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Inforegioni/Melinda (e altro)al Salone del gusto!?

 

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(23.10.10) Melinda è un emblema in negativo del rapporto cibo e territorio. Stride la sua presenza al Salone del gusto. Poi ci sono anche quei prodotti valtellinesi ...

 

Le cose che al Salone del gusto

avrei preferito non vedere

 

 

di Michele Corti

 

C'è da riflettere sul significato di manifestazioni che, per rendere sostenibili i costi, devono scendere a compromessi che rischiano di contraddire pesantemente il senso stesso degli eventi e i principi ('cibo e territori') che li hanno ispirati

 

Ieri sera (venerdì 22 dicembre) sono riuscito a fare un salto al Salone del Gusto. Mi interessava l'incontro sulla 'Resistenza casearia' (che merita un commento a parte). L'incontro si è protratto a lungo e poi non mi rimaneva molto tempo. Così mi sono diretto verso l'area delle regioni per visitare almeno gli stand dei presidi lombardi.

 

Il 'Multiconsorzio' al Salone

 

Un primo motivo di disappunto è venuto dal constatare che il grande stand di 'Valtellina c'è più gusto', ossia del 'Multiconsorzio' delle DOP e IGP della provincia di Sondrio (il gusto 'istituzionalizzato') non era collocato di fronte a quello del Bitto storico. Paolo Ciapparelli, presidente del Consorzio per la salvaguardia del Bitto storico non era troppo felice per la presenza al Salone del Multiconsorzio e aveva chiesto "almeno mettetemeli di fronte che voglio guardarli in faccia". Multiconsorzio significa vini DOC e DOCG, viticoltura 'eroica' pochissimo meccanizzabile, ma anche Consorzio CTCB ovvero tutela Valtellina Casera DOP e Bitto DOP, mele (ora IGP), miele, pizzoccheri industriali (prodotti con grano saraceno 'globale' di ogni provenienza), Bresaola Valtellina IGP industriale (prodotta con carne congelata di zebù brasiliano 'globale').

 

I 'nemici' dei produttori storici del Bitto

 

Il CTCB ha come soci e colonne i caseifici industriali. In prima fila la Latteria Sociale Valtellina di Delebio, che producono in oltre 200.000 forme il Casera. E stagionano il Bitto prodotto in alpeggio da alcune aziende che conferiscono il latte in inverno ma che continuano a praticare la monticazione. Le aziende che conferiscono il latte alle latterie industriali valtellinesi produttrici di Casera DOP sono in misura significativa aziende di tipo 'padano', con centinaia di Frisone, l'alimentazione spinta unifeed, le 'cuccette', la produzione di fiumi di liquame. Uno studio recente, presentato al convegno sulla zootecnia alpina del 13 ottobre (vedi articolo), ha messo in evidenza la palese insostenibilità ambientale di queste aziende del piano di Chiavenna e del fondovalle della bassa Valtellina (altrettanto piatto). Aziende che hanno carichi elevatissimi di bestiame e bilanci dell'azoto impressionanti (frutto dell'uso massiccio di concimi chimici, addizionati all'enorme produzione di liquami, e di nuclei proteici per l'alimentazione delle vacche da latte). Alla faccia di ogni 'buona pratica agronomica' e della 'condizionalità' (facilmente aggirate con i meccanismi burocratici della 'sostenibilità virtuale' efficacissimi nel peggiorare la sostenibilità reale e premiare gli inquinatori).  In questo contesto industrial-produttivista, che continua a fruire di lauti contributi pubblici (compresi quelli per la montagna), la qualità del Valtellina Casera DOP non poteva che declinare negli anni (chi conosce il Casera di 15-20 anni fa non può che essere d'accordo). Non paghi, visto che il gioco alla qualità al ribasso paga, si è voluto rovinare anche il Bitto.

