il fascino della sua proposta, sta di fatto che l’eremo di Montebello ben presto da eremo si trasforma in polo attrattore di innumerevoli personalità del mondo culturale: da Ivan Illich ad Alex Langer, da Sergio Quinzio (che abiterà diversi anni a Isola del Piano) a Vittorio Messori, da Guido Ceronetti (a Montebello ha festeggiato i 70 e gli 80 anni) a Sante Bagnoli, a Leo Moulin e tanti altri. Oggi, a distanza di quarant’anni da quella prima coraggiosa scelta, Montebello è un esempio, una testimonianza unica. Non solo il monastero è completamente restaurato, l’ultimo tassello è stato il tetto della chiesa della Trinità, completato nell’estate del 2011, ma nei pressi del monastero un grande pastificio produce pasta biologica e ha raddoppiato negli ultimi anni la produzione e le superfici utilizzate, mentre un agriturismo ospita tutti i giorni decine di visitatori, offrendo qualità culinarie difficilmente imitabili. La Valle del falco, l’ampia area di proprietà della Cooperativa Alce Nero, è un vero e proprio eco-museo (nel monastero –tra l’altro- è visitabile una piccola, quanto significativa collezione di oggetti etnografici e archeologici dell’area dei monti delle Cesane) ove protagonisti sono i soci che hanno seguito il fondatore, creando luoghi di ospitalità e segni di una nuova civiltà.«Durante il cammino verso l’altura mi sono sentito spesso rivolgere molti rimproveri –così in Terre, monti e colline!- sull’assurdità dell’impresa, sulla stoltezza di portare in quella solitudine una famiglia, su come una persona intelligente potesse scegliere di isolarsi così dai contatti con la società, con la cultura, con la normale comunicatività di tutti i giorni. Questi amici, parenti, conoscenti, non sapevano, non potevano immaginare che, in realtà, io non andavo ad isolarmi, ma andavo a cercare di ricominciare daccapo la ricostruzione di un luogo, e riempirlo di significato». In Ritorna la vita sulle colline (Jaca Book, 1980 – Edizioni Il Metauro, 2006) ritroviamo il diario di questi primi anni.


 

Lavoro e cultura:

 

una esperienza da Albaredo

 

di Gino Girolomoni (1982)

 

Gino Girolomoni con Laura Mazzoni (foto Gianpiero Mazzoni)

Il "Centro Don Minzoni" chiama e io parto nonostante ci separino 600 chilometri. La meta questa volta è Albaredo e Chiesa Valmalenco. A me interessa conoscere la montagna, le affinità con l'Appennino (che la gente dei monti che lavora con il sudore della fronte sia uguale a quella delle colline questo lo so già). A chi mi ha invitato interessa l'esperienza della "Cooperativa Alce Nero" che è nata sulle colline marchigia­ne abbandonate e che produce materie prime alimentari e che con queste ci campa e paga gli investimenti e che sta cercando di ricostruire anche un ambiente umano in mezzo al quale si possa vivere meglio. Giampiero Mazzoni e la sua famiglia ci accoglie e l'ospitalità è veramente quella della gente di montagna: grande. Prima dell'incontro nella sala del comune facciamo in tempo a visitare la latteria sociale proprio durante l'ora della consegna del latte e il primo incontro avviene li. lo ho imparato come fare l'impianto presso la nostra cooperativa per sollevare il recipiente per scaldare il latte: pratico, semplice ed economico. La riunione inaugura la bella sala del comune per le adunanze, sparisce la luce ma qualcuno ha portato le candele e il registratore a batteria. C'è veramente molta gente. Nel dibattito emergono subito i temi essenziali: l'appennino è meno aspro, è possibile lavorarci con le macchine, estensioni maggiori. La montagna però ha acqua in abbondanza che noi non abbiamo ed ha il legname che è una materia prima non trascurabile. Aumentare il reddito come si può fare ? Aumentando il bestiame e comprando il fieno in altre zone dove costa poco. Ma dopo con un altro fieno il Bitto perderà il sapore: nella vita bisogna scegliere. Abbiamo cercato insieme di dare un valore economico a certi beni che la civiltà delle ruote dentate ha troppo disprezzato: la tradizione, gli amici, i parenti che vivono tutti nel luogo dove sì è  nati e nel quale, se ci si rimane, si hanno tutti vicino. Il valore di conoscere tutti (fatto questo che la delinquenza non la fa neanche pensare). La riflessione sulla più antica civiltà che sia rimasta fino ai nostri giorni: quella contadina. Non era tutto da buttare via. L'artigianato da riprendere, lavorazione del legno, e i telai a mano. Ci salutiamo con la promessa di rivederci magari nelle Marche (posso ospitarne 30/40) per continuare la ricerca di motivazioni nuove per rimanere sulle montagne e sulle colline perché non è vero che le discoteche e i condomini delle pianure piacciono a tutti. Alce Nero diceva che il potere del suo popolo era finito perché i bianchi erano riusciti a farli vivere nelle case quadrate mentre nella natura non c'era niente di quadrato ed anche loro avevano sempre vissuto nel cerchio della tenda. Con questo non voglio dire molto, voglio dire solo che per una maggiore libertà per i vecchi e per noi stessi può anche valer la pena di rinunciare ad un po' dei beni effimeri del consumismo. La notte la passiamo ad Albaredo. L'alba mi sorprende nella casa di Giampiero. Dall'altra parte della valle, in cima,vola solitaria un'aquila e sotto la piazza del comune l'agrifoglio gigante ancora dorme. Domenico cammina piano piano per non scivolare e arriverà tardi in Chiesa, il parroco quest'anno non celebrerà la messa nella notte di Natale. Una gallina sperduta nella neve sembra Spadolini che cammina nel Belpaese. Albaredo arrivederci e spero che tornando questo altro anno possa trovare un macello dove comprare la vostra carne, la cooperativa artigianale già in funzione e la scuola media sopra le scuole elementari: chi l'ha detto che trenta bambini sono pochi per farli studiare fino a quattordici anni nel loro paese senza insegnargli già a dieci a scendere tutti i giorni a valle? La provincialità dell'istruzione non si risolve pensando al vicino centro più grosso della pianura: si risolve parlando anche ai ragazzi di sette o di dieci anni dei grandi temi del nostro tempo in un linguaggio a loro comprensibile. Parlare loro di utopie, di rispetto della tradizione dei propri padri, di insegnamento dei mestieri creativi non tanto perché poi li debbano scegliere per forza ma almeno perché capiscano di cosa si tratta. Di farli evadere un po' più spesso da quelle quattro pareti dove sentono solo parole e imparano solo a stare seduti a magari fino a trent'anni: "Cosa hai imparato?" "A stare seduto!

 

 

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