 

 

Lo stand del Multiconsorzio al Salone del Gusto con il Bitto al prezzo di 22 € appena tre euro in più del Casera stagionato. Un'assurdità ma è il risultato del 'nuovo Bitto'

 

Il Bitto storico è diverso dal 'nuovo Bitto' paraindustriale

 

Come molti sostengono, proprio dalle parti di Slow Food, le DOP non garantiscono la qualità, anzi. Le 'nuove regole' del Bitto, introdotte attraverso una modifica del disciplinare di produzione avallata dalla Ue nel 2009, consentono l'uso dei mangimi e l'impiego di fermenti selezionati nel latte (saranno 'autoctoni' ma trattasi di pochissimi ceppi di Lactobacillus termophilus utilizzati per produrre bustine liofilizzate uguali per tutti). In più, ma questo sin dall'origine della DOP nell'ormai lontano 1996, il disciplinare limitava arbitrariamente il latte di capra al 10% (tradizionalmente era aggiunto nella misura del 20-30%) e consentiva anche di produrre Bitto senza una goccia di latte caprino. Sempre nel recente convegno di Bolzano l'amico Fausto Gusmeroli, analizzando i punteggi assegnati alle forme di Bitto DOP dalla giuria degli assaggiatori alla Mostra del Bitto, ha messo in evidenza come i giudici, per alcuni parametri, assegnino punteggi significativamente superiori (anche alla luce dei test statistici) al Bitto ottenuto senza utilizzo di integrazione alimentare e con aggiunta di latte di capra (vedi articolo).

L'equivalenza del Bitto ottenuto con i mangimi e senza latte di capra è stata sostenuta a spada tratta dalla Regione, dal Ministero dell'Agricoltura e finanche dalla Commissione europea che, negli anni, hanno rigettato sistematicamente tutti i ricorsi dei produttori storici che, appellandosi a buon diritto alle finalità della DOP (che dovrebbe per l'appunto garantire metodi di produzione tradizionali e costanti) si opponevano alle modifiche 'produttivistiche' al disciplinare di produzione che alteravano le caratteristiche del formaggio.  Possono essere contenti i produttori storici di trovarsi al Salone del gusto il Bitto 'snaturato'?

 

 

Lo stand del presidio del Bitto storico

 

Il 'Multiconsorzio': un paradigma del sistema di una gestione dirigistica e istituzionalizzata delle filiere agroalimentari locali

 

Per capire la gioia dei produttori storici del Bitto quando si sono trovati al Lingotto il 'Multiconsorzio' basti pensare che il direttore dello stesso è Patrizio Del Nero, politico di professione (era già segretario della federazione del PCI) che oggi occupa contemporaneamente la cadrega di Presidente del Consiglio Provinciale e quella di Direttore del Multiconsorzio (più quella di assessore nel suo comune di Albaredo ecc).

Del Nero anni fa era un fiero sostenitore del Bitto storico e del relativo Presidio Slow Food. Poi, per evidenti ragioni di convenienza, con uno spregiudicato ribaltone, è passato sull'altra sponda.

A settembre Del Nero ha tentato l'ennesima manovra contro i produttori del Bitto storico. Ad essa i 'ribelli del Bitto' hanno reagito boicottando molto civilmente della Sagra del Bitto a Gerola alta (vai all'articolo). Cosa era successo? Alla vigilia della Sagra il Del Nero aveva annunciato una 'pace del Bitto' tra Albaredo (comune di Del Nero) e Gerola (sede del Consorzio del Bitto storico). La notizia era arrivata come un fulmine a ciel sereno e i produttori storici, temendo di essere stati traditi dal sindaco di Gerola, Fabio Acquistapace, decidevano di boicottare la Sagra e di annunciare che, dal 2011, il Bitto stoico la sua mostra l'avrebbe tenuta a Branzi, nella bergamasca, voltando le spalle alla Valtellina. In seguito Fabio Acquistapace ha decisamente smentito sulla stampa locale qualsiasi 'pastetta' con Del Nero. Ma lo sconquasso è stato forte.

Presidente del 'Multiconsorzio' è Emilio Rigamonti del Salumificio Rigamonti, l'azienda leader della bresaola industriale che, sin dagli anni '70, ha 'scoperto' che conveniva moltissimo utilizzare carne congelata di zebù brasiliano, una carne dura che vale poco ma che, trasformata in bresaola crea un ottimo 'valore aggiunto'. Certo non è la bresaola artigianale.  Al confronto di quest'ultima quella di zebù sembra 'di plastica' (non è un insulto è un dato oggettivo derivante dall'assenza di succulenza).

In anni recenti Montana e Rigamonti (marchi leader) hanno venduto consistenti quote sociali ai brasiliani. Così la bresaola tipica 'valtellinese', prodotta con carne congelata che arriva da 10.000 km di distanza, è ancora più 'carioca'. Altro esponente del Multiconsorzio è Fabio Moro del Comitato per la valorizzazione dei pizzoccheri valtellinesi (pasta secca industriale). Moro è un industriale della pasta e la sua fabbrica non è neppure in Valtellina ma in Valchiavanna dove i pizzoccheri no si fanno neppure con il grano saraceno ma con la farina bianca e sono 'al cucchiaio' e non 'a tagliatella'. Ma perché sottilizzare. Non si vorrà mica prendere sul serio i discorsi sulla 'territorialità'?

Nei pizzoccheri valtellinesi non va a finire un grammo di grano saraceno valtellinese. Quando va bene è tedesco, altrimenti russo, cinese, sudafricano e di altre provenienze. Molto critico e non certo felice della presenza al Salone del gusto del suddetto 'Multiconsorzio' è anche l'amico Piero Roccatagliata, responsabile del Presidio del Grano Saraceno e fiduciario della condotta di Slow Food per la Valtellina.

 

A un po' di polemica non si può fare a meno

 

Piero mi ha fatto notare il cartello che ha esposto nello stand del Presidio ce he denuncia i troppi soldi pubblici che girano sempre intorno al business della 'promozione istituzionale'. ha ragione. Fiumi di soldi (ovviamente per il metro delle 'povere' finanze lombarde, non ci mettiamo a confronto con i ricchi trentini cui i soldi peraltro non dal cielo ma dalle tasche dei lombardi). Soldi gestiti sempre dalle stesse persone, anche se con casacche diverse. E per i piccoli produttori nulla.

Il grande stand del 'Multiconsorzio' (che, oltretutto, secondo Piero, non è neppure molto frequentato) è stato pagato dal GAL scarl. Ma cos'è il GAL scarl? I GAL (gruppi di azione locale) nascono con l'intenzione di stimolare l'iniziativa dal basso e di coinvolgere il più possibile le forze locali dell'economia privata in progetti pilota. E' figlio dei Progetti Leader (anni '90) che dovevano essere la punta di diamante della strategia e della politica di Sviluppo rurale. Una politica che nasce già ambigua in sede Ue ma che, nell'Italia dei piccoli poteri costituiti, delle clientele, del sottobosco anfibio a metà tra politica e affari, è stata in larga misura riassorbita entro gli schemi della routine (il che significa della spesa parassitaria). Roba che con i vagheggiati 'colpi d'ala' di una nuova politica di vero sviluppo rurale non c'entra nulla. Anzi lo soffoca.

Una routine in cui i produttori artigianali, i contadini, i pastori sono solo comparse da esibire nei baracconi e vedono briciole, mentre l'osso se lo spolpano in una misura consistente apparati, professionisti, faccendieri e pennivendoli che con la terra, gli animali, il latte le mani non se le sporcano. Mai.

Il GAL di Sondrio è costituito da: Provincia, Camera di Commercio, Società di Sviluppo Locale (a maggioranza pubblica), che detengono ciascuno il 15% delle quote, si aggiungono i privati. E tra i privati c'è il Multiconsorzio 'Valtellina c’è più gusto' con il 20%, Banca Popolare di Sondrio e Credito Valtellinese con il 10% a testa, Coldiretti, Unione Commercianti e Unione Artigiani con il 4% ciascuna, Confcooperative con il 3%. A cosa serve il GAL che come si vede è una compagine del tutto istituzionale al di là della formale maggioranza di 'privati'? A distribuire le risorse previste dal Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013 - Asse 4 Leader. il GAL predispone i Bandi e le convenzioni per svolgere le attività previste dalle dodici Misure di intervento approvate. E' lecito pensare che i soggetti del GAL finanzieranno prevalentemente se stessi lasciando ben poco spazio a iniziative 'indipendenti'?

Notare che i 'privati' sono in gran parte cooperative (altra realtà anfibia). La presenza di un piccolo viticoltore (Alberto Marsetti) nel consiglio de GAL ha tutta l'aria di essere 'di facciata'. Ben più 'organica' la presenza nel consiglio di Marco Deghi, il direttore del più grosso caseificio cooperativo industriale della Valtellina, la già citata Latteria Sociale Valtellina.   La presidenza del Gal è stata assegnata, su indicazione della Provincia, ad Attilio Tartarini della Coldiretti (che a Sondrio è del tutto allineata agli industriali dell'agroalimentare).

Morale della favola. Due presidi di eccellenza di Slow Food come quelli del Bitto storico e del Grano saraceno della Valtellina si sono trovati al Salone del gusto i loro 'nemici'.

 

Mela aspirante globish (e molto chemio) che ci fai al Salone?

 

Nell'area del Salone confinante a quella della Lombardia c'è quella del Trentino. Passando non ho potuto fare a meno di notare il grande stand del Consorzio Melinda. Di Melinda in questo sito ci siamo occupati in più occasioni. Al disappunto per la presenza del Multiconsorzio valtellinese si è aggiunto quello per la presenza di Melinda. Qualche settimana fa (era il 9 settembre) mi ero recato con Marzia Verona dai pastori di Bellino in val Varaita (vai all'articolo). Passando dalla zona del Saluzzese dove molte aziende si dedicano alla frutticolture e, in particolare, alla melicoltura, Marzia che - pur avendo sempre i pastori e il pastoralismo nel cuore - ha in corso una collaborazione nel campo della frutticoltura, mi ha raccontato delle difficoltà di piazzare sul mercato le mele locali. A dispetto del km0 e del fatto che qui, come nel vicino Pinerolese, le mele sono meno trattate (non c'è una monocoltura come in val di Non e ai filari di mele sono alternati i kiwi e le pesche così da ridurre la carica dei patogeni). Marzia mi diceva che i negozianti ai melicoltori dicono: "la gente non ci chiede 'le mele', ci chiede 'Melinda'". E' ipnotizzata, condizionata dalle martellanti campagne pubblicitarie di Melinda. Melinda in realtà non vende una mela, una Golden delicious (73% delle mele Melinda) o un'altra delle varietà 'globale' molto produttive, standardizzate, serbevoli (ma anche poco resistenti alle avversità).  Vende un Bollino. Anzi, meglio, vende campagne promozionali dei 'creativi'.

 

Da Chichita a Melinda

 

L'idea del marchio e del bollino non è certo originale ma Melinda con continue ed efficaci campagne di pubblicità televisiva ha sfruttato a pieno le sue potenzialità. In realtà l'idea di un bollino e dell'identificazione di un nome accattivante ed esotico di donna con un frutto nasce con Chiquita.  È del 1962 l'idea di applicare una piccola etichetta adesiva ogni singola banana e, nel 1967 approdano in Europa le prime banane con il bollino (blu). Nel 1986 la banana animata si trasforma in donna. Ma già prima quel bollino, sostenuto da intense campagne pubblicitarie, aveva trasformato le banane della United Fruits in qualcosa d'altro: in Chiquite. E i ragazzini chiedevano Chichite (anch'io, lo confesso alla mamma chiedevo Chichita). Potenza della televisione.

Melinda sfrutta un nome di donna molto diffuso nel mondo anglosassone (quindi con l'appeal del global) che è la contrazione di mela linda = mela pulita (col cavolo!). Un gioco che funziona solo in italiano. Per il mercato globale rimane la risorsa di un suadente nome femminile (detto in altri termini evoca delle gnocche dello star system). E' anche il titolo di un musical degli anni '70.

 

 

Certo che pensare alla United Fruits come prototipo di Melinda dovrebbe creare qualche imbarazzo. Proprio dalle parti del salone del gusto e di Slow Food.  Dove molti in gioventù hanno letto libri su libri che parlavano della United Fruits come l'orco cattivo, la multinazionale imperialista yenkee che corrompeva tutti, che faceva i golpe in America centrale quando le garbava, che sfruttava il povero proletariato terzomondiale, che usava la chimica a go go ecc. ecc..

 

Un sistema intensivo che fa grande uso di pesticidi e che mette fuori mercato i distretti melicoli 'minori' e vuole essere globish

 

Ma veniamo a cose più concrete e vicine a noi. Melinda ha costretto la concorrenza a seguirla. Sono arrivate la sudtirolese Marlene (scontata!) e la sfigata Melavì (e che vuol dì?). Sfigata per quanto detto sopra, ossia per il fatto che la Lombardia regala venticinque miliardi all'anno alle altre regioni che non sanno come spendere i soldi e non è in grado di sostenere adeguatamente le sue produzioni (dagli spumanti alle mele).

Nello stesso Trentino, per opera della coop Mezzacorona, è nata di recente Valentina che richiama il  fumetto di Guido Crepax ideatore, guarda caso, anche di un altro personaggio sensuale - leggi sempre gnocca - ... Belinda. Toh! Gira che ti rigira ... si para sempre lì.

Ma Melinda rimane Melinda. Produce 310mila tonnellate di mele (su due milioni di tonnellate prodotte in Italia); punta di diamante di una melicoltura trentino/sudtirolese molto specializzata ed intensiva che in val d'Adige e dintorni produce il 60% delle mele italiane.  Togliendo spazio ai tanti piccoli 'distretti della mela'. Alla faccia del km0, della varietà colturale, della monocoltura brutta e cattiva (si ma poi?).

Ora Melinda punta al mercato russo (pensando a quello indiano e cinese) e ci sarebbe da dire: "la globalizzazione è cattiva quando i cinesi portano i pomodori in Italia e buona quando i trentini portano le mele in Russia"? Associare Melinda al titolo del Salone (cibo = territori)  mi pare stridente e un po' di cattivo gusto anche pensando ai melicoltori piemontesi. Non parliamo dei poveri nonesi (gli abitanti della val di Non). Non tutti, in nome del business Melinda, accettano di subire la presenza dei numerosi trattamenti con i pesticidi (decine in un anno) a pochi metri dalle case. La logica della monocoltura è spietata: via i prati, mele che si inerpicano sulla montagna, che 'abbracciano' i nuclei abitati. Il Comitato per la salute della val di Non (Non-Pesticidi) ha fatto eseguire analisi a sue spese (funziona così nella 'società del rischio'!) che dimostrano la presenza di residui di pesticidi nelle urine dei bambini (vedi articolo) ma le 'autorità' rassicurano: "meno cancro qui che altrove". Eppure tra i pesticidi utilizzati (tanti) ve ne sono alcuni che da anni sono indicati da molte fonti come pericolosi . Non farebbe piacere al Comitato per la salute noneso vedere lo stand di Melinda campeggiare nel Salone del gusto e non ha sicuramente fatto piacere vedere come Melinda si sia 'appropriata' del Salone (e persino di Terra Madre) strumentalizzando e capitalizzando la sua presenza (vedi sotto il comunicato che appare sul sito di Melinda).

 

Con uno stand non si compra solo uno spazio ma si compra anche altro ...

 

Comprando/vendendo uno stand ci si appropria/si vendono anche i valori e simboli trasmessi dal 'contenitore'. C'è da che storcere la bocca leggendo come Melinda incensa il Salone del gusto e Terra madre insinuando, mica troppo subliminalmente, la sua identificazione con il cibo buono, pulito e giusto. Roba che lascia l'anmato in bocca, specie dopo che qualche settimana fa un manager che segue la promozione di Melinda  si è lasciato pubblicamente andare ad affermazioni tipo "solo sesso e droga rendono meglio di Melina" e "per ogni euro di pubblicità televisiva ce ne tornano due". L'incauto, ma sincero, 'ganassa'  è stato 'cazziato' ma ha dichiarato la verità: Melinda è un frutto ... televisivo.

 

 


Comunicato di Melinda (www.melinda.it)

 

19/10/2010 - SALONE DEL GUSTO 2010

Torino, 21-25 ottobre 2010 Lingotto Fiere

Il Salone del Gusto giunge alla sua ottava edizione, consacra in maniera compiuta la propria vocazione internazionale e si afferma come un momento centrale nel calendario di chiunque al mondo abbia a cuore il cibo. Insieme a Terra Madre, con la quale costituisce ormai due parti inscindibili e interconnesse che dialogano fittamente tra di loro, il Salone del Gusto è forse l’unico luogo al mondo dove contadini e artigiani, il mondo della cultura accademica e i cuochi, grandi cultori dell’enogastronomia e “semplici” neofiti si possono incontrare, dando vita a scambi e amicizie.
È il luogo dove si realizza una fitta rete di relazioni
 nel nome di un cibo sostenibile, che sappia ancora trasmettere gioia, e a cui sia restituito il suo pieno valore. Il Salone del Gusto è quindi un evento educativo, perché permette di imparare, conoscere, confrontare e informarsi, ma tutto questo si realizza nel nome di un diritto al piacere molto responsabile e pienamente condiviso. È soprattutto una festa, fatta per conoscere ciò che mangiamo e celebrare l’umanità che è coinvolta nella sua produzione.

 

 

 

 

 

 

                   

 

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